Immagine della Banca dell'Agricoltura dopo lo scoppio della bomba (presa dal sito dell'ARCI) |
Per la prima volta nella storia di questo paese senza memoria, la
destra italiana, si ritroverà a dover celebrare le commemorazioni
della strage di Milano, la bomba piazzata nella banca
dell’Agricoltura il 12 dicembre 1969 dai neofascisti di Ordine
Nuovo che causò 17 vittime, da destra di governo.
Nei discorsi
di insediamento, la presidente Meloni e il presidente La Russa hanno
volutamente omesso queste pagine della nostra storia, troppo
ingombranti, troppo nere, tali da rovinare il discorsetto che stavano
facendo di essere una destra autoritaria, di patrioti, che finalmente
difende gli interessi degli italiani.
Eppure esistono i legami
tra questa destra e quella responsabile di questa pagina nera: da
Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, indagato e poi prosciolto,
fino a Borghese, presidente del MSI, il partito in cui militavano
molti degli attuali esponenti della maggioranza.
La storia
di Piazza Fontana racconta un altra verità, rispetto a quella
raccontata in aula: è stata chiamata “la madre di tutte le stragi”
perché ha aperto la stagione degli anni di piombo (con le altre
bombe a Milano, Brescia, Bologna), e insieme la “madre degli anni
bui”, perché come racconta l’autrice “costituì uno dei
detonatori dell’escalation del terrorismo di sinistra negli anni
successivi.”
È stata anche definita la nostra “perdita di
innocenza” perché accentuò il senso di sfiducia degli italiani
nello stato, nelle istituzioni, ritenute complici, conniventi, dei
veri responsabili di quella bomba: “piazza Fontana creò
una lacerazione durevole nel rapporto, già difficile, tra larga
parte dei cittadini italiani e le istituzioni. «Le
degenerazione del nostro sistema democratico è cominciata da lì»
scrisse Norberto Bobbio.”
Manipolazione
delle prove, false piste create dentro i ministeri, mostri da dare in
pasto all’opinione pubblica. E mentre gli anni passavano, i
familiari delle vittime dovevano fare i conti col dolore della
perdita, con le difficoltà nell’andare avanti col podere, con
l’azienda agricola, senza sapere i nomi dei colpevoli. Senza sapere
il perché. Perché quella
strage?
La storia della bomba piazzata da esponenti
di Ordine Nuovo, una formazione neofascista nata da una scissione del
Movimento Sociale Italiano, era una bomba con tanti padri: c’erano
gli interessi delle formazioni neofasciste che con quelle bombe
preparavano la strada verso un governo di destra, magari un regime
come quello in Grecia dopo il golpe dei colonnelli del 1967. Per
creare il clima di sfiducia nei confronti dello stato servivano le
bombe: quelle scoppiate a Milano nella primavera del 1969, quelle
esplose sui treni nell’agosto dello stesso anno. Tutte bombe
fasciste ma fatte addossare agli anarchici, per colpire
indirettamente poi le forze di sinistra.
Destabilizzare per
stabilizzare i governo in senso centrista, spostare l’opinione
pubblica affinché potesse accettare governi basati sull’ordine e
sulla fermezza.
Ma i fascisti erano solo manovalanza, utili idioti di interessi superiori: quelli di un certo ceto industriale che si era arricchito negli anni del boom e che vedeva come il fumo negli occhi gli scioperi dell’autunno caldo, dove gli operai chiedevano salari maggiori e maggiori tutele sul lavoro (nel 1969, come oggi). Ceto industriale che finanziò anche queste formazioni, come emerso anche nelle indagini sul golpe Borghese: l’industriale Piaggio, il re del caffè Tubino, il costruttore romano Orlandini.
C’erano gli
interessi che arrivavano da oltre oceano: l’Italia era inserita nel
blocco occidentale e gli Stati Uniti, negli anni della guerra in
Vietnam, da Washington non potevano tollerare lo scivolamento a
sinistra del governo italiano, come stava avvenendo dai primi anni
sessanta col la politica di Aldo Moro.
