Dopo due anni di pandemia l’Italia punta a rafforzare la sanità
territoriale con i 3 miliardi del PNRR, destinati alle case di
comunità: ma chi ci lavorerà dentro?
In Lombardia ne stanno
inaugurando tante, anche perché l’anno prossimo si vota.
Nell’anteprima dei documenti esclusivi sulle case di Ischia di cui report è entrata in possesso
Il fango su
Ischia - R-Ischia
Fango, devastazione, macerie lungo
le strade. E gente con in mano badili, secchi da svuotare: Ischia
sfregiata dalle frane, dall’abusivismo, da chi ha voluto i condoni.
In tanti hanno usato Ischia per battaglie politiche personali, contro
quel politico o partito.
L’abusivismo in questa vicenda non
c’entra – racconta il servizio di Report – perché la frana si
è staccata in un punto non toccato dal cemento, in una zona dove le
mappe escludevano rischi di frane e rischi idrogeoligici.
Ma le
mappe sono affidabili?
Una parte del monte Epomeo si è staccato
per le forti pioggie e si è abbattuta sulle case della zona alta di
Ischia: le mappe idrogeologiche dovevano essere aggiornate dalle
autorità di bacino, ma il quartiere di via Celario non era zona a
rischio, almeno prima del 26 novembre.
Gli immobili che sono
venuti giù erano regolari, sebbene condonati: se il piano avesse
messo quelle case in zona rossa sarebbero state messe in lista per
l’abbattimento.
I livelli di rischio idrogeologico indica
quali case sanare da abusi e quali no, dove non costruire e dove
costruire case: le autorità di bacino che devono aggiornare le mappe
sono enti legati al ministero dell’ambiente.
Il piano di Ischia è
stato aggiornato nel 2010, con poche modifiche sostanziali dal 2002
senza fare importanti analisi sul campo: in questi 20 anni qualche
geologo è salito sulla montagna in cima ad Ischia per verificare se
le mappe fossero da aggiornare? Pare di no, perché manca del
personale – racconta la direttrice dell’autorità di bacino.
Ci
sono 70 tecnici per 78mila km quadrati: ma negli ultimi anni le
tecniche della geologia sono cambiate, i piani dovrebbero essere
continuamente aggiornati, le mappe che abbiamo sono adeguate per il
2002 e non per il 2022, racconta a Report un geologo.
Il
problema è che questa mappe sono arrivare al commissario Legnini:
aveva previsto un piano per la ricostruzione, che indicava quali case
abbattere. Le case su cui si è abbattuta la frana non erano a
rischio.
Bisognerà approfondire – spiega l’ingegner
Loffredo, subcommissario: ma per far cambiare le cose, per aggiornare
le mappe serve sempre la tragedia.
Come per il piano pandemico
che l’Italia non aveva aggiornato da anni e poi si è visto cosa è
successo.
Avremo il coraggio di abbattere le case a rischio ad
Ischia, sapendo che stiamo salvando delle vite?
CAOS PRONTO SOCCORSO di Chiara De Luca
A Torino nei pronto
soccorso i malati chiedono aiuto perché abbandonati, chiedono aiuto
anche ai giornalisti di Report.
Malati ammassati nelle corsie,
perché mancano barelle e posti: gli ospedali sono pieni e cercano di
mandare pazienti altrove.
Alla
centrale operativa del 118 arrivano sempre più spesso questi fax: “a
causa dell’elevato afflusso di pazienti verso il DEA [..] e
all’assenza di posti letto e di barelle si invita ad inviare
eventuali urgenze in altri presidi.”
Gli ospedali sono pieni e cercano di inviare i pazienti
altrove.
“Gli ospedali segnalano le loro difficoltà”
racconta a Report Stefano de Agostinis infermiere della centrale
operativa di Torino “nel
ricevere pazienti e lo fanno attraverso i cosiddetti fax, ma sono
consultivi e non vincolanti. Quindi se abbiamo la necessità di
mandare pazienti in ospedale e siamo costretti a farlo continuiamo a
farlo. ”
Senza
spazio i pazienti rimangono nei corridoi, appiccicati, anche per 3 o
4 giorni: è la norma dice un infermiere, anche se la regola dice che
i pazienti dovrebbero stare al massimo 8 ore.
