12 dicembre 2022

Anteprima inchieste di Report – la situazione in Tim e nella Lega di Salvini

Report ritorna ad occuparsi di Tim, perché dobbiamo comprare una parte dell’azienda per 20 miliardi di euro quando comprarla tutta in Borsa ne costerebbe 4?

Poi un servizio sulla Lega, anzi sulle Leghe, quella di Salvini e quella che deve restituire i 49ml allo Stato. Infine il servizio sui rifiuti campani inviati in Tunisia e da lì tornati indietro.

La situazione dentro Tim

Tim potrebbe essere la prossima Alitalia, un’azienda malgestita dal pubblico e dal privato, che oggi è un peso che zavorra lo Stato e i conti?

Un mese fa Report si era occupata di Tim, delle lotte politiche fatte dietro questa azienda, del ruolo di Vivendì e dell’ex VeeJay Andrea Pezzi, consulente strategico del presidente di Vivendì, oggi azionista di maggioranza. Oggi i francesi chiedono 31 miliardi allo Stato italiano per vendere la rete quando però, con un’OPA, si potrebbe comprare Tim in Borsa per 5 miliardi di euro, circa: come mai questo paradosso? Cassa Depositi e Prestiti con 2 miliardi potrebbe fare questa Opa parziale con l’aiuto dei fondi su Telecom– spiega l’analista finanziario Matteo Decina – e diventerebbe così l’azionista di maggioranza di Telecom, avrebbe sì 30 miliardi di debiti lordi, ma vendendo Tim Brasil e Tim Servizi per 20 miliardi e così i debiti diventano 5 miliardi netti, questo sarebbe l’optimum.
Il grande problema per il governo italiano sono i francesi di Vivendì, che avevano comprato il 23% di Tim quando il titolo valeva 1 euro, ma dopo sette anni le azioni sono crollate a circa 20 centesimi. Quindi se ora vendessero la propria quota al prezzo attuale di mercato l’azienda francese rischierebbe di perderci miliardi.

Vivendì è un problema perché è un socio che si è fermato alla soglia dell’OPA al 24%” commenta Fabrizio Solari segretario nazionale SLC CGIL “quindi non è il padrone di Tim, ma ha una massa critica tale da impedire che qualcun altro possa decidere al suo posto.”
Ma qual è la visione industriale che Vivendì ha di Tim allora? Risponde sempre il sindacalista, “non ce l’ha.”
Così oggi i lavoratori di questa azienda strategica per il nostro paese, attraverso cui passa un bel pezzo di servizi digitali, lavorano in solidarietà: cosa vuol dire?

Lo racconta una dipendente, Sonia Milano: “la cosa triste è che ci siamo abituati [a lavorare in solidarietà] perché 12 anni sono tanti. Vuol dire che la carriera si ferma, perché non ci sono i soldi, quindi non è possibile più di tanto dare i premi, promozioni, una tantum. Nonostante le esternalizzazioni e i tagli dello stipendio e il blocco delle carriere la maggior parte dei lavoratori di Tim continua a nutrire un senso di fierezza per il proprio lavoro.
È sempre Sonia a parlare: “credo ancora tanto in questa azienda, credo che sia un’azienda che può continuare a fare bene per il paese e che può continuare a crescere. Sono orgogliosa di lavorare in Tim e quello che faccio mi piace.”

Vivendì è azionista di maggioranza dal 2018: da quel momento l’azienda è nel mezzo tra i francesi, il fondo americano Elliot e Cassa Depositi e Prestiti che hanno acquistato importanti pacchetti azionari e contendono ai francesi il controllo del CDA.
Un ex dirigente Tim che ha accettato di parlare con Report ma in forma anonima racconta di come, dal 2018, Vivendì abbia preso schiaffi da CDP e dal fondo Elliot: si sono ritrovati in difficoltà non avendo più referenti politici diretti, per questo – racconta il dirigente – cercano un contatto coi servizi segreti italiani (che la fonte chiama “deep state italiano”). Tra ottobre e novembre 2018 in una sede riservata dei servizi vicino piazza Sallustio a Roma, il capo dei servizi incontra il presidente di Vivendì
de Puyfontaine che si porta dietro anche Andrea Pezzi, promotore dell’incontro, grazie alla mediazione di un politico del centro destra.
Pochi mesi dopo viene nominato Salvatore Rossi come presidente di Tim e Luigi Gubitosi come AD, espressione del fondo Elliot.

