17 ottobre 2019

La bomba, di Enrico Deaglio




Un altro libro sulla strage di Piazza Fontana, la bomba fatta esplodere dal gruppo neofascista di Ordine Nuovo all'interno della banca Nazionale dell'Agricoltura, a Milano il 12 dicembre 1969.
L'inizio della strategia della tensione, la perdita dell'innocenza del paese, la scoperta del volto cupo, opaco dello Stato, il lato nascosto e sanguinario delle istituzioni.

Ma forse l'Italia e le sue istituzioni, innocenti non lo sono state mai: se si pensa ai compromessi col fascismo con cui è nata questa Repubblica, a come i fascisti sono stati lasciati ai loro posti nei gangli del potere (nelle Prefetture, nelle Questure, nelle procure). L'Italia non è mai stata innocente se si pensa alla strage di Portella della Ginestra, alla morte del bandito Giuliano, all'avvelenamento di Pisciotta ..

Cosa potrebbe aggiungere questo altro saggio su Piazza Fontana, a cinquant'anni di distanza? C'è prima di tutto un discorso sulla memoria persa, quella delle 17 vittime, della lunga trafila dei processi durati anni e senza nessun colpevole (almeno per la giustizia) e con le parti civili costrette pure a pagare le spese legali. C'è la memoria dei processi spostati da Milano a Catanzaro, perché il signor procuratore dell'epoca (De Peppo si chiamava) temeva tumulti per colpa dei facinorosi di sinistra (specie dopo l'omicidio del commissario Calabresi), e così le famiglie delle vittime furono costrette a farsi migliaia di chilometri per assistere alle udienze, nell'Italia di allora.
C'è la memoria dei depistaggi, fatti da uomini dello Stato che avrebbero dovuto preoccuparsi della nostra sicurezza; pezzi dello Stato che invece si preoccuparono di costruire la falsa pista anarchica, di costruire i mostri Valpreda e Pinelli, accusati della strage senza prove e sbattuti in faccia all'opinione pubblica come responsabili della strage; c'è poi la memoria della timidezza con cui la magistratura sposò questa versione di comodo (di comodo per i responsabili della strage, per le loro coperture all'interno del SID, il servizio militare, della polizia, nell'esercito).
Tutti assolti, chi per non aver commesso il fatto, chi per insufficienza di prove.

Nella presentazione di questo libro, l'autore racconta:
quando leggerete quanta protervia, quanta ‘organizzazione industriale’, quanta volgarità venne usata per costruire il falso su piazza Fontana, probabilmente penserete che gli attuali demagoghi non hanno inventato niente”.

Perché un altro libro su Piazza Fontana, vi chiederete allora, se tutto è già stato detto e scritto. Se non c'è più nulla da scoprire.

Perché Enrico Deaglio non entra dentro la storia dei processi, quanto meno non nel dettaglio; nel entra dentro il ginepraio delle prove, delle perizie, degli atti (come per esempio il poderoso libro di Cucchiarelli, che sposa una falsa tesi tra l'altro pure smentita dai magistrati, quella della doppia bomba).
In questo libro verrà raccontato il contesto della strage, sentiremo parlare i protagonisti, quelli morti e quelli ancora vivi, cominciando da Fortunato Zinni, impiegato dellabanca che si salvò dall'esplosione perché chiamato al piano di sopra: Zinni, sindacalista di sinistra in una banca considerata vicina al latifondo agrario di destra, parla esplicitamente delle responsabilità dello Stato
Nel suo magnifico libro di memorie, Piazza Fontana, nessuno è Stato, leggo nell'introduzione: “La vergognosa e irridente tela di Penelope ordita per fare e disfare sentenze, in un allucinante e e incredibile parodia della giustizia, ha di volta in volta messo a nudo: la certezza di impunità dei burattinai del massacro, il cinismo di una classe politica imbelle e complice, la disponibilità di una parte della magistratura ad assecondare il potere, il servilismo di una stampa pronta a credere alle verità ufficiali”. Dove mi colpisce quell'aggettivo – irridente – e quella certezza di impunità dei burattinai del massacro.

