26 luglio 2024

Luci sulla città di Massimiliano Virgilio

Napoli, 1892

Poco alla volta, la città rivide la luce. Sembrava salva. Ancora una volta, ancora per un giorno. In un vicolo ai Ventaglieri, un bambinetto di nove o dieci anni si era affacciato alla finestra del basso in cui viveva con sua madre, richiamato dal metallico, rassicurante suono dei campanacci.

[..]

.. qualcosa attirò l’attenzione del bambino nel punto in cui la mandria s’era divisa: il corpo di un uomo dagli occhi spalancati, la nuca riversa in una pozza di sangue rappreso. “Peppì,” lo richiamò sua madre. “Vieni a fare colazione!”

Il titolo di questo romanzo molto interessante riprende il film di Rosi del 1963, Le mani sulla città: come nel film, protagonista sullo sfondo è Napoli, la povera gente (che è anche gente povera) costretta a vivere nei bassi e nei quartieri costruiti in malo modo, per soddisfare l'avidità dei costruttori, le loro "mani" sporche di sangue.

Questo romanzo è ambientato quasi un secolo prima, nel 1892, in una Napoli ancora provata dall'epidemia di colera che aveva provocato migliaia di vittime (se volete scoprire qualcosa, potete leggervi il bel libro di Diego Lama La collera di Napoli), specie tra quella fascia di popolazione costretta a vivere in precarie condizioni igieniche, famiglie costrette a vivere tutti assieme in stanzoni dove "il sole non batte mai", assieme agli animali domestici.

Famiglie dove ogni giorno è un giorno in più in quella battaglia, senza speranze di vittoria, contro la miseria, la fame, il rischio di una malattia. O di una coltellata.

E' la Napoli di cui aveva parlato la scrittrice e giornalista Matilde Serao nel suo celebre romanzo "Il ventre di Napoli": persone costrette a combattere la fame e la miseria facendo lavori usuranti, per poche lire, presi nel mezzo dal voto ai santi e alla Madonna, nella speranza di una vita migliore, e dall'altra malattia, pericolosa come il colera, la febbre del lotto:

Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l'acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l'acquavite di Napoli.

Matilde Serao è stata la prima, per anni l’unica, giornalista donna in Italia, prima col Corriere di Roma e poi col Corriere di Napoli. Con la liquidazione ottenuta vendendo le quote di questo giornale, Matilde Serao ha fondò assieme al marito, Edoardo Scarfoglio il quotidiano “Il Mattino”: ufficialmente sarebbe stato lui l’editore ma tutti sapevano che questo nuovo quotidiano liberale e moderno, è in realtà diretto da lei. Essere donna voleva dire anche questo in quell’Italia post unitaria: essere relegata al ruolo di madre, moglie e basta.

Al giornale, ’a signora disponeva ogni cosa. Nonostante Scarfoglio fosse il direttore ufficiale, secondo quanto previsto dalle leggi del Regno, era lei ad arrivare per prima in redazione e l’ultima ad andarsene di notte.

Nei suoi articoli, ‘a signora, dovrebbe occuparsi solo di articoli di costume e di moda, tenendosi alla larga dalla politica e dai casi di cronaca. Ma Matilde Serao era una vera giornalista, attenta ad osservare il mondo che le stava attorno e capace anche di raccontarlo. Per questo decide di incontrare una sera, finita la stampa del giornale, un uomo dal suo passato.
Si tratta di Carlo Montanari, un “camarade” socialista, un sovversivo per il regno borbonico, una persona da tenere d’occhio per i carabinieri del re. Ma Carlo è stato anche amico di Matilde: la moglie l’aveva accompagnata proprio in quei quartieri bui di Napoli, le aveva mostrato quel “ventre” che poi aveva raccontato nel suo romanzo.

Carlo le racconta di essere in possesso di informazioni importanti su “fatti inauditi, anzi, inauditissimi”:

Matildella, sei pronta a far scoppiare il più grande scandalo da quando esiste il Regno d’Italia?

O continuerai a scrivere soltanto mosconi per ammansire il popolo?”

Matilde si pulì gli angoli della bocca con il fazzoletto.

Sono una giornalista,” disse. “Il mio mestiere è raccontare la verità, anche se a sostenerla è un socialista.”

Purtroppo all’incontro che si sarebbe dovuto tenere l’indomani, Carlo non si presenta.

Perché qualcuno lo ha ucciso: è suo quel corpo che viene ritrovato nel vicolo ai Ventaglieri di qui leggiamo nell’incipit. Ucciso e sventrato, come un animale, dalla gola all’inguine.

Un delitto maturato all’interno del mondo dei militanti socialisti: questa è l’opinione del capitano dei carabinieri Barbatello, l’eroe del Cavone, così era stato chiamato per aver salvato la vita al Re.
Tanto pronti a salvare le teste coronate, quanto ad adoperare metodi spicci quando si dovevano sgomberare le case della povera gente che la Società per il Risanamento, grazie alla convenzione ottenuta dal comune di Napoli, doveva abbattere. Abbattimenti per costruire case nuove, nella realtà una speculazione fatta sulla pelle viva della città.
Matilde è consapevole che la legge non si adopererà nel trovare il vero assassinio dell’amico: all’ennesima provocazione dell’ufficiale, che le rinfaccia il suo ruolo di donna, dunque non competente nel fare indagini su un omicidio, meglio scrivere di storielle, gli risponde a tono, a modo suo:

Matilde continuò: “Gli raccontiamo la storiella che il mondo, nonostante le brutte notizie che gli diamo da leggere ogni giorno, nonostante omicidi, miseria, corruzione, malattie, è tutto sommato un buon posto. Tenuto a bada da persone come voi, carabinieri leali e coraggiosi”.

Da qui parte l’inchiesta di Matilde Serao per cercare di capire chi possa aver ucciso l’amico, quali possano essere i “fatti inauditi” di cui intendeva metterla a conoscenza.

.. i finanziamenti avevano calamitato, come una cassa piena di pesce fresco attirava i gabbiani di Santa Lucia, imprenditori famelici, banchieri aguzzini e costruttori stranieri che col risanamento intendevano abbuffarsi
Questa indagine la porterà a scoprire un altro sventramento: quello fatto dai costruttori della Società per il Risanamento che avevano abbattuto interi pezzi di quartiere senza che questo avesse cambiato di nulla la vita dei napoletani. La convenzione per ricostruire Napoli dopo il colera, voluta da re Umberto dopo la sua visita a Napoli, aveva attirato solo sciacalli da tutto il regno, pronti ad arricchirsi.

La Belle Époque era una grande recita in cui il governo interpretava la parte dei salvatori e i napoletani quella dei salvati.

Esistevano due Napoli, quella della Bella Epoque, delle feste e delle cerimonie, “una grande recita in cui il governo interpretava la parte dei salvatori e i napoletani quella dei salvati”. Ma, dietro il sipario della recita, stava l’altra città, quella della gente senza luce ed acqua, costretta vivere in tuguri, costretta a mille fatiche per prendere pochi soldi, poi spesi nell’illusione di vincere qualcosa al lotto, quello legale del regno e quello illegale gestito dalla Camorra.

D’altronde, non era il lotto ufficiale un’acquavite somministrata a norma di legge? Non finiva il popolo a indebitarsi con gli usurai, anche se in mano stringeva biglietti certificati da un ufficiale del Regno?

La miopia della giornalista diventa la giusta metafora per raccontare questa storia: per riuscire a vedere bene le lettere, serve la lente giusta. Serve sforzare gli occhi nel cercare i dettagli più piccoli. Ma poi va alzato lo sguardo per cogliere la vista d’assieme e capire qual è il quadro che si ha davanti.

La miopia degli occhi era soltanto un riflesso di quella che aveva nella testa, nel cuore e nelle dita. Come per il delitto Montanari. Da un lato si avvicinava ai dettagli dell’omicidio per coglierne le sfumature più impercettibili, dall’altro se ne allontanava per averne un’idea di insieme..
Paradossalmente sarà proprio da un dettaglio legato alla miopia quello che le consentirà di trovare la traccia per arrivare all’uomo che sta dietro questo delitto, quello legato ai fatti inauditi: Matilde non potrà esimersi dallo scriverne sul suo giornale, per salvare il salvabile, per fermare quello sventramento della sua città, fatto con la carne e col sangue della povera gente che il potere aveva consentito per anni.

