Report ritorna ad occuparsi di Tim, perché dobbiamo comprare una parte dell’azienda per 20 miliardi di euro quando comprarla tutta in Borsa ne costerebbe 4?
Poi un servizio sulla Lega, anzi sulle Leghe, quella di Salvini e quella che deve restituire i 49ml allo Stato. Infine il servizio sui rifiuti campani inviati in Tunisia e da lì tornati indietro.
La
situazione dentro Tim
Tim potrebbe
essere la prossima Alitalia,
un’azienda malgestita dal pubblico e dal privato, che oggi è un
peso che zavorra lo Stato e i conti?
Un
mese fa
Report si era occupata di Tim, delle lotte politiche fatte dietro
questa azienda, del ruolo di Vivendì e dell’ex VeeJay Andrea
Pezzi, consulente strategico del presidente di Vivendì, oggi
azionista di maggioranza. Oggi i francesi chiedono 31 miliardi allo
Stato italiano per vendere la rete quando però, con un’OPA, si
potrebbe comprare Tim in Borsa per 5 miliardi di euro, circa: come
mai questo paradosso? Cassa Depositi e Prestiti con 2 miliardi
potrebbe fare questa Opa parziale con l’aiuto dei fondi su Telecom–
spiega l’analista finanziario Matteo Decina – e diventerebbe così
l’azionista di maggioranza di Telecom, avrebbe sì 30 miliardi di
debiti lordi, ma vendendo Tim Brasil e Tim Servizi per 20 miliardi e
così i debiti diventano 5 miliardi netti, questo sarebbe
l’optimum.
Il grande problema per il governo italiano sono i
francesi di Vivendì, che avevano comprato il 23% di Tim quando il
titolo valeva 1 euro, ma dopo sette anni le azioni sono crollate a
circa 20 centesimi. Quindi se ora vendessero la propria quota al
prezzo attuale di mercato l’azienda francese rischierebbe di
perderci miliardi.
“Vivendì
è un problema perché è un socio che si è fermato alla soglia
dell’OPA al 24%” commenta Fabrizio Solari segretario nazionale
SLC CGIL “quindi non è il padrone di Tim, ma ha una massa critica
tale da impedire che qualcun altro possa decidere al suo posto.”
Ma
qual è la visione industriale che Vivendì ha di Tim allora?
Risponde sempre il sindacalista, “non ce l’ha.”
Così oggi
i lavoratori di questa azienda strategica per il nostro paese,
attraverso cui passa un bel pezzo di servizi digitali, lavorano in
solidarietà: cosa vuol dire?
Lo
racconta una dipendente, Sonia Milano: “la cosa triste è che ci
siamo abituati [a lavorare in solidarietà] perché 12 anni sono
tanti. Vuol dire che la carriera si ferma, perché non ci sono i
soldi, quindi non è possibile più di tanto dare i premi,
promozioni, una tantum. Nonostante le esternalizzazioni e i tagli
dello stipendio e il blocco delle carriere la maggior parte dei
lavoratori di Tim continua a nutrire un senso di fierezza per il
proprio lavoro.
È sempre Sonia a parlare: “credo ancora
tanto in questa azienda, credo che sia un’azienda che può
continuare a fare bene per il paese e che può continuare a crescere.
Sono orgogliosa di lavorare in Tim e quello che faccio mi piace.”
Vivendì
è azionista di maggioranza dal 2018: da quel momento l’azienda è
nel mezzo tra i francesi, il fondo americano Elliot e Cassa Depositi
e Prestiti che hanno acquistato importanti pacchetti azionari e
contendono ai francesi il controllo del CDA.
Un ex dirigente
Tim che ha accettato di parlare con Report ma in forma anonima
racconta di come, dal 2018, Vivendì abbia preso schiaffi da CDP e
dal fondo Elliot: si sono ritrovati in difficoltà non avendo più
referenti politici diretti, per questo – racconta il dirigente –
cercano un contatto coi servizi segreti italiani (che la fonte chiama
“deep state italiano”). Tra ottobre e novembre 2018 in una sede
riservata dei servizi vicino piazza Sallustio a Roma, il capo dei
servizi incontra il presidente di Vivendì de
Puyfontaine che
si porta dietro anche Andrea Pezzi, promotore dell’incontro, grazie
alla mediazione di un politico del centro destra.