Deaglio ci parla di Zinni, delle indagini frettolose e superficiali, dei depistaggi compiuti nelle prime 72 ore, compiuti dalla squadra speciale degli uomini dell'Ufficio Affari Riservati, una specie di polizia segreta nata negli anni 30 per spiare i nemici del regime, costruire fascicoli per ricattare e, all'occorrenza, andare a neutralizzare politici e personalità che potevano creare danno al fascismo.
Furono gli uomini di questa polizia segreta, per anni gestita dall'uomo della CIA Federico Umberto D'Amato, a costruire la falsa pista degli anarchici, ritenuti responsabili di quella bomba e anche delle bombe fatte esplodere in primavera alla Fiera e in estate sui treni.
Furono loro, che di fatto esautorarono la procura e gli uomini della Questura milanese, guidata allora da uno che fascista lo era stato per davvero, Marcello Guida, ex direttore del carcere politico di Ventotene fino al luglioc del 1943
.. dall'isola, ormai deserta, se ne andò anche Marcello Guida che, in quei mesi molto ambigui, "prestò servizio" a Roma. Facile pensare che le sue conoscenze, le sue schedature, i segreti di quei mille confinati se li sia portati con sé, come patrimonio personale. E infatti, invece di essere condannato ed epurato, Guida si salvò dal carcere con l'amnistia Togliatti, anche perché due dirigenti della Resistenza testimoniarono in suo favore. E poi continuò la sua carriera, come se nulla fosse successo. Così si ritrovò a Torino, questore nella città che iniziò il Sessantotto studentesco e le lotte operaie.Fu molto attivo nella repressione, nei pestaggi degli studenti, negli interventi polizieschi ai picchetti. Guida - lo si sarebbe scoperto solo nel 1970 (è il famoso caso del processo per le schedature Fiat rivelato dall'inchiesta del pretore Raffaele Guariniello) - riceveva un assegno di un milione di euro l'anno "per aiuti negli scioperi" per l'azienda automobilistica: schedare, sorvegliare, far licenziare gli operai alla testa degli scioperi. Diventò anche un eroe padronale, il questore. Ferito da una sassata durante una manifestazione davanti agli stabilimenti di Mirafiori, ebbe come premio il trasferimento nella città medaglia d'oro della Resistenza, dove si insediò nell'autunno del 1969, pochi mesi prima della bomba.

Un quadretto niente male, quello che fa Deaglio, di Guida e di Allegra, il capo dell'ufficio politico dentro cui lavorava il commissario Calabresi.
Sono loro che arrestano gli anarchici, ritenendoli membri di una cellula terrorista che a capo ha niente di meno che Feltrinelli.
Sono loro che distruggono le prove (la bomba inesplosa alla banca Commerciale), se ne inventano di false (la pista del vetrino e quella della seconda miccia, usate per incastrare Valpreda).
Sono loro che fanno finta di non considerare le prove che porterebbero a destra (la commessa del negozio padovano che aveva riconosciuto un uomo che aveva comprato una borsa simile a quella inesplosa).
Sono loro che fin da subito, parlano di pista anarchica, imboccando anche i giornalisti che pappagallescamente, ripetono il falso copione.
Sono loro gli uomini responsabili del fermo illegale di Giuseppe Pinelli, il ferroviere che è volato già dalla finestra dell'ufficio di Calabresi.

Dopo tanti anni, ancora non sappiamo come è morta una persona, entrata viva in Questura e uscita morta: non si è suicidato, non si è buttato perché era stato scoperto, come la bugia ripetuta dagli uomini dello Stato in quella stanza di 3 metri per 4.
Un malore attivo come ha detto la sentenza del giudice Ambrosio al termine di un secodo processo (dopo che la prima inchiesta era stata subito archiviata)?
Non lo sappiamo. Sappiamo solo del fango gettato addosso ad una persona innocente.
Lo stesso che è successo a Valpreda, la bestia umana, il ballerino anarchico con la passione per le bombe, con cui sfogare la sua rabbia per quella malattia alle gambe:
Noi oggi parliamo tutti i giorni di fake news, del potere manipolatorio dei social media, di "macchine del fango": il "trattamento Valpreda" di mezzo secolo fa resta un modello inarrivabile.Per dare un'idea dei toni, ecco un famoso "ritratto del mostro" pubblicato dal Corriere d'Informazione, edizione pomeridiana dell'organo ufficiale della borghesia italiana, il Corriere della Sera, all'epoca diretto dal leader del partito repubblicano, professore Giovanni Spadolini. 
Titolo: La furia della bestia umanaSvolgimento: 
"la bestia umana che ha fatto i 14 morti di piazza Fontana e, forse, anche il morto, il suicida, di via Fatebenefratelli, è stata presa, è inchiodata … non la dimenticheremo mai, la bestia che ci ha fatto piangere … ora si comincia a respirare … Il massacratore si chiama Pietro Valpreda, ha 37 anni, mai combinato niente in vita sua, rottura con la famiglia; soltanto una vecchia zia, che stira camicie e spazzola cappotti, gli dà una mano; viene dal giro forsennato del be-pop, del rock; un giro dove gli uomini sono quello che sono e le ragazze pure. S’è dimenato sulle piste delle balere fuori porta e sotto le strade del centro, faceva il boy, uno di quei tipi con le sopracciglia limate e ritoccate a matita grassa che fanno ala, in pantaloni attillatissimi, alla soubrette… un mestiere corto, infelice, di pochi soldi… Di più questo refoulé si ammala. Il sangue non gli circola più normale nelle arterie delle gambe… un passo dietro l’altro, Pietro Valpreda si avvia a diventare la bestia … Chissà come si incolla, come coagula questa sciagurata umanità: parlano, parlano, fanno finta di leggere o d’aver letto, si ritrovano oziosi nei caffè, giocano a scopa, si ubriacano, ogni due o tre settimane presentano ai compagni una "moglie" nuova, scendono in piazza obbedendo a un misterioso ordine di rendez-vous, qualche volta, anzi spesso, hanno guai con la polizia … Così nasce un Pietro Valpreda. Da questo entroterra arriva il massacro".

