Perché in Italia è ancora difficile considerare l'antifascismo come base di questa democrazia?
Perché in Italia non è considerato tabù (anzi) essere fascisti?
Perché è ancora importante porsi queste domande sul fascismo, oggi, a più di settant'anni dalla fine del regime fascista e dalla promulgazione della Costituzione?
Francesco Filippi di lavoro fa lo storico, formatore presso l'associazione di Promozione Sociale Deina, già autore del saggio “Mussolini ha fatto anche cose buone”, prova a rispondere alle prime domande: la risposta all'ultima cerco di darla io ora.
Il fascismo è l'antitesi della democrazia, dei suoi principi, delle libertà garantite dalla nostra Costituzione: non è un'opinione come le altre. E' la negazione di tutto ciò che è stato conquistato durante la guerra di liberazione, di quanto scritto dai nostri padri costituenti nella carta costituzionale: libertà di espressione, di associazione, di riunirsi in sindacati. Una stampa libera non sotto il controllo dell'esecutivo, una magistratura libera e indipendente (che non risponde ai desiderata del potente di turno).
Se ancora oggi siamo ancora a chiederci come sia possibile che in Italia il fascismo sia ancora apprezzato da una parte o comunque non temuto da una buona maggioranza di cittadini (gli indifferenti di Gramsci), significa che la nostra democrazia non gode di buona salute. Teniamolo a mente.
Ma come siamo arrivati a questo? L'autore parte dal confronto tra quanto è successo in Germania e in Italia con due film, che seguivano un copione simile. Il film tedesco è “Lui è tornato” di David Wnendt, basato sul libro “Er ist wieder da” di Timur Vermes: Hitler torna in Germania dopo più di sessant'anni e capisce che tutto è cambiato ma lo stesso comincia a fare proselitismo coi suoi discorsi.
Scritto in chiave umoristica, il libro e anche la sceneggiatura, entrambi hanno suscitato un ampio dibattuto in Germania: si può ridere di Hitler? Cosa succederebbe nel nostro paese se arrivasse un politico che si mette a parlare come Hitler?
In Italia il film di Luca Miniero, “Sono tornato” non ha suscitato lo stesso dibattito e nemmeno ha sfondato al botteghino. Partiamo da qui, da questa differenza tra i due paesi da cui sono nati i due totalitarismi che hanno caratterizzato (oltre alla dittatura sovietica) il novecento.
Ci sono differenze storiche, spiega Filippi, tra come la Germania e l'Italia hanno vissuto gli ultimi anni dei rispettivi regimi. Ci sono state differenti visioni storiche, su cosa sia stato il nazismo e cosa invece sia stato il fascismo in Italia: mentre in Germania nessun politico si sognerebbe di riusare espressioni della propaganda nazista, di gesticolare in pubblico come Hitler, in Italia tanti politici ormai pescano a piene mani in quel frasario, Dio patria e famiglia, la difesa dei confini (e degli italiani, della razza italiana).
Fascismo 1922-1943: una dittatura orfana
Pare proprio che la prima domanda da porsi sia: se nazismo e fascismo hanno convissuto fraternamente per una parte consistente della loro storia, se Hitler stesso dichiara in più occasioni che Mussolini e la sua attività sono stati una preziosa fonte di ispirazione per il nazionalsocialismo, se le due dittature condividono fin da subito ideali, avventure internazionali e i disastri di una guerra mondiale, per quale motivo in molti, specie in Italia, hanno oggi una diversa percezione delle vicende dei due regimi e del giudizio storico del loro operato?
Una prima differenza riguarda come è finito il nazismo e come invece il fascismo: il primo con le macerie di Berlino e un paese distrutto, un paese occupato dalle potenze vincitrici dove, a fine guerra che misero in atto un'opera di denazificazione, con metodi da polizia militare (mettiamo da parte il fatto che parte delle ex SS furono poi riciclate nei servizi di sicurezza in funzione anticomunista per la guerra fredda).
In Italia invece il regime crolla col 25 luglio, con la fine del governo Mussolini e poi con la vergogna (di Badoglio, dei Savoia) dell'8 settembre.
Dal 1943 al 1945 in Italia avviene una guerra che si combatte sia tra eserciti, sia sul fronte interno con la formazione dei primi gruppi partigiani.
Il regime che fino a pochi giorni prima si radunava nelle folle oceaniche, dopo il 25 luglio festeggia la caduta di Mussolini (quello che aveva sempre ragione): l'autore spiega bene come tutto questa abbia inciso nella memoria collettiva, in cui è partita subito un'opera di rimozione.