Pochi mesi
dopo viene nominato Salvatore Rossi come presidente di Tim e Luigi
Gubitosi come AD, espressione del fondo Elliot.
Nel
precedente servizio Giorgio Mottola era andato a chiedere conto di
questo incontro proprio al presidente de
Puyfontaine al
meetig di Rimini, di cui Tim era sponsor.
Non è stato possibile
fare domande, senza passare prima dall’ufficio stampa: solo Andrea
Pezzi ha accettato di rispondere alle domande di Mottola, nel
passato servizio, raccontando dei suoi rapporti con la deputata di
Forza Italia Deborah Bergamini che nel governo Draghi era all’interno
della commissione sulle Telecomunicazioni.
Il
servizio racconterà anche della infelice storia della
privatizzazione di Tim: “c’è
stato un tempo in cui tutti i dipendenti e non solo tutto il paese
era orgoglioso di ciò che rappresentava Telecom.”
Vito
Gamberale, primo
AD
di
Telecom Italia
negli anni 1995-97 racconta che era il riferimento di Bill Gates,
“che ci veniva a trovare una volta l’anno per
prendere spunto da quello che facevamo per poter sviluppare i servizi
che poi Ms ha sviluppato.”
Telecom
Italia è l’azienda statale nata nel ‘94 dalle ceneri della
vecchia SIP, all’epoca era la sesta compagnia telefonica più ricca
al mondo che alla fine degli anni ‘90 arrivò ad essere presente in
più di 30 paesi al mondo, tra Europa e Sudamerica. Era una società
solidissima che incassa alti fatturati e riconoscimenti
internazionali, come il premio per l’azienda più innovativa al
mondo vinto nel 1999 per aver introdotto in Italia la carta prepagata
nel 1995.
Telecom era fantastica allora, ricorda Romano Prodi:
sebbene fosse fantastica nel 1997 Prodi decide di privatizzarla nella
convinzione che il grosso delle azioni sarebbe stato comprato da
aziende italiani, “sarà il nocciolo duro della nuova Telecom”,
così annunciava il governo.
Ma il nocciolo si rivela presto un
nocciolino: non va oltre infatti il 6,6% la quota che si limita ad
acquisire una cordata di istituti finanziari di cui fa parte l’Ifil,
la cassaforte della famiglia Agnelli che, con appena lo 0,6% diventa
l’azionista di riferimento di Telecom.
“Io volevo un blocco
degli italiani grossi” ricorda oggi Prodi, “perché volevo che il
telefono rimanesse in Italia e io dovetti insistere con Umberto
Agnelli dicendo ‘ma è un interesse per l’Italia. Io devo
privatizzare, è un interesse vostro’. Non hanno capito niente,
appena sono arrivati hanno venduto, hanno guadagnando o addirittura
hanno spolpato vendendo le case e gli uffici.”
In Telecom gli
Agnelli restano per soli due anni ma fanno in tempo per avviare la
svendita del patrimonio immobiliare dell’azienda. Dopodiché escono
dall’azionariato, vendendo le loro azioni e incassando una
plusvalenza di 204 ml di euro.
Come mai un’azienda modello
come quella poi è finita in mano a degli speculatori
sostanzialmente, che l’hanno spolpata e basta?
“Lei
può dare la colpa anche a me” risponde Prodi alla domanda del
giornalista di Report “nel senso che io ho cercato dei compratori
più affidabili che ci fossero ..”
Mottola ha chiesto ad un
altro presidente del Consiglio di quel periodo, Massimo D’Alema, se
le modalità con cui si è proceduto alla privatizzazione di Telecom
furono sbagliate: “sicuramente
il risultato della privatizzazione non fu brillante, la famiglia
Agnelli sostanzialmente ne deteneva il controllo avendo preso lo 0,6%
delle azioni. Fu un po’ la pretesa di una sorta di aristocrazia del
capitalismo italiano di fare i padroni senza metterci i soldi.”