E lo stesso fango arrivò addosso al teste chiave, il professor Lorenzon che raccontò ai giudici le confidenze raccolte da un suo amico, quel Giovanni Ventura, amico di Franco Freda (entrambi ritenuti responsabili della bomba ma non più condannabili per il principio del no bis in idem). Ventura, davanti a Lorenzon, si vantava della bomba nella banca e anche delle altre bombe, di cui gli anarchici erano stati ritenuti responsabili.
Erano così sicuri della loro impunità, i fascisti di Ordine Nuovo, che nemmeno si preoccupavano di nascondersi.
Chi si doveva nascondere fu Lorenzon, professore e segretario della DC del suo paese nella provincia trevigiana: perché a protezione di Ventura si mosse perfino la DC Veneta (la madre di Ventura era una figura di spicco), la stampa locale.

Che Italia era quella degli anni sessanta settanta?
Era l'Italia della strategia della tensione, che voleva dire tenere fermo l'asse politico del paese al centro, anche usando formazioni fasciste come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, in contatto con uomini delle forze dell'ordine, dell'esercito, dei servizi (come Guido Giannettini, l'agente Z), in un rapporto quasi alla pari.
Significava fermare ad ogni costo l'avanzata delle sinistre, impedire la crescita del Partito Comunista con ogni mezzo, anche illegale (l'infiltrazione dentro le formazioni di sinistra, le operazioni sporche come le bombe fasciste addossate agli anarchici), destabilizzare il paese, far crescere la paura di un golpe militare, per creare paura e stabilizzare il paese. Al centro.
Tutto questo è successo veramente.
Non è vero che della bomba, dei depistaggi, dei responsabili della strage non sappiamo niente.
“Io so, ma non ho le prove” - così scriveva Pasolini nel suo celebre articolo uscito nel 1974 sul Corriere.
Dal 1969 noi sappiamo molte cose, nonostante tutto, nonostante quei pezzi marci dentro lo Stato: prima di tutto c'è stata quella folla, silente e stretta attorno alle bare delle vittime, quella mattina del 17 dicembre, il giorno dei funerali.
Quella folla, dell'Italia onesta e innocente hanno forse salvato l'Italia dalle leggi d'emergenza, dai colonnelli.
Ci sono stati quei giornalisti, quegli amici di Licia Pinelli che alla pista anarchica, al suicidio di Pinelli, “morto innocente”, l'uomo che vola dalla finestra nel famoso quadro di Baj, non ci volevano credere proprio.
Da giornalisti veri come Camilla Cederna e Corrado Stajano è nato il libro, La strage di Stato. Quello Stato che aveva il volto addolorato di Rumor, di Moro (che nella prigione del popolo raccontò alle BR della strategia del SID, dei suoi sospetti contro Andreotti, del suo timore di finire arrestato ..).
E poi, a metà anni 90, dopo la fine della prima Repubblica, dopo le bombe della mafia, dopo la sentenza di assoluzione per la strage in Cassazione, finalmente si scoprì qualcosa di nuovo: in un magazzino del Viminale abbandonato fu scoperto parte dell'archivio dell'Ufficio Affari Riservati, da cui partì un nuovo filone di indagine da parte dei magistrati Pradella e Meroni, che, per avere quei documenti dovette rivolgersi all'allora ministro dell'Interno Napolitano.
Pradella e Meroni cominciarono i loro interrogatori al Palazzo di Giustizia di Milano trovando la conferma del ruolo attivo che gli Affari Riservati ebbero prima e dopo la strage di Milano. Per il "dopo" i diversi componenti del gruppo (Alduzzi, Carlucci, Mango, Catenacci tutti stagionati agenti segreti felicemente in pensione) confermarono di essere arrivati a Milano poche ore dopo la strage e di aver esautorato fisicamente se poliziotti sia i magistrati locali; per il prima le loro deposizioni - e le carte trovate in via Appia - pur tra reticenze e scaricabarile confermarono che sia Pinelli sia valpreda erano stati prescelti da tempo come due Capri espiatori per le bombe del 12 aprile; che gli Affari Riservati avevano una spia tra gli anarchici di Milano, "Anna Bolena" (nome in codice che stava per anarchico di Bollate, tale Enrico Rovelli titolare di una discoteca gestito in comproprietà da Russomanno e dal commissario Calabresi), che però non gli aveva detto niente di fondamentale anche perché c'era poco da dire; che Valpreda venne indicato come il depositante la bomba ben prima del riconoscimento del tassista e poi ci furono due colpi di scena ...