La guerra? Era una guerra fascista di Mussolini. Il fascismo? Solo una parentesi nella storia liberale e democratica del nostro paese, è questa la tesi di uno storico e filosofo importante come Benedetto Croce. Peccato che l'Italia prima di Mussolini non era una democrazia liberale (non esisteva il suffragio universale): questa tesi di fatto cancella un intero ventennio della nostra storia, cancellando le responsabilità di quanti hanno portato Mussolini e il fascismo al potere, da casa Savoia alla piccola borghesia (quella dell'ordine regna sovrano) fino a quella industriale (degli Agnelli, dei Pirelli), che dal regime ebbe molti favori.
Gramsci e Gobetti, due pensatori che purtroppo non videro la fine del regime, hanno visto nell'avvento del fascismo anche “l'arretratezza in Italia di un dibattito sociale”, una rivoluzione conservatrice che schiacciò le classi deboli: altro che malattia dentro un corpo sano, il corpo del paese era già malato anche da prima della grande guerra.
A tutto questo va aggiunto quello che in Italia non è stato fatto: nessuna epurazione seria dentro la pubblica amministrazione, per non bloccare i ministeri, gli uffici, la macchina dello Stato. Nessuna seria epurazione dentro la scuola e dentro l'università (di tutto il corpo docente, solo 11 professori universitari non giurarono al fascismo).
Sindaci, prefetti, Questori, dirigenti dentro le forze dell'ordine: anche molti di loro si salvarono dal repulisti che pure si sarebbe dovuto fare. Molti prefetti fascisti furono sostituiti da “prefetti della liberazione” nominati dal CLN: ma a fine guerra a loro volta furono sostituiti da personale prefettizio (dunque che si era formato e aveva lavorato sotto il regime) col paradosso che essere antifascisti era una pregiudiziale per guidare una prefettura, essere stati fascisti no.
Ma cosa significa essere stati fascisti in Italia? La domanda non è di facile risposta: il regime fascista aveva occupato tutti gli spazi pubblici, controllava con la politica del corporativismo le aziende private. I magistrati dovevano avere la tessera del partito, i docenti dovevano giurare per il partito, i giornalisti dovevano scrivere solo quello che volevano le “veline”.
Chi avrebbe potuto fare pulizia, da dentro lo Stato, senza bloccare il paese? Chi avrebbe dovuto raccontare le malefatte del regime, gli insegnanti che si erano formati nel ventennio?
Non c'è stato solo un problema di continuità: alla fine della guerra ne scoppiò subito un nuova, la guerra fredda. L'alleato di ieri diventava il nemico di oggi, il pericolo in Italia era il comunismo, l'influenza sovietica nel nostro paese, che doveva rimanere saldamente sotto controllo occidentale.
La pregiudiziale era ora chi era iscritto al PCI, il problema era ora Trieste che poteva finire nelle mani dei “titini”, i martiri delle foibe, gli esuli italiani.
Una narrazione che, di fatto, cancellava gli anni di occupazione italiana in Slovenia, i crimini di guerra compiuti nei Balcani da parte dei nostri militari (“Si uccide troppo poco” di Gianni Oliva), i nostri campi di concentramento.
Anche la classe politica che avrebbe dovuto fare le leggi, controllare questa epurazione, era fortemente condizionata dal ventennio fascista: parte dei dirigenti della DC venivano da quel periodo, Fanfani stesso, uno dei “cavalli di razza” fu un cattedratico importante nel fascismo (uno di quelli che giurarono fedeltà al regime) e anche uno dei firmatati del manifesto della razza del 1938.
Dentro la DC si trovava sia un elettorato cattolico, sia persone che avevano preso parte o quanto meno tifato per la liberazione, che persone che erano state accondiscendenti col regime, che lo avevano accettato con indifferenza. A tutto questo contribuì pure la prima amnistia di Togliatti, nel 1946, uno degli ultimi atti del PCI prima di essere cacciato dal governo, e le successive amnistie.
I governi DC emanarono una legge, la legge Scelba che puniva chiunque cercasse di ricreare il partito fascista, che puniva l'apologia di fascismo. Una legge buona sulla carta ma di difficile applicazione, anche da parte dei tribunali.
Col risultato che, dal 1946, nonostante la legge Scelba e la norma transitoria in Costituzione, in Italia abbiamo un partito composto da ex fascisti, che si richiama a simboli fascisti. Il Movimento Sociale fondato da due repubblichini come Romualdi e Almirante.
Cosa è mancato in Italia? Nella terza parte del libro l'autore si dedica a quella cultura comune che è mancata per comprendere il fascismo.
Qui si torna alla narrazione fatta da Croce (che pure fu uno dei sostenitori del primo fascismo, fino al delitto Matteotti), al “paradigma antifascista” che in pratica autoassolve la coscienza degli italiani.
“Italiani brava gente”, come il titolo di un film del 1965 sulla ritirata in Russia: la dittatura e il ventennio di regime sono stati una parentesi brutta, gli italiani si sono liberati dal regime.
Tutto cancellato anche l'appoggio della borghesia, della classe industriale, del Vaticano.