Nel precedente servizio Giorgio Mottola era andato a chiedere conto di questo incontro proprio al presidente de Puyfontaine al meetig di Rimini, di cui Tim era sponsor.
Non è stato possibile fare domande, senza passare prima dall’ufficio stampa: solo Andrea Pezzi ha accettato di rispondere alle domande di Mottola,
nel passato servizio, raccontando dei suoi rapporti con la deputata di Forza Italia Deborah Bergamini che nel governo Draghi era all’interno della commissione sulle Telecomunicazioni.

Il servizio racconterà anche della infelice storia della privatizzazione di Tim: “c’è stato un tempo in cui tutti i dipendenti e non solo tutto il paese era orgoglioso di ciò che rappresentava Telecom.”

Vito Gamberale, primo AD di Telecom Italia negli anni 1995-97 racconta che era il riferimento di Bill Gates, “che ci veniva a trovare una volta l’anno per prendere spunto da quello che facevamo per poter sviluppare i servizi che poi Ms ha sviluppato.
Telecom Italia è l’azienda statale nata nel ‘94 dalle ceneri della vecchia SIP, all’epoca era la sesta compagnia telefonica più ricca al mondo che alla fine degli anni ‘90 arrivò ad essere presente in più di 30 paesi al mondo, tra Europa e Sudamerica. Era una società solidissima che incassa alti fatturati e riconoscimenti internazionali, come il premio per l’azienda più innovativa al mondo vinto nel 1999 per aver introdotto in Italia la carta prepagata nel 1995.
Telecom era fantastica allora, ricorda Romano Prodi: sebbene fosse fantastica nel 1997 Prodi decide di privatizzarla nella convinzione che il grosso delle azioni sarebbe stato comprato da aziende italiani, “sarà il nocciolo duro della nuova Telecom”, così annunciava il governo.

Ma il nocciolo si rivela presto un nocciolino: non va oltre infatti il 6,6% la quota che si limita ad acquisire una cordata di istituti finanziari di cui fa parte l’Ifil, la cassaforte della famiglia Agnelli che, con appena lo 0,6% diventa l’azionista di riferimento di Telecom.
“Io volevo un blocco degli italiani grossi” ricorda oggi Prodi, “perché volevo che il telefono rimanesse in Italia e io dovetti insistere con Umberto Agnelli dicendo ‘ma è un interesse per l’Italia. Io devo privatizzare, è un interesse vostro’. Non hanno capito niente, appena sono arrivati hanno venduto, hanno guadagnando o addirittura hanno spolpato vendendo le case e gli uffici.”
In Telecom gli Agnelli restano per soli due anni ma fanno in tempo per avviare la svendita del patrimonio immobiliare dell’azienda. Dopodiché escono dall’azionariato, vendendo le loro azioni e incassando una plusvalenza di 204 ml di euro.
Come mai un’azienda modello come quella poi è finita in mano a degli speculatori sostanzialmente, che l’hanno spolpata e basta?