Le indagini sulla strage
di Milano, su Brescia, portano dentro
la base Nato di Verona, dove esponenti neofascisti, finiti poi
nelle indagini, erano di casa. Ci sono i finanziamenti della CIA
verso la destra DC.
In tanti avevano interesse che in Italia
le proteste di studenti, di operai, di persone che chiedevano
maggiori diritti, di svecchiare un paese ancora ostaggio dei retaggi
del fascismo (i vertici di magistratura e polizia erano già al loro
posto negli anni del fascismo, come il Questore di Milano Marcello
Guida), venissero bloccate. Che questo paese rimanesse bloccato nel
suo status quo.
Ci sono tanti saggi
che raccontano quella strage, del contesto (politico, sociale,
storico), delle responsabilità da parte dei servizi (che conoscevano
questi gruppi di destra avendoli infiltrati ma non fecero nulla per
fermare le bombe), del Viminale, di parte della polizia e parte dei
carabinieri che nascosero ai magistrati le prove, creandone altre per
la falsa pista rossa. Della storia dei processi spostati da Milano a
Catanzaro (per timori di ordine pubblico, paravento dei timori da
parte della magistratura di creare problemi all’esecutivo), dei
depistaggi, un processo lunghissimo durato più di vent’anni e che
costrinse i familiari delle vittime a lunghe peregrinazioni da Milano
e provincia verso Catanzaro.
L’ultimo che sto leggendo è
l’opera “monumentale” di Benedetta Tobagi, “Piazza Fontana
– il processo impossibile” (Einaudi
editore), che già
nel prologo racconta del
tortuoso iter giudiziario, dalla condanna in primo grado del 1979,
fino all’assoluzione in Appello confermata dalla Cassazione. E poi
il secondo processo, cominciato dopo la caduta del muro di Berlino,
dalle rivelazioni dei pentiti neofascisti che porto comunque a nuove
assoluzioni. Ma che almeno sancì le responsabilità (ma non la
colpevolezza) di Giovanni Ventura e Franco Freda:
La folla freme quando il giudice scandisce la frase fatale.
Per piazza Fontana ergastolo a Freda, Ventura e Giannettini, è il titolo composto in fretta nella tipografia milanese del «Corriere della Sera». La Corte d’Assise ha condannato due terroristi
neri e un loro complice, collaboratore dell’intelligence militare.
Ci sono voluti dieci anni, ma giustizia è fatta. Durerà poco.
La dissoluzione del giudizio comincia in Appello e invade il processo come una cancrena, rapida e inesorabile, fino alla conferma delle assoluzioni generalizzate del 1987. «Le nebbie del
dubbio avvolgeranno per sempre tutti i principali imputati: sappiamo solo di non sapere», commentava, fatalista, il «Corriere».
Invece no.
Altri processi, in seguito, scandagliano a profondità sempre maggiori i retroscena della strage, il magma dell’eversione nera coperta, aiutata – istigata? – da uomini delle forze di sicurezza
dello Stato (quale sicurezza? quale Stato?) Fino al 3 maggio del 2005, all’ennesima pronuncia della Cassazione, l’ultima. Tutti assolti, di nuovo. Ma rispuntano due dei nomi che echeggiarono quella sera del 1979 nell’aula fredda di Catanzaro: Freda e Ventura.
Già assolti in via definitiva, quindi – ne bis in idem – non piú processabili. Eppure, alla luce di nuovi elementi di prova, sono dichiarati responsabili – almeno davanti al tribunale della storia. Parole pesanti, atipiche. Molti faticano a comprendere: se sono stati assolti, come può la Suprema Corte spendere parole su di loro? Che fine fa il garantismo? Come è possibile?