Questo romanzo, che sfrutta il meccanismo del giallo (il delitto, l’investigatore che deve scoprire la verità), mescola pezzi di storia ufficiale con altri di invenzione dell’autore e ci porta dentro la questione meridionale in modo appassionato e appassionante: sembra, leggendo alcuni passaggi, di risentire frasi ed espressioni ripetute anche oggi sul sud che ha bisogno di essere aiutato, sulle grandi opere per risollevare il sud, mentre dal sud i giovani, chi ha i soldi, è costretto ad andarsene nella speranza di vivere una vita migliore.

No, che avete il cuore pesante. Non vi va mai bene niente! Come dobbiamo salvare questa nostra bella Napoli, se non accomodandoci un poco tra noi illuminati?”
“A me non sembra che stiamo salvando alcunché, tranne noi stessi.”

Spero che questo romanzo spinga i lettori a scoprire, o riscoprire, Matilde Serao, giornalista e scrittrice, che usava la scrittura e le parole come arma per la sua battaglia, quella per la verità, per informare le persone. Anche la povera gente.

La scheda del libro sul sito di Feltrinelli e l’anteprima del primo capitolo.

La presentazione del libro

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19 luglio 2024

Il delitto della finestrella: Un caso per l'oste Zucchini – di Filippo Venturi


Prologo

Lunedì 3 dicembre, la mattina, sul presto
Fa talmente poco freddo a Bologna, in questo fine 2023, che si continua a viaggiare con abiti dai colori sgargianti, mentre le giornate è come se non ne volessero sapere di accorciarsi. Ma l’inverno, come da copione, è lì in agguato.

Carmine lo sa bene: i repentini mutamenti climatici sono una delle poche cose che gli condizionano la vita.

La finestrella di via Piella è un scorcio che si affaccia su uno dei pochi canali di Bologna ancora visibili: è un’immagine “instagrammabile”, perché quella piccola apertura verso il canale sta bene dentro una foto da caricare sul social e condividere l’immagine con gli altri.

Immagine presa dal sito www.turismo.bologna.it


È una delle attrazioni dei turisti che arrivano a Bologna e hanno poco tempo per girarla o per gustarne i sapori: proprio quel genere di turisti che all’oste – investigatore Emilio Zucchini, piacciono poco, sebbene quella finestrella così famosa sia poco distante dal suo ristorante, la Vecchia Bologna.
Sono magari quei turisti che chiedono i tortellini al ragù.. come ci ha già spiegato nella sua prima avventura, “Il tortellino muore nel brodo”. E così sia.

Ma chi è quel signore, Carmine Busca, che compare nel prologo? Sappiamo, ce lo spiega l’autore nelle prime pagine, che è un operaio edile venuto a Bologna dal sud, con un piccolo precedente alle spalle, due figli. E una busta in tasca, con una foto e un messaggio:

Adesso concentrati sulla foto e vedi se tra quei ragazzi ne riconosci qualcuno.
Lo capiremo solo andando avanti con questa storia che, come i precedenti romanzi di Venturi, mescolerà l’indagine, la scoperta di un’altra Bologna, quella dei dimenticati e quella delle storie dimenticate. Una storia dove, ancora una volta, Zucchini si troverà di fronte al braccio “sbagliato” della legge, ovvero il commissario Iodice.

Giovedì 6 dicembre
Emilio Zucchini sta aspettando che i due tiratardi levino le tende. Questa sera l’effetto catena non ha funzionato. “L’effetto catena”, in trattoria, è quell’inconsapevole (nonché infallibile) libera tutti che scatta quando uno degli ultimi clienti rimasti si alza per pagare il conto, portandosi dietro, a mo’ di pifferaio magico, anche coloro che, fino a quel momento, non avevano dato segno di volersi schiodare dalle sedie.

È arrivato finalmente il momento di sbaraccare e di chiudere il ristorante, per prendersi un po’ di riposo meritato. E in effetti il nostro oste investigatore ne avrebbe bisogno, per i tanti pensieri per la testa a cominciare da quella relazione che ha cominciato con Diana, una giornalista sportiva famosa conosciuta tempo prima in un locale. Fanno una strana coppia, la giornalista bella e brava e l’oste tradizionalista e poco social, ma la relazione va avanti.
All’improvviso, dopo un fulmine, arriva il black out

Della luce manco l’ombra, ed è già mezzanotte passata. Spera solo che tutto ’sto bailamme non sia uno dei soliti segnali. Quando nel ristorante si verifica un imprevisto Zucca ha sempre il timore che possa trattarsi di un avvertimento, l’annuncio che sta per accadere qualcosa di sinistro.
Eccolo, l’imprevisto: dopo aver udito poco lontano delle persone gridare, gli appare sulla soglia del locale, Maicol Fabbri, col suo bastone e col vestito tutto sporco di sangue.
Senza riuscire a tirar fuori una spiegazione, Emilio aiuta Maicol a pulirsi alla bell’e meglio, prima che quest’ultimo scappi via.
Che si sia cacciato in qualche guaio? Maicol è un senzatetto, nato a Casalecchio di Reno, con diversi problemi tutti legati ad un brutto evento del suo passato,
giusto il 6 dicembre del 1990, la strage di Casalecchio: lui era uno degli studenti dell’istituto su cui andò a schiantarsi un aereo militare. Certo, pensa Zucchini, Maicol non ha mai fatto male a nessuno, ma chi può sapere come reagisce una persona come lui:
«Sai come funziona con me.»
«No, Maicol, non lo so. Dimmelo tu!»
«Mi accendo e mi spengo come una lampadina. Ora sono su on, tranquo, amico mio...»

Cosa è successo quella notte in via Piella?
Un uomo è stato trovato sul fondo del canale con la testa spaccata: qualcuno probabilmente lo ha colpito alla testa e gettato proprio dalla finestrella giù lungo il canale.
Sul luogo del delitto arriva il commissario Iodice: è un poliziotto semplice, uno che di fronte ad un omicidio deve trovare una soluzione semplice. Due testimoni gli parlano di questo “Charlie Chaplin” visto in zona nello momento in cui si erano accorti di quel corpo nel canale (e non per una nuotata fuori stagione). Deve essere lui l’assassino che, per le tracce di sangue lasciate, lo porta come le briciole di Pollicino, al ristorante di Zucchini. Proprio lui, quel maledetto ristoratore che gli ha fatto fare tante brutte figure nel passato. 
Abbiamo l’assassino e anche chi lo ha aiutato.

Ancora una volta il nostro ristoratore, strenuo difensore della cucina tradizionale, si trova davanti alla legge, anche trattato in malo modo. Per difendersi dalle accuse di Iodice, deve improvvisarsi un’altra volta investigatore per capire cos’è successo la notte scorsa in via Piella: è stato veramente Maicol ad uccidere quella persona - un writer chiamato Giotto, per il tratto dei i suoi disegni? E come mai Maicol era tutto sporco di sangue?

In sella alla sua vespa senza lunotto, non proprio il mezzo più adatto in un freddo dicembre, dal centro di Bologna fino al Pratello, Zucchini deve fare quel lavoro che la polizia sembra non voler fare, dare una risposta a tutte le domande sul morto: cosa ci faceva quella sera il writer in via Piella? C’è un legame tra Maicol e la vittima? E poi, cosa c’entra quel Carmine Busca che abbiamo incontrato nel prologo, quasi una settimana prima? Tutti i pezzettini di questo puzzle troveranno alla fine la loro giusta collocazione, mettendoci dentro anche una influencer da mezzo milione di follower, un investigatore con molto pelo sullo stomaco, un ragazzo innamorato e un padre rimasto con la mentalità del secolo passato.
Una storia di amore e di avidità.