Nel
1999 gli Agnelli liquidano le loro quote ad una cordata capeggiata da
Roberto Colaninno, AD di Olivetti, la scalata riceve la benedizione
del presidente del Consiglio Massimo D’Alema che in un discorso
pubblico esalta il coraggio di Colaninno e dei suoi soci.
“No”
risponde D’Alema al giornalista “io mi limitai a dire che,
siccome sembrava uno scandalo, ci sono degli imprenditori che hanno
il coraggio di scommettere sul futuro di questa azienda e ci mettono
dei soldi. Ci fu una valutazione molto attenta, e decidemmo di tenere
una posizione di neutralità.”
All’epoca questa neutralità
voleva dire dare il via libera all’OPA.
“Vorrei capire qual
era l’alternativa, che dovevamo rinazionalizzarla. Il via libera lo
diede il mercato attraverso la gente che aderì all’OPA. Non fu una
scelta del governo.”
Diversa l’opinione dell’allora
AD Gamberale: “era una operazione ardita, erano validi imprenditori
che avevano avuto un dignitoso sviluppo, nel loro ambito
territoriale.. ”
Infatti nella scalata a Colaninno mancavano i
soldi anche perché la sua Olivetti era 4 volte più piccola della
Telecom e così la sua OPA che vedeva la regia occulta di Mediobanca
di Enrico Cuccia viene realizzata quasi del tutto a debito: vale
a dire che i soldi usati per la scalata vengono quasi tutti chiesti
in prestito alle banche che, però, non si rifanno su Colaninno ma
direttamente su Telecom.
“Telecom che aveva in indebitamento
bassissimo” ricorda Vito Gamberale “si trovò ad essere gravata
di un debito non di natura industriale. Fu introdotto un debito
cattivo che è come aver insinuato nel corpo di Telecom un germe di
cui poi non si sarebbe mai potuto riuscire a trovare l’antidoto e
il vaccino.”
D’Alema sapeva che la scalata sarebbe stata
fatta a debito e che i debiti sarebbero ricaduti sull’azienda:
“questo era il problema di quell’operazione per la quale noi
chiedemmo quali programmi ci fossero. Ma, ripeto, dal punto di vista
del piano industriale l’operazione era credibile.”
Nel
2001 arriva Silvio Berlusconi al governo e in Telecom è il turno di
Marco Tronchetti Provera, patron della Pirelli. Anche la sua scalata
è fatta contraendo debiti che esplodono però soprattutto dopo la
fusione di Telecom con la sua partecipata Tim. In questo modo
l’indebitamento della compagnia telefonica raggiunge la cifra
monstre di 39 miliardi di euro.
Sulla gestione Tronchetti
Provera torna Gamberale: “secondo me la gestione Tronchetti Provera
dal punto di vista prettamente industriale è stata la meno estranea.
Poi furono aggiunte della operazioni finanziarie che non avrebbero
portato alcun beneficio nel gruppo ma anzi sarebbero state malefiche,
come l’OPA sul flottante di Tim che incrementò il debito.”
Oggi
l’azienda sembra allo stato finale della malattia: se nel 97
un’azione di Telecom valeva circa 6€, oggi il titolo è
sprofondato a 0,18€. All’inizio del secolo Telecom aveva filiali
in 30 nazioni, al momento è presente solo in Brasile, ma nonostante
i numeri disastrosi in molti hanno festeggiato.
In 25 anni gli
azionisti privati sono riusciti a spartirsi oltre 60 miliardi di
dividendi e le banche d’affari americane hanno incassato 30
miliardi di euro di interessi sui debiti di Telecom.