Tutto cancellato: il ventennio, i confinati, le persone arrestate e condannate dai tribunali speciali, le persone uccise e picchiate (Matteotti, Gobetti), l'insensata guerra in Africa, l'uso delle armi chimiche, i massacri in Etiopia e quelli in Grecia e nella ex Jugoslavia, le leggi razziali.
Fateci caso: esiste una grande storiografia dell'Italia tra il 1943 e il 1945, mentre c'è molta poca conoscenza nel paese di quanto accaduto tra il 1919 e il 1943.
Gli italiani erano altri: altri quelli che gridavano viva il Duce, che accettavano soprusi, le ruberie del partito, le manganellate, l'olio di ricino.
I pochi italiani che hanno letto qualche libro, forse hanno letto le pagine di De Felice (e la sua rivoluzione di Mussolini) e non di Angelo Del Boca.
Nelle scuole a malapena si studia la prima guerra mondiale. La RAI è sempre stata controllata dai partiti, sin dai tempi della DC con le sue censure.
E il cinema?
Anche nel mondo del cinema è passata la visione dell'italiano che ha subito passivamente il regime e che, con orgoglio e coraggio si è liberato dal nazifascismo.
Nei film del neorealismo italiani i nazisti sono i cattivi, i fascisti sono traditori: è l'idea che esce da pur ottimi film come Roma città aperta (Rossellini) o Il generale Della Rovere.
A tutto questo dobbiamo aggiungere che, con la fine della prima repubblica, l'argine antifascista è crollato, l'ex MSI cambiando nome (ma non le facce) è entrato nel governo ed è iniziato un discorso pericoloso di equiparazione tra chi ha combattuto da una parte e dall'altra.
Vietato parlare di resistenza e di guerra di liberazione perché divisiva, meglio dare un tributo anche a quei ragazzi che nel 1943 scelsero, consapevolmente o meno, di stare dalla parte sbagliata della storia.
Dalla pregiudiziale antifascisti si è arrivati, grazie anche a libri come quelli di Pansa (“Il sangue dei vinti”) o “Il libro nero sul comunismo”, alla pregiudiziale comunista:
Con operazioni simili il giudizio sui fatti storici viene fatto passare solo attraverso il computo delle vittime, aspetto primario ma non unico nella complessità dell'indagine storiografica, e si insinua l'idea che il "male assoluto" rappresentato dal nazismo sia paragonabile e in qualche modo riducibile di fronte alla brutalità Sovietica.
Nel confronto tra le due forme estreme di totalitarismo, il fascismo italiano quasi scompare: anche perché oggettivamente il numero di vittime prodotte dal fascismo è minore rispetto a quello del nazismo e stalinismo, se non altro perché la popolazione italiana negli anni trenta è meno della metà di quella del terzo Reich e meno di un quarto di quella dell'URSS.
In più andando escludere dalla memoria e dalla responsabilità pubblica, come è stato fatto per oltre 50 anni, le violenze e crimini italiani commessi fuori dai confini -colonie campagne militari-, si ha una situazione imparagonabilmente favorevole per il fascismo italiano così dipinto.
Perché siamo ancora fascisti o, meglio, perché non siamo tutti antifascisti? La conclusione dell'autore è un'accusa contro noi italiani, quella parte che non ha fatto o voluto fare i conti con la coscienza, per cattiva fede o indifferenza:
La risposta alla provocatoria domanda "ma perché siamo ancora fascisti?" passa proprio attraverso lo sviluppo di un racconto pubblico che è stato prima autoassolutorio e poi relativizzante: italiani mai convintamente fascisti prima; italiani che hanno combattuto per degli ideali, siano essi fascisti o antifascisti, poi.
Il tutto proiettato in un passato che allontanandosi sempre più, appiattisce e uniforma ogni cosa.
Perché quindi oggi siamo ancora fascisti o, meglio perché, non siamo convintamente antifascisti?
Perché in questi anni, nel tentativo di mantenere pulita la memoria del paese, non abbiamo affrontato con determinazioni crimini che il fascismo ha commesso anzi anche grazie alla connivenza degli italiani e quindi, per molti, dato che non si conoscono i delitti del fascismo, pare quasi che il fascismo dei delitti non ne abbia commessi.
Perché in questi anni non siamo riusciti ad affrontare con decisione e chiarezza i demoni di un passato che abbiamo troppo velocemente coperto ma non cancellato, togliendoci la possibilità di accumulare le conoscenze e le attenzioni necessarie a impedire che i fenomeni di erosione Democratica che aprono l'asta dei regimi autoritari vengano subito riconosciuti neutralizzati.
Perché infine una parte minima della società italiana non ha mai voluto essere altro, perché un'altra parte non ha mai imparato a essere altro e infine perché una parte della nostra società, probabilmente la più consistente, non si è mai nemmeno posta seriamente la domanda rimanendo indifferente.
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