Che strascichi lascerà questa storia su Emilio? Come andrà avanti la sua relazione complicata con la giornalista sportiva? E Maicol, uno dei tanti invisibili che vivono ai margini delle nostre città, riuscirà a superare il suo dramma, quel buco nero che ha inghiottito la sua gioventù e quella degli altri studenti del Salvemini?

C’è il rimpianto, il solito, per non essere rimasto intrappolato insieme agli altri. C’è il senso di colpa mai sopito. C’è il tempo che non torna.

Come nei precedenti romanzi della serie, anche in questo c’è spazio per la memoria, per non dimenticare la tragedia avvenuta 24 anni fa a Casalecchio di Reno quando un aereo dell’aeronautica militare in avaria si schiantò sull’istituto Salvemini, causando la morte di 12 studenti (e il ferimento di altri 88, anche in modo grave). Quella di Casalecchio è la strage dimenticata, dove lo Stato italiano si è mostrato di fronte ai parenti delle vittime, con due volti: quello solidale e generoso delle istituzioni locali che si sono mosse subito per aiutare le famiglie e poi quello delle istituzioni centrali, che tramite l’avvocatura dello Stato ha difeso i militari accusati di omicidio colposo.

.. fa da contraltare l’atteggiamento dello Stato che, scegliendo di assistere il pilota e gli altri ufficiali dell’Aeronautica Militare coinvolti, si presenta in tribunale come controparte delle vittime, nonostante esse siano i suoi cittadini, i suoi studenti, la sua scuola.

Alla fine quella tragedia, quelle morti, sono avvenute solo per una fatalità.
Come a Cermis, nel 1998.
Se il nome di Maicol Fabbri è inventato, non lo sono quelli dei 12 studenti morti

Deborah Alutto, di Zola Predosa

Laura Armaroli, di Sasso Marconi

Sara Baroncini, di Casalecchio di Reno

Laura Corazza, di Sasso Marconi

Tiziana de Leo, di Casalecchio di Reno

Antonella Ferrari, di Zola Predosa

Alessandra Gennari, di Zola Predosa

Dario Lucchini, di Bologna

Elisabetta Patrizi, di Casalecchio di Reno

Elena Righetti, di Sasso Marconi

Carmen Schirinzi, di Sasso Marconi

Alessandra Venturi, di Monteveglio

Per chiudere, un consiglio :non fate mai arrabbiare un ristoratore come Zucchini, se non volete ricevere rispostacce come queste

Certe volte a Emilio piacerebbe reagire d’istinto, rispondere per le rime.
“Scusi, come sono le lasagne verdi?”
“Blu.”
“È tenera la guancia di manzo?”
“Assolutamente no, signora: è durissima.”

Le precedenti indagini di Emilio Zucchini

La scheda del libro sul sito di Mondadori

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L'antimafia di facciata - pensieri in occasione dell'anniversario di via D'Amelio

La presidente del consiglio ha sempre ripetuto la storia per cui ha scelto di entrare in politica dopo l'attentato di via D'Amelio, il 19 luglio 1992. Quando venne ucciso il giudice Paolo Borsellino assieme alla sua scorta.

Dobbiamo credergli certo. Ma poi, vedendo quella che è stata la politica del suo partito, o dei suoi partiti, da Alleanza Nazionale a Popolo delle libertà fino a quest'ultimo Fratelli d'Italia, viene da chiedersi se abbia mai letto qualcosa, se abbia mai sentito un discorso di Borsellino.

Per esempio questa è la famosa lezione di Paolo Borsellino agli studenti di un istituto a Bassano del Grappa, 26 gennaio 1989:

“L’equivoco su cui spesso si gioca è questo, si dice: quel politico era vicino a un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con l’organizzazione mafiosa, però la magistratura non l’ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. Eh no! Questo discorso non va perchè la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale. Può dire che ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire che quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali, o quello che sia, dovevano già trarre le dovute conseguenze da queste vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato, ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica.

Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza. Si dice: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto… ma dimmi un poco… tu non ne conosci gente disonesta che non è mai stata condannata perché non ci sono le prove per condannarla? C’è il forte sospetto che dovrebbe, quanto meno, indurre i partiti a fare grossa pulizia, a non soltanto essere onesti, ma apparire onesti facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi e fatti inquietanti…”. 

Se vedete tutte le leggi approvate in questo governo in tema di corruzione, di trasparenza negli appalti, si stanno smontando tutte le leggi in nome di un garantismo di facciata.

Mafia e corruzione vanno a braccetto.

Va aggiunta anche un'altra cosa: in commissione antimafia questo governo ha sposato la linea ancora una volta "garantista" (e comoda) secondo cui Borsellino sarebbe stato ucciso perché stava indagando sul rapporto mafia e appalti del Ros.

Una tesi che farebbe comodo a tanti perché spazzerebbe via tutto il tema della trattativa stato mafia, la storia (infame) del finto pentito Scarantino (costruito da uomini dello stato).

No, non basta mettere in pista un'antimafia di facciata per combattere le mafie. 

12 luglio 2024

La notte non ha bisogno di Paola Ronco e Antonio Paolacci

 

Se avesse saputo di essere arrivato al suo ultimo pasto, Vittorio Oliveri avrebbe scelto di assaporarne ogni dettaglio, come prescrivevano i testi zen che gli capitava di leggere nei rari momenti di relax. Di certo non sarebbe sceso dal taxi in volata e con il cellulare all’orecchio, senza guardarsi intorno [..] aveva tanti impegni, ancora, ma si illudeva di avere anche tutto il tempo per portarli a termine.

Un altro romanzo della coppia di scrittori Ronco Paolacci, o Paolacci Ronco, con protagonista il vicequestore Paolo Nigra che qui troveremo alle prese con una brutta indagine di un importante finanziere genovese, della Genova bene, ucciso in un modo brutto, con tanto di rituali satanici, quel genere di particolari su cui un certo tipo di stampa, preoccupata di parlare alla pancia delle persone piuttosto che alla loro mente, si getta a capofitto.

Purtroppo questo delitto capita in un momento poco sereno per Nigra: il suo fidanzato, l'attore Rocco Antonelli, diventato famoso con la fiction del commissario Scogliamiglio sta per esordire con la sua prima pièce teatrale, proprio a Genova.

Ma Rocco, a differenza di Nigra, non ha avuto il coraggio di fare “coming out” per dire a tutti che la sua normalità è amare un uomo.

Non è facile – e questo è il primo problema per Nigra - voler bene ad una persona e doversi nascondere, non poter vivere alla luce del sole questa situazione: Nigra ha sperimentato sulla sua pelle quanto sia difficile poi continuare a fare il proprio lavoro dopo aver detto che si ama un uomo, c’è il rischio che la carriera di Rocco subisca un arresto, perché siamo in Italia e qui viviamo ancora nello stereotipo della famiglia tradizionale, un uomo una donna anzi, un papà che lavora e una mamma che sta a casa ad accudire i bambini.

Questo è, ad esempio, il modello di famiglia che ha in mente il leader del Partito degli Italiani, Lorenzo Modesti: Dio, patria e famiglia, questa la sua politica che, come potete immaginare, non vede di buon occhio gli omosessuali e i migranti, considerati le cause di tutti i mali del paese.

In una precedente indagine Nigra aveva scoperto come questa immagine di buon italiano, patriota e difensore dei cari e vecchi valori, che di giorno tuona contro chi delinque e chi non rispetta le leggi, è legato ad una potente ndrina di cui, di fatto, è solo un pupo. Il potere, quello vero, quello di questa Italia dove si criminalizza la povertà e si depenalizzano i reati dei colletti bianchi, deve necessariamente andare a braccetto con le mafie:

Devi capire che noi non lavoriamo per la criminalità organizzata: queste puttanate lasciale pensare al popolino. Noi facciamo parte della rete d’affari più importante d’Italia, quella dove girano i veri soldi e il vero potere. L'azienda italiana meglio organizzata e insieme l'istituzione più funzionante che ci sia. L'unica cosa diversa dal potere che una volta si chiamava legale, qui, è che ci sono altre regole da seguire, e altri avversari da cui nascondersi o fottere. Noi siamo nel fulcro del potere, lo capisci? Non c’è un’altra strada per arrivare a governare in Italia, non oggi. Quindi metti da parte i tuoi concetti del secolo scorso e dammi retta. Stiamo facendo un lavoro importante e abbiamo già avuto un intoppo, un danno di cui ci chiederanno quantomeno spiegazioni. Per cui invece di gongolare perché il carico non sarà sequestrato, dobbiamo concentrarci sulle priorità, ovvero il fatto che il container adesso è bloccato, invece deve arrivare qui comunque, e presto, nei prossimi giorni. E nessun piccolo funzionario che non conta nulla dovrebbe riuscire ad impedirlo. Riesci a seguirmi?