La scheda
del servizio: QUESTA
È TIM di Giorgio Mottola
collaborazione Norma
Ferrara
Tim potrebbe essere la prossima Alitalia. Per correre ai ripari questa estate la nuova dirigenza ha presentato un piano per dividere l’azienda in due con l’obiettivo di cedere a Cassa depositi e prestiti la rete fissa, su cui grava la maggior parte dei debiti e dei dipendenti. Un progetto che la scorsa settimana è stato ufficialmente bocciato dal governo Meloni che però finora non ha ancora presentato una proposta alternativa. Nel frattempo, il titolo in Borsa è crollato e gli indici finanziari non lasciano ben sperare. Eppure, 25 anni fa Telecom era una delle aziende floride del nostro Paese e la sesta società di telecomunicazioni del mondo. Come siamo arrivati a questo punto? Con interviste esclusive a ex presidenti del consiglio ed ex amministratori delegati di Telecom, Report ricostruirà la storia dell’ex azienda di Stato, che dopo un quarto di secolo ha subìto un vero e proprio tracollo finanziario e industriale. Di chi sono state le responsabilità? Con documenti inediti Report accenderà, inoltre, un faro su alcuni progetti e contratti anomali stipulati da Tim nel periodo in cui stava per chiudere l’accordo con Dazn sui diritti della serie A di calcio.
Cosa succede in casa della Lega
C’è una Lega di
governo, quella di Salvini, sovranista, più vicina ai regimi come
Ungheria e la Russia di Putin che ai valori europei (sempre che
esistano). Esiste una corrente scissionista, quella di Bossi, che
vorrebbe un ritorno alla Padania libera ovvero quell’autonomia
politica che potrebbe arrivare dalla sciagurata riforma che questo
stesso governo sta pensando.
Esiste poi un’altra Lega, la bad
company che deve gestire la restituzione dei 49ml, i famosi rimborsi
elettorali che il partito non doveva ottenere dallo Stato
italiano.
Salvini si difende dicendo che quei soldi non ci sono
più, che sono stati spesi. E che non esiste alcun legame tra la
vecchia Lega e la nuova. Ma è così?
Si parte dal palco sul
prato di Pontida dove il segretario lo scorso settembre ha detto “chi
non ha memoria non ha futuro”, chiudendo il discorso con un
ringraziamento a Bossi.
Ma chi votano le persone radunate a
Pontida? La Lega di Salvini premier ovviamente, la Lega Nord non
esiste: “Salvini è stato abile nel far credere alla gente che la
Lega Nord si fosse trasformata, in realtà lui la Lega nord l’ha
congelata, surgelata, sicuramente inchiodata senza possibilità di
far politica e ne ha aperto un altro” racconta a Luca Chianca
Gianluca Pini, ex deputato della Lega Nord (quella dell’indipendenza
della Padania).
Sembra un unico partito, però tecnicamente
diviso in due: “si probabilmente per evitare di assorbirne i
debiti.”
La vecchia Lega
Nord, per volere di Salvini, segretario, non fa più attività
politica, non presentandosi alle elezioni, eppure la procura di
Genova aveva permesso di spalmare in ben 70 anni il debito dei 49 ml
di euro per le truffe dei rimborsi elettorali. Proprio per evitare
che un partito chiudesse e consentire a milioni di elettori di votare
ancora Lega Nord.
“Il problema è che è stata una presa in
giro” racconta a Report Pini “per la Procura, per la Cassazione,
per la Corte dei conti e per gli elettori della Lega Nord, perché
immediatamente dopo aver fatto questo tipo di accordo la Lega Nord
non ha più fatto attività politica. Pur continuando a percepire dei
soldi.”
Oggi la Lega Nord continua a percepire il 2 x 1000 e
con quei soldi paga il debito allo Stato, ma come ha scoperto
Giovanni Tizian giornalista del quotidiano Domani, la sua
immobiliare, la Pontida Fin, incassa anche altri soldi che arrivano
dalla Lega di Salvini. Prima di tutto l’affitto per la sede di via
Bellerio, di proprietà della vecchia Lega.
“Inizialmente il
contratto di locazione prevedeva un affitto di 120 mila euro, poi
dopo un anno, incredibilmente senza una motivazione particolare,
viene triplicata questa cifra che diventa 320 mila euro. Una cifra
sbalorditiva per quel luogo.”
La Lega di Salvini versa
l’affitto all’immobiliare Pontida Fin di proprietà della vecchia
Lega Nord, alla quale paga anche l’affitto per il pratone del
raduno, in questo caso per la cifra astronomica di 250mila euro per
un giorno.