Sono spesso
pazienti già visitati dai medici e che però non possono essere
spostati dentro i reparti, sebbene abbiano bisogno di cure: la
regione Piemonte ha tagliato 2000 posti letto, dal 1997 al 2020 i
pronto soccorso sono passati da 61 a 26.
Altro che comfort
albergliero, di cui parla il commissario della ASL intervistato da
Report: i pazienti hanno diritto a delle cure dignitose, lavorano
male anche i medici stessi.
La regione Piemonte ha messo in pista l’azienda 0: aveva ricevuto 87 milioni nel 2021 per rinforzare la sanità territoriale, hanno reclutato dei medici “a tutto campo”, ma in realtà la regione non ha mai rendicontato in modo preciso su come sono stati spesi.
SANITÀ TERRITORIALE di Claudia Di Pasquale (finché c’è la salute)
Due miliardi del
PNRR serviranno per costruire 1350 case di comunità, strutture
aperte 24h dove il cittadino trova medici e infermieri per tutta
l’assistenza che consentirebbe di non affollare più i pronto
soccorso.
Altri soldi del pnrr serviranno ai 400 ospedali di
comunità, reparti con 20 posti letti per le persone che non possono
curarsi da soli a casa.
Report è andata a vedere cosa sta
succedendo nelle regioni più colpite dal covid, Lombardia e Veneto,
le regioni dove la sanità è finita sotto accusa per come non ha
gestito la prima ondata del virus.
In Val Seriana come è
cambiata la situazione ora? In alcuni comuni, come Castione, molti
pazienti non hanno il medico di base e devono andare nei paesi
limitrofi.
In alcuni casi i medici vengono prenotati dalle
farmacie, che si dovevano spostare per km. Ma in molti casi i
pazienti si sono rivolti al privato. Qualcuno ha smesso di curarsi
per l’insofferenza di fronte a questa situazione.
A Presolana
mancavano medici, così dopo tante proteste l’ASL ha mandato in
questo paese dei medici, a turno: ogni volta un medico diverso.
Ma
proprio nel bergamasco Fontana e Moratti hanno inaugurato a Gazzaniga
una delle tante case di comunità: dovrebbero essere aperte, sabato e
domenica, dovrei trovarci almeno un medico. Per evitare di andare in
un pronto soccorso. Ma a Gazzanisa, nella casa di comunità appena
inaugurata, di sabato chiude alle 14. Tornate il lunedì, dicono.
Ma
il lunedì non ci sono medici, solo infermieri.
A Calcinate
un’altra casa di comunità, ma anche questa è chiusa il fine
settimana: un giorno ci saranno dei medici di base, ma al momento
solo infermieri.
Nel 2018 l’ex assessore Gallera aveva
inaugurato un presidio, prima dell’inaugurazione di Moratti e
Gallera.
Questa inaugurazioni
sono solo propaganda.
Sempre a Calcinate nel 2021 è stato
inaugurato un hospice, una struttura gestita da una fondazione
privata, la FERB, che è stata l’unica onlus a partecipare alla
gara. Ma mancano medici, così sono costretti ad importarli
dall’India.
La FERB prende i DRG dalla regione in cambio del
servizio, attività ambulatoriali, posti letto in diverse strutture
in regione.
LE liste d’attesa sono lunghe, ma se si prenota da
privato i tempi di attesa sono veloci.
Si inaugurano le case di
comunità dove una volta c’erano presidi territoriali, cambia solo
la faccia ma non la sostanza.
A
Bergamo città lo scorso febbraio Letizia Moratti e Attilio Fontana
hanno inaugurato una casa della comunità a Borgo Palazzo, un luogo
dove avviene “la presa in carico della persona prima ancora che del
malato ..” racconta estasiato il presidente. E la Moratti,
assessora al Welfare aggiunge “c’è
un’equipe composta da medici, infermieri e assistenti sociali che
accolgono le persone..”
Ma
ci sono dei medici di famiglia all’interno di queste case di
comunità inaugurate in provincia di Bergamo? A
Borgo Palazzo non ci sono medici, ma solo la guardia medica, ma non
sempre da appuntamento.
La direttrice della ASST Papa Giovanni
parla di servizi di continuità assistenziale, che i medici
arriveranno, ma alla fine se ne va via spazientita dopo le domande
della giornalista.
L’importante è inaugurare, sono 32 le case
di comunità col taglio di nastro dove dentro però mancano i medici,
molte strutture che esistevano già, realizzate con soldi pubblici. E
nel frattempo si sono chiusi ospedali e pronto soccorso.