Da uomo politico potente in Liguria, ha protetto i traffici di droga della famiglia Mangano nella sua Genova, la città da cui dall'enorme porto passa circa il 40% della cocaina che poi transita verso il nord Italia (dati della relazione della Dia).

Quella contro Modesti è una partita da giocare con accortezza: perché tanto Nigra conosce il segreto di Modesti quanto il potente politico ligure, nella sua ambizione di potere, sa quanto quel poliziotto, quel cane sciolto della Questura, possa costituirgli un intoppo nel suo sogno che lo vorrebbe portare a Roma. Perché quel cane sciolto non può essere comprato, come altri uomini nelle forze dell’ordine.

Ma i problemi per il vicequestore sono destinare a peggiorare: la morte del finanziere costringe tutta la Mobile a seguire il caso per due motivi. Per l’estrema importanza della vittima - Oliveri Vittorio, anni cinquantaquattro, di professione consulente finanziario, non tutti i morti sono uguali, come sappiamo bene.
E poi per il come è stato trovato il morto: legato ad un letto, col corpo coperto da vernice rossa, tanto da far sembrare il corpo inondato di sangue in un primo momento. Ma non è stato ucciso dalle coltellate, quelle sono date post mortem, perché Oliveri è morto soffocato.
La cosa che salta all’occhio è un’altra, quel “disegno tracciato sul pavimento con una certa precisione circolare, un pentacolo che sembrava essersi formato spontaneamente con il liquido rosso”.

Un pentacolo, dunque magari un rito satanico, compiuto da qualche setta di matti, magari legati proprio a quel cantante famoso che da poco è venuto pure lui ad abitare a fianco dei potenti di Genova, in una villa poco lontana. Si tratta del cantante Fidel Dior, molto estroverso nei suoi concerti, abile nel provocare le gente perbene, politici come Modesti per esempio.

C’è, infine, un altro problema che, come un Tir a velocità sostenuta, sta piombando addosso a Nigra: in città è arrivato il professor Walter Sobrino, un importante criminologo in Italia, tanto da essere chiamato da diverse procure per le sue consulenze. Come avverrà anche per questo delitto, per mettere a tacere le voci fatte circolare dalla stampa di un delitto rituale.

Quando, come Nigra ha già capito, quel pentacolo è solo un depistaggio. Un caso di “staging”, di messa in scena di un delitto.

Purtroppo Walter Sobrino è anche la persona che meno avrebbe voglia di vedere in quel momento, essendo stato il suo ex, prima di Rocco.

«Lo so che tra voi c’è stato, come dire, un vissuto importante, ma qui parliamo di lavoro. Dobbiamo avvalerci della consulenza del professor Sobrino in questo caso...»

Tutto sembra andare per il verso sbagliato, la vita di Nigra sembra prendere una piega sbagliata: tutta colpa del non potere dichiarare la sua relazione per proteggere Rocco che in quei giorni è proprio a Genova per la sua prima. Nigra si ritrova sotto attacco da parte di Modesti, costretto ad abbandonare la sua indagine non autorizzata sui container dal porto di Gioia Tauro carico di cocaina. È costretto a mentire ai suoi colleghi, a cui non può raccontare né di Rocco né dell’indagine. È costretto anche a non essere sincero con Rocco, causando il risentimento di quest’ultimo.

E la presenza di questo Walter, un criminologo di quelli brillanti, da talk, capace con le sue punzecchiature sul loro comune passato, di scalfire l’atteggiamento da pokerista di Nigra, non aiuta di certo.

L’unico punto di forza che sentiva di avere era proprio la logica, e forse non era vero nemmeno quello; più che altro, in qualche modo riusciva a farla prevalere sull’emotività.

Una doppia indagine, molto pericolosa quella su Modesti, molto delicata quella sul delitto di Oliveri: quest’ultima si risolverà mettendo assieme, con tanta pazienza e con un lavoro certosino sui dettagli, tutti i pezzi che non tornano. Come mai il morto era stato trovato a stomaco vuoto e con residui di cocaina in circolo, ma assente nella sua villa? Come mai quel rituale falso, quel pentacolo messo lì dall’assassino per sviare le indagini (e creare quel clamore mediatico che avrebbe messo in difficoltà gli investigatori)? Tutto sembra ruotare attorno alla cocaina..
A dare un contributo arriverà la testimonianza di due strani ladri, i fratelli Malavac, due ladri che parlano tutte le lingue dell’Europa, una sorta di Gramelot moderno.

Tutto troverà una sua spiegazione che punterà dritto contro le ipocrisie di quella Genova bene, arricchita magari sulle spalle di speculazioni finanziarie o legami stretti con la politica, quella Genova che si spaventa per gli atteggiamenti di un cantante che sul palco bacia il chitarrista, che si atteggia da finto satanista. Ma che non si fa scrupoli nel portare avanti le proprie perversioni, l’importante è che siano nel privato della propria villa.

Ci sono tanti spunti, legati anche alla realtà che vediamo tutti i giorni, di cui leggiamo sui giornali: delitti che occupano le prime pagine per giorni per quei dettagli che colpiscono l’immaginazione dei lettori.

La politica che prende di mira i migranti ma che in realtà sui migranti basa la sua sopravvivenza: per la propaganda, per le leggi che costringono i migranti a vivere da clandestini, senza diritti, dunque più ricattabili dalla criminalità organizzata.

L’uomo politico cresceva nei sondaggi spingendo l’opinione pubblica e le istituzioni verso l’intolleranza nei confronti degli immigrati, così da ostacolare qualsiasi scelta politica che ne facilitasse la regolarizzazione.

[..] Era un sistema a ingranaggi, dove ogni rotella forniva forza motrice all’altra: gestione illegale dell’immigrazione, traffico di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, speculazione edilizia, manodopera a buon mercato e propaganda politica che macinava consensi.

C’è un finale, parzialmente risarcitorio alla fine di questa storia. Ma non è il finale della battaglia che Nigra dovrà portare avanti, per avere un’Italia migliore, per sconfiggere quel sistema di corruzione e ricatti, dove potere e criminalità organizzata sono legati, tanto da renderli indistinguibili l’uno dall’altro.

Soprattutto, questo è solo un romanzo. O forse no..

Le precedenti indagini del vicequestore Nigra

Oceano di Fabrizio De Andrè

Quanti cavalli hai tu seduto alla porta

Tu che sfiori il cielo col tuo dito più corto

La notte non ha bisogno

La notte fa benissimo a meno del tuo concerto

Ti offenderesti se qualcuno ti chiamasse un tentativo

Ed arrivò un bambino con le mani in tasca

Ed un oceano verde dietro le spalle

Disse, "Vorrei sapere, quanto è grande il verde

Come è bello il mare, quanto dura una stanza"

È troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male

Prova a lasciare le campane al loro cerchio di rondini

E non ficcare il naso negli affari miei

E non venirmi a dire, "Preferisco un poeta

Preferisco un poeta ad un poeta sconfitto"

Ma se ci tieni tanto puoi baciarmi ogni volta che vuoi

La scheda del libro sul sito di Piemme editore, il blog degli autori.
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

07 luglio 2024

Il potere che una volta si chiamava legale

L'ultimo romanzo della coppia Paola Ronco e Antonio Paolacci, "La notte non ha bisogno" (ed Piemme) parte dal porto di Genova, da un container in arrivo con una nave da Gioia Tauro che contiene un carico importante di cocaina.