Perché
la Lega paga se stessa per l’affitto del prato di Pontida? Alla
domanda il presidente Zaia non ha voluto rispondere, “se mi parli
degli affitti del Veneto so tutto”. Fedriga, presidente del Friuli
Venezia Giulia risponde dicendo che va chiesto agli amministratori
..
Probabilmente questo contratto di locazione serve proprio per
tenere distinti e mostrare all’autorità giudiziaria, al mondo, che
Lega Salvini premier e Lega Nord sono due cose distinte, però è una
distanza fittizia – risponde il giornalista Tizian.
Certo, il
tesoriere è lo stesso nelle due Leghe, utilizzano la stessa sede,
utilizzano Pontida, difficile dire che siano due partiti diversi.
Non
sarebbe più semplice rivalersi sulla nuova Lega? Luca Chianca l’ha
chiesto al procuratore di Genova Francesco Pinto: “no perché il
soggetto politico che che è stato indicato come indebito percettore
di quelle somme è un soggetto che formalmente è ancora esistente.”
La scheda
del servizio SLEGATI
IN CASA di Luca Chianca
collaborazione Alessia
Marzi
Abbiamo vissuto una campagna elettorale mai vista finora. Salvini ha tentato fino all'ultimo di contendersi la premiership con l'alleata Meloni, radunando migliaia di simpatizzanti nel sacro prato di Pontida, dove ha avuto inizio la storia del vecchio partito guidato da Umberto Bossi. Ma cosa nasconde questo prato dove son tornati a radunarsi i vecchi militanti della Lega Nord e di quella di Salvini Premier? Uno scambio di soldi tra i due partiti. La Lega di Salvini, infatti, ha versato all’immobiliare Pontida Fin, di proprietà della vecchia Lega nord, ben 250 mila euro per l'affitto di un solo giorno di raduno. Pochi giorni dopo, con una parte di quei soldi, il vecchio partito ha pagato Francesco Barachetti, l'imprenditore condannato a dicembre scorso a 5 anni nella vicenda dell’acquisto della nuova sede della Film Commission lombarda perché avrebbe sottratto fondi pubblici, con i due contabili del partito di Salvini, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Nomi noti per Report che si è occupato più volte della vicenda. L'estate scorsa, però, spunta una storia esclusiva che vede coinvolto sempre l’imprenditore Barachetti e un comune amministrato dalla Lega. Questa volta al centro dell'inchiesta è la caserma dei carabinieri di Trezzo sull'Adda, dove Barachetti nel 2016 si è aggiudicato un appalto da 600mila euro per terminarne i lavori.
Lo scandalo dei
rifiuti inviati in Tunisia
Il servizio sui rifiuti
andanti avanti e indietro dalla Tunisia doveva andare in onda lunedì
scorso, ma è poi slittato per dare spazio alla frana di Ischia.
Questa sera Report ritorna
sullo scandalo dei 282 container di rifiuti che dalla Campania
furono mandati in Tunisia per essere smaltiti e che da lì sono
tornati indietro perché il loro governo stabilì che erano illegali,
perché le strutture locali non erano in grado di gestirli: oggi chi
pagherà per questo?
Una volta che il tribunale di Salerno e
Potenza stabiliranno le responsabilità e la quantificazione del
danno, restano i danni da pagare in Tunisia. L’ambasciatore
tunisino, diversamente da quello che ha fatto la regione Campania, ci
ha messo la fascia ha avvertito il nostro paese: “noi abbiamo
subito danni. Due anni, il 20% dello spazio commerciale del porto di
Sousse è stato bloccato. E dunque è un danno finanziario, un danno
sociale, un danno ambientale. Lo Stato italiano è responsabile,
anche se sono stati dei privati che hanno fatto, ma non lasceremo
nulla di questa cosa perché vogliamo dare un esempio. Così, prima
di esportare rifiuti illegalmente, sottolineo, devono riflettere due
volte prima di farlo.”