Oggi
i medici arrivano a dover gestire più di mille pazienti: in questi
anni si è alzato il plafond, non si è investito in medici di base e
non si possono obbligare i medici ad andare nei piccoli paesi nelle
case di comunità sparse nel territorio.
E così alla fine la
regione Lombardia ha deciso di colmare il gap col privato che è
stato equiparato col pubblico.
Non ci sono medici di base nelle case di comunità - ha risposto un medico della provincia Paola Pedrini, perché “manca ancora l’accordo collettivo coi medici di famiglia in cui viene normata la loro presenza all’interno delle case di comunità. Quindi le case di comunità inaugurate, dove sono stati tagliati i nastri, in realtà stanno andando avanti a fare quello che prima veniva fatto anche prima quando venivano chiamate in altro modo.”
A
Treviglio ci sono 8 medici, ci sono 10mila persone senza medico di
base. Così il pronto soccorso è sempre affollato, dove lavorano sei
medici: la carenza di personale è stata coperta con medici di altri
reparti.
La regione non colma il settore pubblico per non fare
concorrenza sleale col privato: è lo stesso CUP della regione che ti
indirizza al privato, come ha spiegato il signor Gavazzoni.
È
stato mandato all’Humanitas, con uno sconto al 50%, come al
supermercato.
Giuseppe
Remuzzi, dell’istituto Negri, ha criticato la scelta della regione
di equiparare pubblico e privato: stanno facendo uno studio sulle
case di comunità inaugurate in questi mesi, perché fatto troppo in
fretta, non servono le targhe da mettere in posti dove non
servono.
Giussano, Vimercate, Cesano Maderno: altre case di
comunità inaugurate dove esistevano già strutture, dove mancano
medici, dove trovi tutto chiuso il fine settimana.
Anche in
Brianza mancano medici di base: i medici vanno in pensione e non
vengono sostituiti, arrivano medici a rotazione e ogni volta si deve
ripartire da zero.
Ci sono 3 ml di pazienti senza medico di
base, ma per questo basta alzare il numero di pazienti per medici: si
è nascosto il problema per anni, eliminando la formazione e la messa
a ruolo di nuovi medici.
Così la guardia medica la fa il
privato, come ha deciso di fare Sant’Agostino: per 45 euro ti danno
quello che la costituzione dovrebbe garantire.
I
padroni del Sant’Agostino sono le persone dietro un fondo di
private equity del Liechtenstein.
A
Milano lo scorso 21 dicembre 2021 è stata inaugurata la prima casa
della comunità lombarda in via Rugabella, una struttura che, secondo
Fontana, è una novità assoluta, dove si incontreranno medici di
base, specialisti.
Di fronte alle telecamere l’assessora
elencava i numeri “sono
già presenti 5 medici di medicina generale, pediatri di libera
scelta, 40 medici specialisti, 10 infermieri, sarà aperta 7 giorni
su 7, 24 ore al giorno..”.
Ma
in realtà, ha scoperto la giornalista, il medico della continuità
assistenziale a mezzanotte chiude la struttura e se ne va via, altro
che casa della comunità aperta h24, come scritto sul sito della
regione.
I
medici di base lavorano solo poche ore, lavorano sui loro assistiti e
basta, su appuntamento.
Stessa storia a Villa Marelli, dove
prima c’era un presidio ambulatoriale: qui se devi prenotare una
visita ti rimandano dal tuo medico di base. A cosa serve allora la
casa di comunità?
Secondo
l’accordo firmato da regione e dalla federazione dei medici di
base, i medici dovrebbero lavorare nelle case di comunità come
lavoro aggiuntivo: i medici parlano di ore da dedicare, dalla
distanza delle case di comunità. Il loro non è un lavoro ad ore,
perché dovrebbero ragionare per ore – risponde un medico a
Report.
I medici di famiglia sembrano ostili a questo progetto,
come racconta anche l’ex ministro Livia Turco che anni fa aveva
proposto qualcosa di simile: l’impressione è che queste strutture
realizzate coi soldi pubblici siano pensate per essere usate dalla
sanità privata o dalle cooperative di medici.
Come
Medici Insubria: ogni anno prendono 1 ml dalla regione, di fatto sono
equiparati al pubblico, con qualche vicinanza politici al centro
destra, da Moratti a Formigoni.