Il porto di Genova, finito al centro di una importante indagine da parte della procura di Genova per un'inchiesta su un presunto giro di corruzione ha un'importanza fondamentale per i traffico di droga della 'ndrangheta, in Italia e nel resto dell'Europa.

E' sempre il libro a raccontare come: 

L’hub portuale di Genova era uno dei primi scali per il traffico di cocaina in Italia. Carichi fino a due tonnellate, e in numero difficile da quantificare. Secondo una stima approssimativa della Dia, circa il 40% della merce destinata al mercato italiano passava di lì. Un giro d'affari enorme, che richiedeva ben più di qualche portuale impegnato a spostare cassoni e container.

Dietro c’erano le cosche ’ndranghetiste radicate sul territorio, e anche loro di certo non si muovevano da sole. La malavita aveva bisogno di basi logistiche regionali per la gestione dei carichi, e poi traiettorie di spostamento nazionali e internazionali, con molte persone impegnate a manomettere bolle di trasporto, sviare controlli, verificare persi e cifre. Il traffico di cocaina spostava così tanto denaro e potere che era dilagato a inglobare persone dalla fedina penale pulita e dal curriculum irreprensibile; e naturalmente diversi uomini chiave nelle istituzioni.

Un giro «stratificato», lo definiva la Dia, con connessioni tra imprenditori, professionisti, funzionari pubblici, politici e amministratori locali.  

Tra questi politici, anche il leader del partito degli Italiani, Lorenzo Modesti che, in un colloquio col suo avvocato, commentando come sono riusciti a salvare un carico grazie ad una soffiata, racconta di questo nuovo modo di concepire il potere, "che una volta si chiamava legale" e di questi rapporti col mondo criminale.

L'esponente politico [..] parlò con voce bassa e tranquilla, senza che il suo tono sottolineasse il cambio di argomento:

«Tu te ne rendi conto, vero, che stavolta abbiamo rischiato parecchio?» 

«Ne sono consapevole» rispose Crociani, sedendosi davanti al suo cliente senza essere stato invitato. 

«Se il nostro uomo alla Finanza non avesse sentito le voci sulla soffiata, stanotte avrebbero fermato un carico di quelli grossi. E i nostri amici se la sarebbero presa con noi.»

«Il tuo uomo alla Finanza sta lì apposta per quello» si strinse nelle spalle Crociani, calcando l'accento sul cambio di possessivo.

«E ti ricordo che non presta servizio pro bono. Anzi. In ogni caso ha svolto egregiamente la sua funzione. Sarebbe divertente poter vedere le facce di quelli che apriranno il container, stanotte.»

«Ho capito, Raimondo. Stavolta è andata bene. Abbiamo avuto l'informazione in tempo e sono riuscito ad avvisare e risolvere la faccenda. Ma la prossima?» 

«Che possiamo farci? Più che coltivare una rete di informatori per evitare guai, che altro vorresti fare?» decise di essere chiaro Crociani.

Lorenzo Modesti socchiuse gli occhi e per un riflesso condizionato si guardò intorno come alla ricerca di qualcosa.

[..]

«Tu pensi troppo come un uomo del secolo scorso» cominciò Modesti, mettendosi comodo. «Qui non si tratta semplicemente di corrompere poliziotti e sperare che vada bene. Qui si tratta di governare il Paese. Di prendere in mano lo Stato. Tu ragioni da avvocato, senza offesa.»

Si fermò, come aspettasse la risata in studio. 

«Continui a considerarti solo un opaco professionista che fa le palanche parando il culo a gente che si muove sul confine della legalità. 

Devi fare il salto, Raimondo. Devi capire che noi non lavoriamo per la criminalità organizzata: queste puttanate lasciale pensare al popolino. Noi facciamo parte della rete d’affari più importante d’Italia, quella dove girano i veri soldi e il vero potere. L'azienda italiana meglio organizzata e insieme l'istituzione più funzionante che ci sia. L'unica cosa diversa dal potere che una volta si chiamava legale, qui, è che ci sono altre regole da seguire, e altri avversari da cui nascondersi o fottere. Noi siamo nel fulcro del potere, lo capisci? Non c’è un’altra strada per arrivare a governare in Italia, non oggi. Quindi metti da parte i tuoi concetti del secolo scorso e dammi retta. Stiamo facendo un lavoro importante e abbiamo già avuto un intoppo, un danno di cui ci chiederanno quantomeno spiegazioni. Per cui invece di gongolare perché il carico non sarà sequestrato, dobbiamo concentrarci sulle priorità, ovvero il fatto che il container adesso è bloccato, invece deve arrivare qui comunque, e presto, nei prossimi giorni. E nessun piccolo funzionario che non conta nulla dovrebbe riuscire ad impedirlo. Riesci a seguirmi?»

La notte non ha bisogno di Paola Ronco e Antonio Paolacci

Tutto questo meccanismo perfetto che mette a fianco uomini infedeli allo Stato, criminali, professionisti con molto pelo sullo stomaco non può essere bloccato da un vicequestore di polizia, un cane sciolto, che non può essere corrotto. Pure gay dichiarato. Il vicequestore Nigra. 

«Intanto dobbiamo toglierci dalle palle lo sbirro frocio» sparò d’un fiato Modesti, mostrando i palmi delle mani come per sottolineare l’ovvietà. «Quello ce l’ha con me e tornerà a provarci.

E' solo un romanzo, certo, questo "La notte non ha bisogno", che però racconta del volto nascosto della politica, dei legami con la criminalità, ormai in osmosi. Di come la lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata siano la stessa cosa.

Ma forse è solo un romanzo..

04 luglio 2024

Stivali di velluto, di Giuseppina Torregrossa


 

Il verme della mela si chiama carpocapsa. E' un bozzolo che vive incistato sotto la corteccia dell'albero e sfarfalla ai primi tepori. Le larve penetrano nei frutti, scavano gallerie nella polpa, che marcisce. La mela all'apparenza non ne soffre. Attaccata al ramo, si dondola sul suo picciolo, compiacendosi della buccia rossa, mentre il silenzioso ospite la divora dall'interno.
Giulia Vella, profiler, specializzata nella ricerca di serial killer, assomigliava ad una di quelle mele.

È bello, per un lettore come me, scoprire nuovi scrittori che ti sanno convincere delle loro capacità anche con romanzi come questo “Stivali di velluto” che con le sue 156 pagine è poco più di un racconto.

Al centro della storia l’ispettrice Giulia Vella: è una che ha studiato per fare il suo lavoro, alle spalle ha un’esperienza di formazione in America per diventare profiler e analizzare i crimini commessi dai serial killer. Non di certo per riscaldare la sedia come sta facendo adesso a Palermo, aggregata alla sezione Udi, ufficio delitti irrisolti della Mobile.
“La milanesa”, così la chiama il suo antipatico superiore, che non nasconde in alcun modo la disistima che prova nei suoi confronti anche per la nomea di raccomandata che l’ha accompagnata fin da Milano. Nomea nemmeno troppo lontana dalla realtà, essendo figlia del Questore.
A proposito, come mai questa scelta di trasferirsi da Milano fino a Palermo, dove non conosce nessuno? E qual è quella malattia che la sta divorando da dentro, come il verme della mela che si mangia la polpa dall’interno?

Non è una metafora molto lontana dalla realtà: perché Giulia ha veramente un dolore che si porta dentro, legato al suo passato, alla sua vera identità e la cui scoperta sarà una sorta di mistero nel mistero dell’indagine che dovrà affrontare.
Infatti, più per metterla in difficoltà che per aiutarla veramente, il suo dirigente le affida un vecchio caso, oggi lo chiameremmo un “cold case”, scelto col metodo del bussolotto tra i tanti casi irrisolti

L'omicidio era avvenuto il 17 maggio 1977. La vittima, il direttore di un ufficio postale periferico, era stata trovata riversa in una pozza di sangue da un'impiegata appena tornata dalla pausa pranzo.