Lei può dare la colpa anche a me” risponde Prodi alla domanda del giornalista di Report “nel senso che io ho cercato dei compratori più affidabili che ci fossero ..”
Mottola ha chiesto ad un altro presidente del Consiglio di quel periodo, Massimo D’Alema, se le modalità con cui si è proceduto alla privatizzazione di Telecom furono sbagliate:
“sicuramente il risultato della privatizzazione non fu brillante, la famiglia Agnelli sostanzialmente ne deteneva il controllo avendo preso lo 0,6% delle azioni. Fu un po’ la pretesa di una sorta di aristocrazia del capitalismo italiano di fare i padroni senza metterci i soldi.”
Nel 1999 gli Agnelli liquidano le loro quote ad una cordata capeggiata da Roberto Colaninno, AD di Olivetti, la scalata riceve la benedizione del presidente del Consiglio Massimo D’Alema che in un discorso pubblico esalta il coraggio di Colaninno e dei suoi soci.
“No” risponde D’Alema al giornalista “io mi limitai a dire che, siccome sembrava uno scandalo, ci sono degli imprenditori che hanno il coraggio di scommettere sul futuro di questa azienda e ci mettono dei soldi. Ci fu una valutazione molto attenta, e decidemmo di tenere una posizione di neutralità.”
All’epoca questa neutralità voleva dire dare il via libera all’OPA.
“Vorrei capire qual era l’alternativa, che dovevamo rinazionalizzarla. Il via libera lo diede il mercato attraverso la gente che aderì all’OPA. Non fu una scelta del governo.”

Diversa l’opinione dell’allora AD Gamberale: “era una operazione ardita, erano validi imprenditori che avevano avuto un dignitoso sviluppo, nel loro ambito territoriale.. ”
Infatti nella scalata a Colaninno mancavano i soldi anche perché la sua Olivetti era 4 volte più piccola della Telecom e così la sua OPA che vedeva la regia occulta di Mediobanca di Enrico Cuccia viene realizzata quasi del tutto a debito:
vale a dire che i soldi usati per la scalata vengono quasi tutti chiesti in prestito alle banche che, però, non si rifanno su Colaninno ma direttamente su Telecom.
“Telecom che aveva in indebitamento bassissimo” ricorda Vito Gamberale “si trovò ad essere gravata di un debito non di natura industriale. Fu introdotto un debito cattivo che è come aver insinuato nel corpo di Telecom un germe di cui poi non si sarebbe mai potuto riuscire a trovare l’antidoto e il vaccino.”
D’Alema sapeva che la scalata sarebbe stata fatta a debito e che i debiti sarebbero ricaduti sull’azienda: “questo era il problema di quell’operazione per la quale noi chiedemmo quali programmi ci fossero. Ma, ripeto, dal punto di vista del piano industriale l’operazione era credibile.”

Nel 2001 arriva Silvio Berlusconi al governo e in Telecom è il turno di Marco Tronchetti Provera, patron della Pirelli. Anche la sua scalata è fatta contraendo debiti che esplodono però soprattutto dopo la fusione di Telecom con la sua partecipata Tim. In questo modo l’indebitamento della compagnia telefonica raggiunge la cifra monstre di 39 miliardi di euro.
Sulla gestione Tronchetti Provera torna Gamberale: “secondo me la gestione Tronchetti Provera dal punto di vista prettamente industriale è stata la meno estranea. Poi furono aggiunte della operazioni finanziarie che non avrebbero portato alcun beneficio nel gruppo ma anzi sarebbero state malefiche, come l’OPA sul flottante di Tim che incrementò il debito.”

Oggi l’azienda sembra allo stato finale della malattia: se nel 97 un’azione di Telecom valeva circa 6€, oggi il titolo è sprofondato a 0,18€. All’inizio del secolo Telecom aveva filiali in 30 nazioni, al momento è presente solo in Brasile, ma nonostante i numeri disastrosi in molti hanno festeggiato.
In 25 anni gli azionisti privati sono riusciti a spartirsi oltre 60 miliardi di dividendi e le banche d’affari americane hanno incassato 30 miliardi di euro di interessi sui debiti di Telecom.