Alla faccia della sanità
pubblica.
E
cosa ne dice l’ex assessora Moratti? Nessuna risposta, ai nostri
politici la parola accountability non piace, non esiste nel loro
vocabolario.
Ovviamente va peggio con Fontana: l’ufficio
stampa di Fontana ha stoppato ogni domanda. Perché rendere conto al
cittadino del loro lavoro, in effetti?
La giornalista è stata
anche accusata di fare teatro. Ma il teatro fino ad oggi è solo
quello dei politici al taglio dei nastri.
“Ma
che vergogna che siete …”
Hanno
chiuso ospedali, hanno chiuso presidi sanitari, non hanno pianificato
per tempo la sostituzione dei medici di base. Hanno messo delle
targhe nuove su strutture vecchie, senza medici, senza una presenza
di personale h24.
Ma non è un problema della regione, nemmeno i
decreti ministeriali chiariscono quanti medici debbano essere
presenti.
Tra sei anni 36mila medici di base andranno in
pensione: come si risolverà il problema, come si metteranno i medici
nelle case di comunità?
Entreranno i privati? Diventeremo tutti
cittadini con diritto di cura solo se assicurati, solo se abbiamo un
certo censo?
Nel 1997 in
Lombardia avevamo 147 strutture di ricovero, oggi sono 58. I pronto
soccorso calati di 64 unità.
Stesso discorso in Veneto, altra
regione colpita dal covid: a Trevenzuolo un medico non può andare in
pensione perché unico medico.
In Veneto ci sono 586 zone
carenti, senza medici di base, così la regione ha alzato la soglia
dei pazienti a 1800. Il pnrr ha pensato ai muri ma non ai medici da
metterci dentro le strutture – racconta Mara Cabriolu, medico di
base a Verona.
A Verona sono previste 45 case di comunità, ma
quelle finanziate dal pnrr sono solo 15, il resto sono solo buone
intenzioni. A questi si aggiungono 19 ospedali di comunità.
Ma
l’ospedale di Bussolengo, di comunità, è un ospedale vuoto che
verrà gestito da infermieri: è stato inaugurato a novembre nel
2020. Attivato ma non inaugurato precisa il direttore
dell’ULSS.
Altri ospedali di comunità sono incompleti, in
altri hanno tagliato dei posti letto, da ospedali pubblici a lungo
degenza sono stati trasformati in ospedali di comunità dove si deve
pagare dopo il 60esimo giorno.
I reparti di lunga degenza sono
stati cancellati, nel pubblico, mentre sono rimasti nel privato
accreditato: anche in Veneto la politica punta all’integrazione, di
fatto facendo un favore al privato.
Una questione di
riorganizzazione interna, spiega l’assessore alla sanità: ma è
una scelta politica quella di spostare reparti, tagliare posti,
lasciando intatto il privato.
Alla fine è il CUP che suggerisce
di andare dal privato: per una radiografia al polso, una signora si è
sentita dire che potevano prenotare in strutture private.
All’Isola
della Scala ci sono reparti bloccati, oltre al piano terra: era
previsto due anni fa che diventasse un ospedale di comunità, ma
manca perfino una ambulanza (almeno prima del servizio di Report).
A
Bovolone all’ospedale sono stati chiusi i reparti: non è rimasto
nemmeno il punto di primo intervento, è stato riaperto solo per le
elezioni amministrative del 2021.
Perché mancavano i medici –
dice il direttore dell’ULSS – ma guarda caso sotto le elezioni
del sindaco i medici c’erano.
I pronto soccorso sono
passati da 69 a 15: il Veneto è la regione che ha tagliato di più i
punti di primo intervento. Manca il personale dice l’assessore,
perché non si può nascondere quello che è sotto l’occhio di
tutti: la sanità che si vanta di essere la migliore del paese, in
Lombardia come in Veneto.
I 250ml del PNRR serviranno a
finanziare le mura degli ospedali e delle case di comunità, non per
i medici.
A Jesolo una volta c’era il pronto soccorso,
ostetricia: oggi coi soldi del PNRR si realizzeranno una casa e un
ospedale di comunità, ma non ci sarà più il pronto soccorso.
Costringendo la popolazione e i turisti ad andare a km di distanza.
Eppure le persone non sanno che qui c’è solo un primo intervento,
mentre nelle scritte sull’ospedale si parla ancora di pronto
soccorso.