L’omicidio era avvenuto nel quartiere di Pallavicino, fuori Palermo: ad accompagnarla sul luogo del crimine è l’agente Paola Arena, “cuor contento” è il nomignolo che Giulia le ha affibbiato per il suo carattere remissivo, sempre col sorriso in faccia.
Per la prima volta la “milanesa” scopre la Palermo fuori Palermo, sente parlare del “sacco”, la speculazione edilizia dell’imprenditoria mafiosa che cambiò la faccia della città, condannandola al cemento e alla siccità:

Tutti pensano che in Sicilia manca l'acqua, qui passavano veri e propri fiumi. Il sacco di Palermo ha cancellato giardini, vigneti, vivai, alberi d'alto fusto e le tracce di un glorioso passato..

Chi aveva seguito le indagini aveva archiviato tutto come un delitto avvenuto a seguito di un tentativo di furto ma, leggendo le carte, quel delitto tutto sembra meno che un furto.
Perché il presunto ladro è entrato senza nessuna effrazione, probabilmente è stato il signor Mazza, il direttore ad aprirgli, forse lo conosceva anche.
Poi, nell’ufficio tutto era in ordine, nessun segno come quelli lasciati dai ladri mentre frugano alla ricerca di beni di valore.

.. c'era un'annotazione del medico legale che parlava di un colpo inferto dal basso verso l'alto. Che l'assassino fosse seduto o in ginocchio?

Bisogna andare a rileggersi le carte ma, soprattutto, andare a sentire tutti i possibili testimoni dell’epoca, sempre che siano ancora vivi. Uno di questi è l’ispettore Panseca, un poliziotto che ha ancora un buona memoria:

Gli informatori avevano la bocca cucita.

C'era qualcosa di segreto dietro al delitto. Io comunque alla rapina non ci ho mai creduto.

Le indagini furono chiuse per le pressioni dall'alto: il morto era il genero del capomafia della zona, Don Tano Genco, che probabilmente aveva usato l’ufficio postale per il riciclaggio di soldi sporchi.
Un delitto di mafia?

Anche questa ricostruzione non torna molto.
Panseca però, di fronte alla freddezza di Giulia, da vecchio gentiluomo, la invita a lasciarsi andare:

Ti piacerà vivere qui, dottoressa, c’è il sole che scalda e il mare è respiro vitale. Qui non si muore, al massimo si passeggia in un’altra dimensione. Noi siciliani siamo eterni.

L’indagine diventa un modo per scacciare via tutto il malessere per quel dolore che si porta dentro, legato al suo passato, a quella sua ricerca di identità.
Paradossalmente, anche dentro quel delitto, una volta scoperto il nome dell’assassino, o dell’assassino e il perché, si troverà di fronte ad una questione di identità.
È come se la poliziotta e l’assassino (o assassina) si fossero trovati di fronte allo specchio, ciascuno in grado di vedere il dolore e l’infelicità nell’altro.

Lei è nata infelice. L'ho sentita compagna nel dolore, perciò mi sono fidata di lei.

Forse è arrivato il momento di cacciar via quel verme che ti sta mangiando da dentro e lasciarsi andare di fronte alle bellezze di quella città, il mare, i colori, perfino la bellezza di uno dei mercati rionali

Il mercato era un concentrato di colori. Il rosso delle fragole e dei pomodori, il verde delle fave, dei piselli, della lattuga; l’arancio per la papaya, il viola per le melanzane”.

Pur cadendo un po' in qualche cliché (quando la bella poliziotta scopre l'amore..), rimane una lettura piacevole e interessante, in particolare sul tema dell'identità, sullo scoprire chi siamo veramente (e nell'accettare chi siamo veramente).

La scheda del libro sul sito di Rizzoli
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

30 giugno 2024

Parenti di sangue per l'87° distretto, Ed McBain


 

Arrivava correndo nella pioggia, scalza. Il riflesso liquido dell’insegna al neon e dei semafori schizzava via sotto i piedi in corsa. Lei e la sua immagine sull'asfalto bagnato fuggivano simile a gemelle siamesi unite in modo bizzarro, i piedi a contatto coi piedi riflessi su lucido asfalto bagnato, pozzanghere di rosso e di verde, di arancione e di azzurro che spruzzava in sua macchiare le gambe col fango della città.

Sanguinava.

Sanguinava da una ferita sulla guancia destra e sanguinava dai tagli alle dita e ai Palmi di tutte e due le mani. Il davanti del vestito era stato strappato, e mentre correva lei cercava di tenere accostati, a coprire il reggiseno, i lembi della stoffa.
Pioveva dalle dieci. Adesso la pioggia non era né violenta né fitta, si era trasformata in gocce minuscoli che facevano salire dalla strada una specie di nebbia leggera. In distanza i globi Verdi dell'87° Distretto brillavano tra la pioggia e la nebbia.

I gialli di Ed McBain che ho letto finora, scontando il peccato di aver trascurato per anni questo scrittore, non mi hanno mai deluso. Anche questo, “Parenti di sangue” (Blood relative il titolo originale, pubblicato nel 1975) conferma la regola: ci troviamo di fronte ad un delitto particolarmente cruento che viene raccontato, in presa diretta, con gli occhi degli agenti investigativi che dovranno seguire il caso.

C’è una ragazza che in una mattina di pioggia si presenta all’87 Distretto tutta insanguinata e col vestito strappato: si chiama Patricia, ha quindici anni al poliziotto che l’accoglie, Bert Kling, racconta di essere stata aggredita in un androne dove si era rifugiata per la pioggia, da un uomo che prima ha accoltellato la cugina e poi cercato di uccidere lei.

In parallelo, un agente di pattuglia mentre sta imprecando per quella pioggia che gli ha inzuppato le scarpe, nel suo giro scorge una mano che spunta da un androne. È una ragazza che, dai segni lasciati sul corpo, è stata uccisa a coltellate, il sangue è schizzato su tutte le pareti.
Ancora non lo sa, non può saperlo, che si tratta dello stesso delitto di cui Bert Kling sta raccogliendo le prime informazioni al distretto: così l’agente di pattuglia chiama il Distretto che assegna il caso a Steve Carella.

Al distretto arriva anche una telefonata della signora Liliam Lowery: la figlia e la nipote, Patricia e Muriel, sono andate ad una festa dovevano tornare alle dieci ma non sono ancora tornate a casa (siamo negli anni settanta e non c’erano i cellulari dei giorni nostri).
Una denuncia per violenze, un corpo di una giovane ragazza trovata morta e una madre preoccupata per la figlia e la nipote: i tre casi sono destinati a riunirsi in un’unica indagine, seguita da Steve Carella che si mette scrupolosamente ad indagare.

Prima la scena del crimine, la ricerca di impronte, dell’arma del delitto casomai l’assassino l’avesse gettata poco distante per sbarazzarsene; poi la raccolta del parere del medico legale (c’è stata anche violenza sessuale su quella ragazza?) che lascia all’agente il suo parere, tutte quelle coltellate, in quel modo furioso, sono opera di un sadico.

Infine, la testimonianza di Patricia, sopravvissuta all’agguato: il suo racconto è estremamente dettagliato, l’uomo – bianco – che le ha aggredite e che ha ucciso la cugina Muriel, era alto e aveva gli occhi azzurri.

C’è un primo indiziato, scoperto da altri agenti in pattuglia attorno alle strade dove è avvenuto il delitto: si tratta di un uomo che stava dormendo per strada e che di fronte alle domande degli agenti, cerca di aggredirli. Potrebbe essere il colpevole lui? No, è scagionato da un incredibile alibi, mentre Muriel veniva accoltellata, stava picchiando la moglie.. perché ogni tanto scappa, “sanguinava parecchio quando sono uscito di casa, ma non voglio guai con la legge.”
Non è un assassino, solo uno dei tanti, troppi, uomini violenti. Che andrebbero curati.
Il lavoro di indagine va avanti: l’autore ci racconterà di come procedono questo tipo di indagini passo dopo passo, portandoci dentro il distretto e perfino dentro la vita degli agenti, costretti a convivere con tutto il male del mondo, cercando di tenerlo fuori dalla vita privata.
Un altro passaggio fondamentali in casi come questi è sentire tutte le persone del Distretto condannate per reati di violenza contro le donne (o minorenni): questa procedura porta ad un altro possibile assassino, si tratta di un uomo bianco, con una condanna per violenza contro minori, che ha pure gli occhi azzurri.