La nebbia cala di nuovo, ma possiamo ritrovare la strada, dipanando un filo attraverso il labirinto dei processi di piazza Fontana, camminando a raso dei muri alti e spessi che limitano
di fatto la giurisdizione, laddove sono pezzi di Stato a finire sotto processo. Per analizzare la sostanza di cui è fatta l’impunità. Per comprendere il significato profondo – e la correttezza ineccepibile – di un paradosso: una giustizia incompiuta che tuttavia iscrive nella storia i nomi dei responsabili.
Quello di Benedetta
Tobagi è forse uno dei libri più completi sulla strage di Milano
che viene raccontata seguendo l’iter giudiziario, partito con le
istruttorie di Milano e Roma (dove scoppiarono altre bombe senza
morti in quel 12 dicembre) e poi coi processi a Catanzaro fino a
Milano, con l'ultima indagine aperta dal giudice Salvini.
Ma questo punto di vista consente di raccontare del
ruolo della polizia giudiziaria, con i suoi legami con l’esecutivo
per tramite della polizia politica che faceva capo all’Ufficio
Affari Riservati di Federico Umberto d’Amato, l’intelligence del
Viminale.
Ai magistrati di Milano furono inviate delle note
contenente informazioni false (quello del SID del 17 dicembre
sull’agenzia Aginter Press), furono nascoste delle prove, la
polizia politica agiva in solitudine coi suoi arresti, le
perquisizioni senza informare i magistrati che, secondo legge, erano
responsabili della direzione delle indagini.
Il saggio racconta
dello scontro tra le due generazioni della magistratura: quella nata
col fascismo, che ancora governava i vertici degli uffici e decideva
delle carriere dei sostituti e quella nuova generazione nata dopo la
guerra che intendeva la giustizia con lo stesso spirito della
Costituzione: una legge uguale per tutti, senza discriminazioni, che
non chiude un occhio per favorire il governo, interessi
sovranazionali per un finto interesse di sicurezza (quale sicurezza
poi, quella dei 17 morti di Milano?). Emblematico lo scontro tra il
giovane procuratore Paolillo (ma anche di altri giovani magistrati
come Alessandrini e D’Ambrosio), titolare delle prime indagini di
Milano e il procuratore capo De Peppo, responsabile della scelta di
spostare il processo da Milano a Catanzaro, proprio quando la pista
nera (che portava ai fascisti e ai loro legami coi servizi segreti)
stava mettendo in difficoltà l’esecutivo a guida DC.
Si
racconta del ruolo della stampa: da una parte i grandi quotidiani
che, quasi tutti, sposarono la pista rossa, gli anarchici
responsabili della bomba, molti dei quali si resero complici della
costruzione del mostro Valpreda (vicenda a cui si ispirò Marco
Belocchio col suo “Sbatti il mostro in prima pagina”).
Giorgio
Zicari, ad esempio, collaboratore
del SID e autore di alcuni scoop sull’arresto di Valpreda.
E
poi l’altra stampa: quella della controinformazione che portò alla
pubblicazione del famoso libro “Strage di Stato”, che pur
con tanti limiti conteneva tanti spunti verso la verità dei fatti.
E quella dei
pistaroli come Marzo
Nozza, giornalista de Il Giorno, che seppe fare il suo
mestiere, non fermandosi alle veline
dei servizi, ai comunicati stampa della Questura di Milano
(Pinelli si è suicidato dopo aver saputo della confessione di
Valpreda, notizia falsa):
“Controllare qualsiasi notizia, personalmente, mi veniva naturale, così come controllare le veline. Anche la velina è una notizia, indipendentemente dal suo contenuto. L’importante è scoprire come nasce, la velina. E chi la fa nascere. E perché. E a chi è destinata. Che giornalista è uno se non tenta di vedere cosa c’è dietro (anche dietro una velina)?”.
