Il processo Stato-Mafia nel racconto di
un suo protagonista
Venticinque anni di solitudine e coraggio
Dottor Di Matteo, venticinque anni di inchieste e di solitudine, di ricerca accanica della verità, di successi e di momenti di amarezza, ma anche di isolamento e di vita blindata. Un quarto di secolo, con la toga addosso, nell'Italia di oggi. Dall'età di trent'anni, a oggi che ne ha cinquantasette.Così è volata via metà della sua esistenza. Ma quando ha inizio l'incubo di una vita blindata giorno e notte?
Il primo servizio di scorta lo ebbi nel dicembre 1993, alla procura di Caltanissetta. Ero alle prime armi. Mi avevano assegnato un processo che riguardava la guerra in corso in quegli anni fra cosa Nostra e la Stidda, nel territorio di Gela.
Comincia con questo ricordo il libro-intervista del giudice Nino Di Matteo scritto assieme al giornalista Saverio Lodato, autore di diversi saggi sulla mafia (all'inizio era “Dieci anni di mafia”, poi diventato “Venticinque anni di mafia”, fino all'ultimo "Quarant'anni di mafia" .. vedremo mai la fine?).
Il ricordo dei primi passi nella
magistratura come uditore nel 1991, l'arrivo a Caltanissetta, la
prima scorta, all'inizio vissuta come un cambiamento positivo, per
poter lavorare in modo più sicuro.
Scorta che alla fine è diventata come
una prigione, che impatta la tua vita e quella della tua famiglia: il
livello di protezione si è alzato al massimo livello (“primo
livello di protezione eccezionale”) dopo le ultime minacce
ricevute. Mai nessun magistrato aveva subito minacce, pressioni,
intimidazioni come Di Matteo (bisogna tornare indietro ai tempi di
Falcone, Borsellino e al pool di Caponnetto).
Dossier, lettere anonime. E poi dover
rispondere del proprio operato di fronte al CSM (per la storia delle
telefonate di Mancino).
E apprendere che è già arrivato
l'esplosivo per farti saltare in aria, ascoltare dalla voce di un
mafioso pentito che sta per arrivare la tua ora: è quello che disse
a Di Matteo Vito Galatolo, lei si è spinto troppo oltre nel suo
lavoro.
“Lei deve stare attento, perché
noi siamo molto avanti”.
Come spiegare questo livello di
minacce? La risposta sta proprio nelle parole del capomafia: il
giudice Di Matteo, assieme a pochi altri magistrati, si era voluto
spingere troppo oltre per portare avanti il processo sulla Trattativa
Stato mafia.
Dove “oltre” ha il significato di
andare oltre le verità di comodo che la politica (e anche parte del
mondo del giornalismo) hanno costruito.
Tramite questo processo si voleva
capire i perché delle stragi, degli incontri tra uomini in
divisa e mafiosi, del perché la magistratura fosse stata tenuta
all'oscuro.
Si voleva applicare il principio della
legge uguale per tutti, anche per i carabinieri del Ros, per i
politici, per i rispettabili signori che hanno portato avanti, negli
anni tra il 1992-1994 la trattativa e commesso (direttamente o in
concorso) il reato di violenza a corpo dello Stato.
Per questo, Di
Matteo è un magistrato tra i meno amati dalla politica, da parte di
quel giornalismo garantista (Il Foglio, Il giornale, la fu Unità,
Repubblica ..) nei confronti dei potenti quando vengono chiamati
davanti ad un giudice.
Questo libro
serve a colmare uno squilibrio che si è venuto a creare in
questi anni attorno al processo di Palermo e attorno ai magistrati
che l'hanno portato avanti: leggere i vari capitoli, con le domande
del giornalista e le risposte del giudice, è come ripercorre la
storia della mafia in Italia, anzi la storia del rapporto mafia
politica, del rapporto di cosa nostra con parte delle istituzioni.
Dallo sbarco in
Sicilia degli alleati, a Portella della Ginestra, i cadaveri
eccellenti che hanno insanguinato le strade di Palermo (La Torre,
Mattarella, Dalla Chiesa, Costa, Terranova, Chinnici), fino alle
stragi della stagione eversiva di Riina e dei corleonesi.
Perché Riina
scelse di fare l'attentato proprio a Capaci quando era più semplice
uccidere Falcone a Roma?
Chi ha fatto
sparire l'agenda elettronica di Falcone (e l'agenda rossa di
Borsellino poi)?
Perché
quell'accelerazione dopo Capaci, per uccidere Paolo Borsellino con
un'altra autobomba?
Chi, in quei
giorni, consigliava Riina su come procedere (bisogna fare la guerra
per preparare la pace poi)? E chi consigliava i corleonesi (dopo la
cattura di Riina nel 1993) gli obiettivi in continente per le altre
bombe?
Non tutti i
misteri hanno avuto una risposta.
Ma quello che ora
è sempre più chiaro (e una sentenza della magistratura ha anche
messo nero su banco) è che dopo la sentenza del maxi processo, dopo
le condanne all'ergastolo dei capimafia, dopo che per la prima volta
la Cassazione aveva ammesso l'esistenza della mafia, come struttura
unitaria e verticistica, i vertici di cosa nostra decisero di
regolare i conti con la politica.