La scheda del servizio: QUESTA È TIM di Giorgio Mottola
collaborazione Norma Ferrara

Tim potrebbe essere la prossima Alitalia. Per correre ai ripari questa estate la nuova dirigenza ha presentato un piano per dividere l’azienda in due con l’obiettivo di cedere a Cassa depositi e prestiti la rete fissa, su cui grava la maggior parte dei debiti e dei dipendenti. Un progetto che la scorsa settimana è stato ufficialmente bocciato dal governo Meloni che però finora non ha ancora presentato una proposta alternativa. Nel frattempo, il titolo in Borsa è crollato e gli indici finanziari non lasciano ben sperare. Eppure, 25 anni fa Telecom era una delle aziende floride del nostro Paese e la sesta società di telecomunicazioni del mondo. Come siamo arrivati a questo punto? Con interviste esclusive a ex presidenti del consiglio ed ex amministratori delegati di Telecom, Report  ricostruirà la storia dell’ex azienda di Stato, che dopo un quarto di secolo ha subìto un vero e proprio tracollo finanziario e industriale. Di chi sono state le responsabilità? Con documenti inediti Report accenderà, inoltre, un faro su alcuni progetti e contratti anomali stipulati da Tim nel periodo in cui stava per chiudere l’accordo con Dazn sui diritti della serie A di calcio.

Cosa succede in casa della Lega

C’è una Lega di governo, quella di Salvini, sovranista, più vicina ai regimi come Ungheria e la Russia di Putin che ai valori europei (sempre che esistano). Esiste una corrente scissionista, quella di Bossi, che vorrebbe un ritorno alla Padania libera ovvero quell’autonomia politica che potrebbe arrivare dalla sciagurata riforma che questo stesso governo sta pensando.
Esiste poi un’altra Lega, la bad company che deve gestire la restituzione dei 49ml, i famosi rimborsi elettorali che il partito non doveva ottenere dallo Stato italiano.
Salvini si difende dicendo che quei soldi non ci sono più, che sono stati spesi. E che non esiste alcun legame tra la vecchia Lega e la nuova. Ma è così?
Si parte dal palco sul prato di Pontida dove il segretario lo scorso settembre ha detto “chi non ha memoria non ha futuro”, chiudendo il discorso con un ringraziamento a Bossi.
Ma chi votano le persone radunate a Pontida? La Lega di Salvini premier ovviamente, la Lega Nord non esiste: “Salvini è stato abile nel far credere alla gente che la Lega Nord si fosse trasformata, in realtà lui la Lega nord l’ha congelata, surgelata, sicuramente inchiodata senza possibilità di far politica e ne ha aperto un altro” racconta a Luca Chianca Gianluca Pini, ex deputato della Lega Nord (quella dell’indipendenza della Padania).
Sembra un unico partito, però tecnicamente diviso in due: “si probabilmente per evitare di assorbirne i debiti.”
La vecchia Lega Nord, per volere di Salvini, segretario, non fa più attività politica, non presentandosi alle elezioni, eppure la procura di Genova aveva permesso di spalmare in ben 70 anni il debito dei 49 ml di euro per le truffe dei rimborsi elettorali. Proprio per evitare che un partito chiudesse e consentire a milioni di elettori di votare ancora Lega Nord.
“Il problema è che è stata una presa in giro” racconta a Report Pini “per la Procura, per la Cassazione, per la Corte dei conti e per gli elettori della Lega Nord, perché immediatamente dopo aver fatto questo tipo di accordo la Lega Nord non ha più fatto attività politica. Pur continuando a percepire dei soldi.”
Oggi la Lega Nord continua a percepire il 2 x 1000 e con quei soldi paga il debito allo Stato, ma come ha scoperto Giovanni Tizian giornalista del quotidiano Domani, la sua immobiliare, la Pontida Fin, incassa anche altri soldi che arrivano dalla Lega di Salvini. Prima di tutto l’affitto per la sede di via Bellerio, di proprietà della vecchia Lega.
“Inizialmente il contratto di locazione prevedeva un affitto di 120 mila euro, poi dopo un anno, incredibilmente senza una motivazione particolare, viene triplicata questa cifra che diventa 320 mila euro. Una cifra sbalorditiva per quel luogo.”
La Lega di Salvini versa l’affitto all’immobiliare Pontida Fin di proprietà della vecchia Lega Nord, alla quale paga anche l’affitto per il pratone del raduno, in questo caso per la cifra astronomica di 250mila euro per un giorno.