Intanto la Tunisia insiste perché
l’Italia torni a riprendersi anche la seconda parte dei rifiuti,
cioè 69 containers rimasti nella ditta tunisina e che in parte sono
stati bruciati: lo ha sottolineato l’ambasciatore stesso
nell’intervista con Bernardo Iovene, “la priorità è il
rimpatrio dei rifiuti, la seconda parte. Poi vedremo. Sono convinto e
spero che fra poche settimane riusciremo anche a chiudere
definitivamente questa vicenda.”
Il
21 dicembre 2021 l’ex ministro degli Esteri Di Maio andò in
missione diplomatica in Tunisia dove incontro il ministro degli
Esteri, la Premier e il presidente Saied: durante quell’incontro si
parlò di migranti, stabilità interna e anche della questione dei
rifiuti arrivati dall’Italia nel luglio 2020. Fatalmente –
racconta il servizio di Iovene – dopo la visita di Di Maio i
rifiuti parcheggiati nella ditta tunisina Soreplast vanno a fuoco. Si
tratta di quasi 1900 tonnellate che sono ancora stoccati nel
capannone della società tunisina.
In Tunisia il ministro e i
funzionari che hanno seguito questa vicenda sono ancora in carcere
cautelativo dopo due anni. L’ambasciatore Moez Sinaoui spiega che
“per la prima volta nella storia tunisina un ministro è andato dal
suo ufficio alla casella prigione, come si dice.. la prima volta
perché c’era anche complicità delle autorità tunisine.”
Sono
ancora in carcere, continua, perché questo è diventato uno scandalo
politico, “in Italia non se ne è parlato, perché il danno per la
Tunisia è non solo economico, ma anche sociale, economico, politico
e ambientale.”
Così il 20 febbraio scorso, presenti le
autorità tunisine, i container lasciano il porto di Sousse e tornano
a Salerno. Ma appena sbarcati vengono sequestrati dalla procura, la
regione ordina poi di stoccarli provvisoriamente nel comprensorio
militare di Persano a Serre, in provincia di Salerno, dove già nel
2007 stoccarono, sempre temporaneamente, le ecoballe dell’emergenza
rifiuti che però sono ancora qui.
La regione non ha contattato
il sindaco su questa scelta, che hanno saputo dell’arrivo dei
container dai giornali: appena saputo dell’arrivo dei rifiuti dalla
Tunisia, sindaci ambientalisti e cittadini sono tornati a protestare
come 15 anni fa. “La cittadinanza non vuole questi rifiuti”
racconta a Report il sindaco di Serre: la scelta di stoccarli in un
sito militare è stata fatta apposta per evitare che la protesta
potesse sfociare in un blocco serio – aggiunge un membro del
comitato “Battipaglia dice no”
La scheda
del servizio: IL
RESO TUNISINO di Bernardo Iovene
Collaborazione
Greta Orsi - Lidia Galeazzo
Nel 2021 Report aveva documentato la spedizione dal porto di Salerno di 282 container di rifiuti in Tunisia. Furono sequestrati nel porto di Sousse perché illegali per il governo tunisino, e finirono in carcere il ministro dell’ambiente e vari funzionari della dogana e dell’agenzia nazionale dei rifiuti tunisina. La Tunisia ha fatto pressioni perché i rifiuti tornassero in Italia, ci sono state anche proteste da parte degli ambientalisti sotto la nostra ambasciata a Tunisi. Bernardo Iovene ha ricostruito gli aggiornamenti della vicenda a partire dal viaggio del nostro ministro degli esteri il 28 dicembre del 2021 in Tunisia, fino al rientro dei rifiuti l’11 febbraio di quest’anno. Trasportati in centri di raccolta nella piana del Sele in provincia di Salerno nei comuni di Serre, Persano Altavilla e Battipaglia, la loro presenza ha suscitato le proteste dei cittadini dell’area. Restano decine di milioni di euro da pagare dopo che la nostra magistratura avrà stabilito le responsabilità. Ma la storia non è finita: in Tunisia ci sono ancora 69 container da riportare in Italia, sui quali la Tunisia ci fa sapere che non transige.
Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.
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