L’uomo che la ragazza toccò su una spalla era un agente investigativo con diciassette anni di anzianità di servizio che era stato trasferito all’87 Distretto un mese prima.

Ma ancora una volta questa si rivelerà un buco nell’acqua: messo a confronto con Patricia, la testimone, per il classico “confronto all’americana”, quest’ultima riconosce un altro uomo. Un poliziotto che non ha niente a che fare con questa brutta storia..

Succede, coi testimoni: un poliziotto con qualche anno di esperienza sul campo, le sa queste cose. I testimoni, anche quelli che si dicono sicuri di saper riconoscere la persona, che dicono di aver visto tutti quei dettagli, poi alla prova dei fatti spesso si sbagliano.
Questo riconoscimento sbagliato però riduce la credibilità di Patricia, siamo sicuri che quella sera abbia veramente visto in faccia l’assassino della cugina? Il lampione davanti l’androne era rotto, quando è passato l’agente di ronda.

Nel frattempo, accadono diversi eventi che cambiano il corso delle indagini: per prima cosa viene ritrovato il coltello con cui sono state colpite Patricia e Muriel. E non si tratta di un coltello qualsiasi, non è stato comprato in un negozio. Sarà un primo tassello che metterà Steve Carella sulla pista giusta.
Poi è Patricia, che, come un fulmine a ciel sereno, decide di cambiare la sua deposizione. No, l’assassino non è più quell’uomo con gli occhi azzurri (ma allora, da dove ha preso l’ispirazione per questo finto assassino? Come mai ha scelto proprio quel particolare per quell’assassino?).

Infine, è sarà questa la scoperta più importante, frutto anche del caso, perché a volte per risolvere un caso serve anche un pizzico di fortuna: è la scoperta del diario di Muriel, ritrovato in una discarica dal Tom “il re del mondo”, un senzatetto che vive di quanto ritrova nell’immondizia che i suoi concittadini buttano via e che per lui costituisce una sorta di donazione.

.. si sedette su una poltrona sventrata, e alla luce del tardo pomeriggio cominciò a leggere un libro rilegato in pelle rossa.
Sulla prima pagina lesse le parole stampate che dicevano: “Questo è il diario di.” E sotto, scritto a mano sopra l’apposita riga punteggiata, lesse:
“Muriel Stark.”
Il nome gli suonò familiare. Muriel Stark. Senza dubbio era una sei suoi sudditi.

La lettura del diario, consegnato prontamente agli agenti dell’87 Distretto e poi all’agente incaricato, Carella, darà gli ultimi elementi per chiudere il caso.
E capiremo anche noi perché quel titolo, Parenti di sangue.

Dentro questo giallo c’è dentro il lavoro del poliziotto, non eroe o superman, ma un uomo che si affida al suo intuito, all’esperienza, per portare avanti al meglio il suo lavoro. Che è un lavoro che rischia di pesare anche nella vita privata, dentro le mura di casa.
Ed McBain ci mostra passo passo come funzionano questo genere di indagini, come si muovono i poliziotti, con i presunti responsabili (e i diritti che devono essergli riconosciuti), con le vittime che si porteranno sempre dentro il loro dolore, coi testimoni.
Perché ogni delitto, come questo di una ragazza uccisa in un androne di un palazzo in ristrutturazione, finita dentro un amore inseguito, poi diventato soffocante, racconta quanto può essere profondo e vicino a noi, il male.

C'è, a metà racconto, un passaggio interessante sul tema della libera circolazione delle armi in America, sulla presunta maggior sicurezza che deriverebbe dall'avere più armi e di come, invece, questo costituisca un problema a cominciare dai poliziotti stessi: 

 Nonostante quello che l'associazione nazionale armaioli proclamava sul diritto di ogni e qualsiasi uomo di possedere armi e di andarsene allegramente per i boschi e divertirsi cacciando, a Carella, come ogni altro poliziotto di quella città, sarebbe piaciuta, sopra ogni altra cosa, una legge che proibisse a ogni privato cittadino, di possedere o portarsi a spasso un'arma da fuoco di qualsiasi genere e per qualsiasi scopo. Ma i poliziotti non hanno gran voce in capitolo a Washington, anche se sono loro che quotidianamente raccolgono tempesta mentre i fabbricanti d'armi, che seminano vento, raccolgono invece grossi profitti.

Questo libro non si trova in vendita negli store online (almeno, io non l’ho trovato): potete trovarlo usato su Ebay

24 giugno 2024

La strage di Bologna, i mandanti di Paolo Morando


Questo breve romanzo del giornalista Paolo Morando è il secondo volume della raccolta "Terrorismo italiano" pubbicata dal Corriere della sera, curata da Barbara Biscotti.

L'autore ha scritto per Feltrinelli un saggio ben più corposo intitolato "La strage di Bologna - Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito" dove trovano spazio anche le storie dei primi processi che hanno portato alle condanne in via definitiva dei tre esponenti dei Nar, Mambro, Fioravanti e Ciavardini, come anche le storie delle vittime.

Famiglie distrutte (anche nel senso materiale del termine) da quella bomba esplosa nella sala d'aspetto della stazione di Bologna in una mattina del 2 agosto 1980.

In questo libro ci si sofferma sugli ultimi sviluppi emersi dal processo Bellini/mandanti che, con le sentenze di condanna emesse in primo grado, ci consente per la prima volta dopo più di quarant'anni di arrivare al livello superiore.

La strage non è più solo opera di quattro ragazzi autodefinitisi spontaneisti: ora abbiamo il livello superiore che dai Nar, il gruppo terrorista di estrema destra cresciuto a destra del movimento sociale e in rottura con i "tramoni" di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, sale su fino alla P2 di Gelli e a uomini dello Stato che pensavamo di aver sepolto nella nostra storia passata. Uomini come Federico Umberto d'Amato, a capo dell'Ufficio Affari Riservati, una sorta di servizio segreto del Viminale, uomo di cerniera tra l’Italia e la Nato, piduista. Il suo ufficio è stato ritenuto responsabile, tra le altre cose, dei depistaggi all'indomani della strage di Milano, il 12 dicembre 1969, con la falsa pista che incolpava gli anarchici e la velina che definiva perfino Yves Guerin Serac come anarchico.

Mescolare il vero e il non vero, in modo da rendere difficile se non impossibile risalire alla verità.

Tutto ruota attorno alle carte, alle sentenze, ai passaggi dell'ultimo processo, conclusosi nell'aprile 2023 in primo grado (e dei precedenti processi chiaramente): interi passaggi vengono riportati, in modo che anche il lettore possa rendersi conto di come i giudici e i magistrati sono arrivati a stabilire le responsabilità dei sogetti imputati. Ma va dato atto all'autore di essere riuscito a non essere "pesante" nel racconto: chi vuole farsi una conoscenza sui fatti di Bologna, sui depistaggi, sui perché dei depistaggi e, cosa ancora più importante, sul perché di questa strage, può partire da questo libro.

Non mi soffermo sulle responsabilità, ormai acclarate, chiare e definitive, dei neofascisti condannati per la strage: nonostante ancora oggi il fronte innocentista (che trova sponda anche nella maggioranza di governo) non si sia rassegnato alla definizione di bomba "fascista", le loro responsabilità sono oltre ogni ragionevole dubbio. Ancora una volta, se volete leggere un approfondimento sulle prove che hanno portato alle condanne di Mambro, Fioravanti (assieme a Ciavardini e Cavallini, condannati ma non ancora in via definitiva), potete leggere il capitolo su Bologna nel libro "La ragazza di Gladio" di Paolo Biondani.

I colpevoli sono loro. Punto.