Perché la Lega paga se stessa per l’affitto del prato di Pontida? Alla domanda il presidente Zaia non ha voluto rispondere, “se mi parli degli affitti del Veneto so tutto”. Fedriga, presidente del Friuli Venezia Giulia risponde dicendo che va chiesto agli amministratori ..
Probabilmente questo contratto di locazione serve proprio per tenere distinti e mostrare all’autorità giudiziaria, al mondo, che Lega Salvini premier e Lega Nord sono due cose distinte, però è una distanza fittizia – risponde il giornalista Tizian.
Certo, il tesoriere è lo stesso nelle due Leghe, utilizzano la stessa sede, utilizzano Pontida, difficile dire che siano due partiti diversi.
Non sarebbe più semplice rivalersi sulla nuova Lega? Luca Chianca l’ha chiesto al procuratore di Genova Francesco Pinto: “no perché il soggetto politico che che è stato indicato come indebito percettore di quelle somme è un soggetto che formalmente è ancora esistente.”

La scheda del servizio SLEGATI IN CASA di Luca Chianca
collaborazione Alessia Marzi

Abbiamo vissuto una campagna elettorale mai vista finora. Salvini ha tentato fino all'ultimo di contendersi la premiership con l'alleata Meloni, radunando migliaia di simpatizzanti nel sacro prato di Pontida, dove ha avuto inizio la storia del vecchio partito guidato da Umberto Bossi. Ma cosa nasconde questo prato dove son tornati a radunarsi i vecchi militanti della Lega Nord e di quella di Salvini Premier? Uno scambio di soldi tra i due partiti. La Lega di Salvini, infatti, ha versato all’immobiliare Pontida Fin, di proprietà della vecchia Lega nord, ben 250 mila euro per l'affitto di un solo giorno di raduno. Pochi giorni dopo, con una parte di quei soldi, il vecchio partito ha pagato Francesco Barachetti, l'imprenditore condannato a dicembre scorso a 5 anni nella vicenda dell’acquisto della nuova sede della Film Commission lombarda perché avrebbe sottratto fondi pubblici, con i due contabili del partito di Salvini, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Nomi noti per Report che si è occupato più volte della vicenda. L'estate scorsa, però, spunta una storia esclusiva che vede coinvolto sempre l’imprenditore Barachetti e un comune amministrato dalla Lega. Questa volta al centro dell'inchiesta è la caserma dei carabinieri di Trezzo sull'Adda, dove Barachetti nel 2016 si è aggiudicato un appalto da 600mila euro per terminarne i lavori.

Lo scandalo dei rifiuti inviati in Tunisia

Il servizio sui rifiuti andanti avanti e indietro dalla Tunisia doveva andare in onda lunedì scorso, ma è poi slittato per dare spazio alla frana di Ischia. Questa sera Report ritorna sullo scandalo dei 282 container di rifiuti che dalla Campania furono mandati in Tunisia per essere smaltiti e che da lì sono tornati indietro perché il loro governo stabilì che erano illegali, perché le strutture locali non erano in grado di gestirli: oggi chi pagherà per questo?
Una volta che il tribunale di Salerno e Potenza stabiliranno le responsabilità e la quantificazione del danno, restano i danni da pagare in Tunisia. L’ambasciatore tunisino, diversamente da quello che ha fatto la regione Campania, ci ha messo la fascia ha avvertito il nostro paese: “noi abbiamo subito danni. Due anni, il 20% dello spazio commerciale del porto di Sousse è stato bloccato. E dunque è un danno finanziario, un danno sociale, un danno ambientale. Lo Stato italiano è responsabile, anche se sono stati dei privati che hanno fatto, ma non lasceremo nulla di questa cosa perché vogliamo dare un esempio. Così, prima di esportare rifiuti illegalmente, sottolineo, devono riflettere due volte prima di farlo.”
Intanto la Tunisia insiste perché l’Italia torni a riprendersi anche la seconda parte dei rifiuti, cioè 69 containers rimasti nella ditta tunisina e che in parte sono stati bruciati: lo ha sottolineato l’ambasciatore stesso nell’intervista con Bernardo Iovene, “la priorità è il rimpatrio dei rifiuti, la seconda parte. Poi vedremo. Sono convinto e spero che fra poche settimane riusciremo anche a chiudere definitivamente questa vicenda.”