Emerge dal saggio di
Benedetta Tobagi l’impossibilità da parte dello Stato, di quello
stato italiano prima della caduta del muro e anche dello stato
italiano dopo la fine del mondo diviso in blocchi, di poter giudicare
se stesso. Ancora oggi Piazza Fontana è un tabù, la sua storia non
può essere raccontata fino in fondo, raccontando dei responsabili
fascisti e dei manovratori dentro le stanze del potere.
Quei
politici che, portati a testimoniare dai coraggiosi giudici di
Catanzaro, ripeterono i loro non ricordo, non so, non sapevo. L’ex
presidente del consiglio Rumor, l’allora ministro Andreotti.
L’atteggiamento
sprezzante, ai limiti della provocazione, di Freda, la sicurezza
(consapevole dell’impunità) del giornalista-agente del SID Guido
Giannettini.
Dall’altra parte
l’atteggiamento composto, dignitoso, dei parenti delle vittime,
andati a seguire quel processo fino a Catanzaro ad un migliaio di
chilometri di distanza.
Quel silenzio e
quella dignità dimostrati nel giorno dei funerali di Milano (quando
gli attentatori si aspettavano una reazione legalitaria): un silenzio
e una dignità che salvarono il nostro paese dal golpe,
probabilmente.
Quello di Piazza Fontana fu un processo politico – spiega l’autrice in uno dei primo capitoli: non perché intento del processo fosse quello di attaccare dei politici in quanto tali. No, da questo processo, dal dibattimento, dalla sua travagliata storia (tre processi, dieci diversi giudizi, una durata record complessiva di 36 anni) emerge quelli che erano i rapporti tra giustizia e potere, dove più che la certezza della pena e di assicurare un processo nei tempi ragionevoli, ai vertici della magistratura (e della Cassazione, con le sue scelte di remissione del processo da Milano a Catanzaro) interessava non interferire coi desiderata del governo: la teoria degli opposti estremisti della DC, ad esempio, per cui estrema destra e sinistra erano entrambi colpevoli (cosa falsa, come emerso poi alla fine). All’altra magistratura interessava proteggere la “ragione di Stato”, interna e internazionale (il mondo diviso in blocchi, l’esclusione del PCI dall’area di governo).
Anche queste sono riflessioni che hanno un senso ancora oggi, dove in assenza di una verità giudiziaria rimane solo l’incompleta ricostruzione storica di quegli anni: riflessioni che hanno maggior senso soprattutto alla luce delle recenti riforme a cui pensa questo governo, di destra: riforme che minano l’indipendenza della magistratura, legandola alle scelte del governo del momento.
Un salto indietro
nel passato, come ai tempi di Piazza Fontana appunto.
Di seguito l’elenco delle vittime della strage, di cui spesso nemmeno viene ricordata l’esistenza, inghiottite anche loro nel buco nero della bomba, assieme alla credibilità delle nostre istituzioni
Giovanni Arnoldi (42)
Giulio China (57)
Eugenio Corsini (71)
Pietro Dendena (45)
Carlo Gaiani (56)
Calogero Galatioto (71)
Carlo Garavaglia (67)
Paolo Gerli (77)
Luigi Meloni (57)
Vittorio Mocchi (33)
Gerolamo Papetti (79)
Mario Pasi (50)
Carlo Perego (74)
Oreste Sangalli (49)
Angelo Scaglia (61)
Carlo Silva (71)
Attilio Valè (52)
A questi va aggiunto anche il ferroviere Giuseppe Pinelli, morto all'interno della Questura di Milano, mentre era in stato di fermo (scaduto perché erano passate le 48 ore).
Consigli di lettura:
- Piazza Fontana, il primo atto dell'ultima guerra italiana di Gianni Barbacetto
- La bomba Enrico Deaglio
- 12 dicembre 1969 Mirco Dondi
- Una stella incoronata di buio di Benedetta Tobagi
- Piazza Fontana, noi sapevamo, di Andrea Sceresini , Nicola Palma , Maria elena Scandaliato
- L'Italia delle Stragi, di Angelo Ventrone, Donzelli
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