Ecco, verrebbe anche da indignarsi per quello che si legge, in dichiarazioni ufficiali di uomini dello stato, eppure anche questo è successo: già a metà anni novanta sapevamo tutto, senza bisogno di arrovellarsi sulle persone presenti nell'ufficio di Calabresi, sulla dinamiche della morte di Pinelli, sul depistaggio:
Antonio Pagnozzi, all'epoca funzionario di polizia addetto all'ordine pubblico .. confermò che gli uomini di Russomanno governavano tutto, che da Roma venne subito ordinato di arrestare almeno 150 persone ("e siccome non riuscivamo a fare il numero, andammo alla Stazione Centrale e facciamo una retata") e poi con naturalezza, disse: "Allegra (il capo dell'ufficio politico) e Russomanno erano sempre insieme soprattutto nel periodo immediatamente successivo ai fatti di Piazza Fontana e ricordo perfettamente che Russomanno, non avendo una propria stanza, utilizzava la scrivania locata nell'ufficio di Allegra".[..]Il secondo colpo di scena non regalò sempre proprio Silvano Russomanno, l'ex manovratore della contraerea nazista ed ex numero due dei servizi segreti. Dai verbali dell'interrogatorio appare possibile che l'uomo - 73 anni, in pensione che si dichiara alla dottoressa Pradella "psicologicamente a disagio per il suo passato" - abbia avuto ad un certo punto un calo di difesa di fronte alle contestazioni; il suo interrogatorio durò 3 giorni. Il risultato: una frase tra virgolette "Io c'ero la notte che è morto Pinelli". Il verbale non aggiunge altro. Non so immaginare che cosa sia successo dopo in quella stanza, so però quello che non ci fu. Non ci fu un titolo di questo genere sui giornali del giorno dopo "Scoperta la verità sulla strage di piazza Fontana. Furono gli affari riservati organizzarla i responsabili hanno confessato".Peccato. Forse i tempi non erano maturi

In Italia, il 12 dicembre 1969, è avvenuto un golpe compiuto da pezzi di magistratura, polizia e servizi segreti, che ha fatto a pezzi la Costituzioni, i diritti sanciti, il codice penale (pure quello dell'epoca).
Un piccolo colpo di stato all'interno della guerra fredda, che poi verrà riproposto ai tempi del sequestro Moro e, come cerniera tra prima e seconda repubblica, ai tempi delle bombe della mafia negli anni 1992 e 1993.
E' un brutto quadro, quello che ci dipinge Enrico Deaglio sul nostro paese: un paese dove ci si inchina tutti quanti al potere (informazione, magistratura, polizia e carabinieri), non quello giusto, non il potere dello Stato, ma solo alla legge del più forte.
Una legge del più forte che si riscrive la realtà, portando gli italiani non più nel paese reale, ma in un mondo parallelo:
Se si paragonano questi argomenti - i depistaggi, la conduzione in concreto di grande indagini, la possibilità di manipolazione di perizie, dati, testimonianze, l'anormale corruzione quotidiana degli uffici - e lì si mette a confronto con i grandi misteri della nostra storia repubblicana, l'effetto e vertiginoso: ovunque ci sono universi paralleli, specchi che si guardano, verità opposte. Da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, da Brescia a Bologna a Palermo, dal sangue sui muri della caserma di Bolzaneto, alle stanze vuote imbiancate di casa Riina; le verità si formano e si disfano senza più autorità, davvero figlie del tempo.

PS: chissà se per questo anniversario il quadro di Enrico Baj “I funerali di Pinelli”


La scheda del libro sul sito di Feltrinelli
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