Il 21 dicembre 2021 l’ex ministro degli Esteri Di Maio andò in missione diplomatica in Tunisia dove incontro il ministro degli Esteri, la Premier e il presidente Saied: durante quell’incontro si parlò di migranti, stabilità interna e anche della questione dei rifiuti arrivati dall’Italia nel luglio 2020. Fatalmente – racconta il servizio di Iovene – dopo la visita di Di Maio i rifiuti parcheggiati nella ditta tunisina Soreplast vanno a fuoco. Si tratta di quasi 1900 tonnellate che sono ancora stoccati nel capannone della società tunisina.
In Tunisia il ministro e i funzionari che hanno seguito questa vicenda sono ancora in carcere cautelativo dopo due anni. L’ambasciatore Moez Sinaoui spiega che “per la prima volta nella storia tunisina un ministro è andato dal suo ufficio alla casella prigione, come si dice.. la prima volta perché c’era anche complicità delle autorità tunisine.”
Sono ancora in carcere, continua, perché questo è diventato uno scandalo politico, “in Italia non se ne è parlato, perché il danno per la Tunisia è non solo economico, ma anche sociale, economico, politico e ambientale.”
Così il 20 febbraio scorso, presenti le autorità tunisine, i container lasciano il porto di Sousse e tornano a Salerno. Ma appena sbarcati vengono sequestrati dalla procura, la regione ordina poi di stoccarli provvisoriamente nel comprensorio militare di Persano a Serre, in provincia di Salerno, dove già nel 2007 stoccarono, sempre temporaneamente, le ecoballe dell’emergenza rifiuti che però sono ancora qui.
La regione non ha contattato il sindaco su questa scelta, che hanno saputo dell’arrivo dei container dai giornali: appena saputo dell’arrivo dei rifiuti dalla Tunisia, sindaci ambientalisti e cittadini sono tornati a protestare come 15 anni fa. “La cittadinanza non vuole questi rifiuti” racconta a Report il sindaco di Serre: la scelta di stoccarli in un sito militare è stata fatta apposta per evitare che la protesta potesse sfociare in un blocco serio – aggiunge un membro del comitato “Battipaglia dice no”

La scheda del servizio: IL RESO TUNISINO di Bernardo Iovene
Collaborazione Greta Orsi - Lidia Galeazzo

Nel 2021 Report aveva documentato la spedizione dal porto di Salerno di 282 container di rifiuti in Tunisia. Furono sequestrati nel porto di Sousse perché illegali per il governo tunisino, e finirono in carcere il ministro dell’ambiente e vari funzionari della dogana e dell’agenzia nazionale dei rifiuti tunisina. La Tunisia ha fatto pressioni perché i rifiuti tornassero in Italia, ci sono state anche proteste da parte degli ambientalisti sotto la nostra ambasciata a Tunisi. Bernardo Iovene ha ricostruito gli aggiornamenti della vicenda a partire dal viaggio del nostro ministro degli esteri il 28 dicembre del 2021 in Tunisia, fino al rientro dei rifiuti l’11 febbraio di quest’anno. Trasportati in centri di raccolta nella piana del Sele in provincia di Salerno nei comuni di Serre, Persano Altavilla e Battipaglia, la loro presenza ha suscitato le proteste dei cittadini dell’area. Restano decine di milioni di euro da pagare dopo che la nostra magistratura avrà stabilito le responsabilità. Ma la storia non è finita: in Tunisia ci sono ancora 69 container da riportare in Italia, sui quali la Tunisia ci fa sapere che non transige.

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.

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