Quello che mancava fino al 2023 erano i perché: era una sentenza monca, quella che ha condannato i Nar, terroristi contro il sistema ma in realtà, finanziati e aiutati da pezzi dei servizi e della massoneria deviata, altro che spontaneisti. Si ritiene, spiega Morando, che siano addirittura stati creati dai servizi, quella parte che viene definita deviata, ovvero al servizio di interessi al di fuori del dettato costituzionale.

Se siamo arrivati a questo è grazie al lavoro e all'impegno della Procura Generale di Bologna, che ha avocato a sé il processo dopo la richiesta di archiviazione della procura. Ma soprattutto dobbiamo dire grazie all'impegno delle parti civili, avvocati e familiari dell'associazione vittime di Bologna che non hanno mai smesso di cercarla questa verità, di proteggere le sentenze di condanna dai continui despitaggi, ancora oggi.

Depistaggi che non finiranno, perché quella di Bologna è una pagina nera della nostra storia che racconta della doppia fedeltà di pezzi delle nostre istituzioni, di come siamo stati (ma è giusto usare il passato?) un paese a sovranità molto limitata.

Anche a prezzo della vita di 85 persone.

Sono state le parti civili a far ritrovare il documento "Bologna", sequestrato in Svizzera a Licio Gelli, dominus della P2 e, secondo molti storici, dominus anche dei nostri servizi segreti a cavallo degli anni settanta e ottanta. Su quel pezzo di carta, ripiegato in quattro, c'era la scritta Bologna, poi una serie di cifre, movimentazione da un conto corrente della banca UBS (Bologna 525779 –X.S.).

Soldi, che si è scoperto poi, sono finiti su conti riconducibili ai Nar, al direttore dell'Ufficio Affari Riservati, un potente uomo dentro il mondo dei servizi e al giornalista Mario Tedeschi, senatore del MSI ma anche giornalista de il Borghese, giornale su cui vennero pubblicati articoli a sostegno della fantomatica pista palestinese, pista che tutte le sentenze hanno smontato pezzo per pezzo.

Se non sono stati i NAR, come mai i servizi, controllati dalla P2 di Gelli, si sono mossi sin da subito, per sviare le indagini e sostenere così la loro innocenza? Anche le sentenze di condanna a Gelli e a pezzi del Sismi (il vecchio servizio segreto militare) sono passate in giudicato: stiamo parlando dell'operazione "terrore sui treni" con cui furono fatti trovare, nel gennaio 1981, sul treno Taranto Milano delle bombe con la stessa micidiale composizione di quella di Bologna. Come facevano i servizi a conoscere la giusta composizione della bomba del 2 agosto, visto che i periti non avevano ancora depositato i loro risultati?

Quel documento, che Gelli conservava con cura nel suo portafoglio ripiegato in quattro, non era mai arrivato ai magistrati di Bologna: era stato inviato dalla Guardia di Finanza ai magistrati milanesi ma senza riportare l'intera scritta "Bologna" nonostante in quei mesi del 1987 il processo sulla bomba alla stazione fosse già in corso. Sciatteria, superficialità, oppure un altro tentativo di depistaggio?

Quel documento è arrivato ai magistrati di Bologna grazie al lavoro dell'ex magistrato Claudio Nunziata che ne trovò traccia in un libro dello scrittore inglese e lo riportò all'associazione vittime.

Il documento Bologna fa il paio con un altro, anche questo strategico per comprendere il ruolo e il potere di Gelli: si tratta del documento "artigli": si tratta di una nota scritta da un dirigente del Viminale, da inviare al ministro dell'interno (che nel 1987 quando fu redatta era Amintore Fanfani). In questa nota si riassume un incontro avvenuto al Viminale tra l'avvocato di Licio Gelli, in quel momento già sotto processo per la strage, e il capo della polizia Parisi (che era stato anche direttore del Sisde).

Cosa c'è scritto in quel documento, così segreto da non venire nemmeno archiviato (tanto che fu trovato anni dopo nell'archivio in via Appia del Viminale)?

Se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli, allora quei pochi che ha, li tirerà fuori tutti”.

Il messaggio, anzi, il ricatto che Gelli per tramite del suo avvocato, fa allo stato italiano, è questo: non fatemi domande scomode su Bologna, in particolare facendo riferimento al documento "Bologna" che gli era stato sequestrato, altrimenti tiro fuori gli artigli anche io.

Inizio a parlare - fa capire Gelli - dei miei rapporti con lo stato, coi servizi, magari tirando fuori altri elenchi compromettenti, come la lista completa degli appartenenti alla Loggia P2.

Gelli chiedeva solo di poter morire in pace nel suo letto, cosa che puntualmente avvenne nel 2015: per il depistaggio, per le sue responsabilità in questa strage (scoperte anni dopo, certo), Gelli non ha scontato un giorno di prigione in Italia. Il suo ricatto ha funzionato.

Ma adesso da questi due documenti sappiamo: sappiamo come è maturata questa strage e perché è stata fatta.

La corte di Assise d'Appello di Bologna ha riportato quasi completamente la memoria presentata dall'Avvocatura di Stato, che ha ricostruito il contesto di quegli anni: erano gli anni in cui l'esperimento del centro sinistra andava a morire, Gelli e la sua P2 era riuscito a tenere sotto controllo il caso Moro, mettendo davanti la ragione di stato e lo status quo alla vita del presidente DC.

Erano gli anni in cui i repubblicani si apprestavano a vincere le elezioni nel 1980, con Ronald Reagan e Bush sr alla Cia: da una parte Gelli comprende che per preparare il terreno a questa destra deve continuare la sua opera di destabilizzazione del paese, in modo da poter conquistare più potere nei confronti degli americani. E dunque i finanziamenti ai Nar, iniziati nel 1979, gli attentati, i delitti politici.

Dall'altra parte gli americani comprendono - continua la corte d'Assise nelle sue motivazioni - che Gelli va deposto, va messo fine al suo potere: inizia una campagna contro di lui, viene tirato fuori dai servizi (quelli che lui controllava) il dossier Cominform, dove Gelli è presentato come spia dell'est. Tutto falso, ma è uno strumento (in cui viene coinvolto il giornalista di OP Mino Pecorelli) utile a intorbidire le acque.

Scrivono i giudici nelle motivazioni:

«si può tuttavia già notare che la strage del 1980 non fu che la prosecuzione della strategia della tensione inaugurata nel 1969 in Italia e che non fu l'ultima tappa della violenza politica che continuò a funestare l'Italia».

Nell'ultimo filone del processo è stato condannato anche Paolo Bellini: è stato riconosciuto in un frame di un video girato da un turista tedesco nei momenti successivi alla strage: quel video, in VHS, fu inviato poi ai magistrati bolognesi, da questo furono estratte diverse foto. Solo nel 2019 un avvocato di parte civile si accorse che solo parte di quelle foto erano state analizzate dai giudici. Guarda caso mancava un pezzo dove all'improvviso compare un uomo, che somiglia molto a Paolo Bellini.

Strana figura, la sua: esponente di avanguardia nazionale, latitante dopo diversi omicidi per la ndrangheta, ritornato in Italia sotto falso nome.

Il padre era un fascista convinto che, dice Bellini figlio, lo voleva spingere per entrare nei servizi.

Entra però, come afferma la sentenza di primo grado, in questa strage, come entrerà anni più tardi nel periodo stragista della mafia (non come responsabile, ma per aver suggerito le opere d'arte come obiettivo di attentati), nel 1993 con le bombe a Firenze, Roma e Milano.

Ma questa è un'altra storia, o forse no.

La storia dei processi sulla strage di Bologna ci da una lezione importante: sebbene molti dei responsabili siano morti, non è mai troppo tardi per arrivare ad una verità, per dare giustizia alle vittime e per inchiodare alle loro responsabilità i mandanti di queste trame nere che, ogni giorno, diventano sempre meno oscure, sempre prendendo spunto dalle motivazioni della sentenza

anche coloro che si resero verosimilmente mandanti e/o finanziatori della strage, pur senza appartenere in modo diretto a gruppi neofascisti, condividevano i predetti obiettivi antidemocratici di fondo ed ambivano all’instaurazione di uno Stato autoritario, nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse”.

Il link per ordinare il libro.