Il punto di primo intervento è oggi gestito da
cooperative private: al pubblico costano di più, rispetto al
personale pubblico, non avendo né il cv né i requisiti.
Ci
sono medici privati che arrivano a lavorare in Veneto, nel pubblico,
come liberi professionisti: andando a lavorare nell’ospedale
pubblico facendo i turni come vogliono, perché hanno capito che gli
conviene. Sono i medici della cooperativa CMP, una
cooperativa che fornisce personale medico alle strutture pubbliche e
che è presente in ben 14 ospedali.
Tra
questi il San Luca di Trecenta a Rovigo, inaugurato nel 1997
dall’allora presidente Scalfaro. Il San Luca aveva una capacità di
250 posti letto che potenzialmente potevano salire a 350. Ma
immediatamente dopo sono iniziati i tagli – racconta a Report
Pietro Tosarello del comitato Salviamo l’ospedale di San Luca –
fino a ridurre un ospedale che aveva più di 250 posti, a ridurne a
130: “abbiamo perso il punto nascite, abbiamo perso ostetricia e
ginecologia; non abbiamo più nemmeno il pronto soccorso da quando è
iniziata l’epidemia di covid. C’è solo un punto di primo
soccorso il cui compito è sostanzialmente dirottare i pazienti
sull’ospedale di Rovigo.”
Al
punto di primo intervento lavorano due medici, uno interno fino alle
ore 16 e l’altro della cooperativa CMP che deve però occuparsi
anche del 118.
Quindi il turno h24 al San Luca è coperto dalla
cooperativa, dopo le 16: ma se il medico è fuori per una urgenza, e
le urgenze possono durare a lungo perché il territorio è vasto,
rimangono solo gli infermieri.
E pensare che l’ospedale di
Trecenta era nato per sostituire 4 ospedali dell’alto Polesine, tre
sono stati poi riconvertiti in presidi territoriali, mentre l’ex
ospedale Casa Rossi, nel centro storico di Trecenta, è ridotto
all’abbandono, con tanto di cartello con scritto “pericolo di
crollo”. Un altro ospedale è stato dismesso a Badia Polesine: ma
qui coi soldi del PNRR sarà realizzata una casa di comunità.
L’assessore alla sanità del Veneto Manuela Lanzarin, ha spiegato usando il burocratese che “Trecenta ha oggi una sua programmazione e risponde ad un bisogno individuato da parte dell’azienda in quella zona ..”.
Una
risposta che non spiega, in quella zona c’è un medico solo e poi
la cooperativa con un altro medico che fa anche il servizio di
soccorso: “è chiaro che per garantire i servizi, fatti i bandi,
fatti i concorsi andati deserti, non riuscendo a recuperare nessun
tipo di personale, l’ultima spiaggia è quella delle
cooperative”.
Che
se ne fa una regione come il Veneto di un ospedale vuoto come quello
di Monselice?
Al posto del posto pubblico è nato un ospedale
nuovo, realizzato da aziende della cordata del Mose, a cui il
pubblico paga un canone annuo.
L’ospedale di Trecenta è l’emblema della sanità in Veneto, svuotato dai reparti, dove uno dei due medici è un medici di una cooperativa, un gettonista che deve occuparsi anche delle emergenze.
Anche
le Dolomiti non si salvano, uno dei posti più belli del Veneto: gli
ospedali più vicini stanno ad un’ora di distanza, a
Belluno,
causando problemi alla comunità e ai tanti turisti che arrivano.
Ma
tanto c’è un elicottero, spiega l’assessore. Ma non era più
semplice tenere in piedi gli ospedali e i reparti nella zona delle
Dolomiti?
Oggi
a Pieve ci sono reparti affittati al privato, in convenzione, il
gruppo Villa Maria.
E
ora che ci saranno i mondiali di sci?
Tutto
questo è il frutto di una scelta politica, nata negli anni novanta e
continuata fino ad oggi, da Balduzzi a Lorenzin.
I
pronto soccorso, sono
passati da
782 a 410, dal 1997 al 2020.
I
pochi ospedali rimasti vanno in crisi perché devono gestire un
bacino di pazienti molto vasto, costretti a sequestrare barelle dai
reparti e dalle ambulanze.
Non si salva nessuno da questo
sfascio, nemmeno le regioni dell’eccellenza dove l’eccellenza
vale solo se si hanno soldi.
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