Cominciando dal
capocorrente DC Salvo Lima, nel marzo 1992.
Da qui si deve
partire per ricostruire la trattativa politica di pezzi dello stato
coi mafiosi: gli ufficiali del Ros che informarono solo alcuni
esponenti del mondo politico dei loro incontri con Vito Ciancimino.
La trattativa
c'è stata: ci sono stati gli incontri, le promesse, le condotte
opache (la mancata perquisizione del covo di Riina, la mancata
cattura di Provenzano a Mezzojuso), e ci sono stati anche i segnali
di distensione da parte dello stato.
"Questa sentenza di primo grado certifica come la trattativa ci fu e che uomini dello Stato si resero complici con i vertici di Cosa nostra nel ricatto nei confronti di quattro diversi governi della Repubblica. Per la giustizia ci sono voluti 25 anni per affermare, con una sentenza pronunciata nel nome del popolo italiano, quello che era accaduto. Ma nel libro ci crediamo con amarezza, se quanto oggi consacrato in una sentenza dei giudici non era conosciuto ben prima, da soggetti ed ambienti della politica e delle istituzioni che invece che denunciare hanno preferito tacere, nascondere o preferito cancellare le prove di quel terribile connubio. Oggi possiamo essere soddisfatti del risultato a cui è arrivata la magistratura, ma non cancella questa soddisfazione l'amarezza della reticenza, ed oserei dire dell'omertà istituzionale, che ha caratterizzato ampi settori della politica e delle istituzioni rispetto un tema così delicato e così strettamente intersecato con quello delle stragi che hanno insanguinato la Sicilia e l'Italia intera tra il 1992 ed il 1993".
I segnali di
distensione dello Stato
L'avvicendamento a
capo del DAP di Niccolò Amato con Adalberto Capriotti e col vice
Francesco Di Maggio (avvicendamento in cui un ruolo determinante lo
ebbe il presidente Scalfaro).
Il siluramento di
Scotti al ministero dell'Interno, sostituito da Mancino (il ministro
che non si ricordava dell'incontro con Borsellino, che da privato
cittadino chiedeva protezione al presidente Napolitano, ai vertici
della Cassazione).
L'avvicendamento
al ministero della Giustizia di Martelli con Conso, il magistrato
che, in solitudine, decise di non prorogare i 41 bis. Come segnale di
distensione da parte dello Stato, dopo le bombe a Firenze e a Milano
e a Roma.
Segnali che hanno
avuto delle controrisposte da parte di cosa nostra, come indicherebbe
la convergenza dei voti mafiosi dalle leghe del sud al nuovo partito
fondato dal paesano Dell'Utri e da Berlusconi, quello di Canale 5.
Il processo si doveva fare proprio per
fare luce su tutti questi punti, per porre fine alle troppe menzogne
che si sono sentite: la trattativa non ha salvato vite umane, per
esempio non ha salvato le persone morte a Firenze, a Milano, le
persone della scorta di Borsellino.
“Tutto questo – sottolinea il magistrato siciliano – lo affermano i giudici sulla base di prove granitiche, con una conseguenza terribile nella sua cruda semplicità: la Trattativa, la manifestata disponibilità al dialogo con la mafia, il cedimento di una parte dello Stato, rafforzarono in Riina e nei suoi seguaci il convincimento che la scelta di attaccare frontalmente le istituzioni – a suon di bombe, ricatti e richieste – era quella giusta. Serviva a costringere definitivamente alla resa uno Stato che aveva già iniziato a piegare le ginocchia. La Trattativa non evitò altro sangue. Lo provocò. Con altre stragi, a partire da quella di via d’Amelio, che muovevano dalla logica di intimorire ancora di più l’interlocutore istituzionale, la controparte di un dialogo scellerato e segreto”.
La trattativa non è servita a
combattere definitivamente la mafia: consegnati nelle mani dello
Stato la bassa manovalanza, l'ala militare attorno a Riina, il
controllo di cosa nostra passò all'ala moderata di Provenzano, fino
alla sua cattura nel 2006.
I giudici del processo non hanno
perseguito il reato di “trattativa”, che nemmeno esiste,
ma il reato di violenza a corpo dello Stato: aver indotto i
governi, da quello Amato a quello Berlusconi compreso, a portare
avanti delle politiche che interessavano cosa nostra.
Politiche per arginare l'ondata dei
pentiti, per arginare la carcerazione preventiva, far chiudere le
super carceri.
Nel libro il giudice Di Matteo ricorda
anche una delle fase più delicate: quando furono
intercettare le telefonate dell'ex ministro Mancino, tra queste
quelle con Loris D'Ambrosio e col presidente Napolitano.
Il fuoco che si aprì contro la procura
di Palermo, rea di aver osato intercettare il presidente (cosa
falsa), contro Di Matteo accusato di aver rivelato il contenuto delle
telefonate (cosa falsa, poiché la notizia era già uscita su alcuni
giornali).
Cosa intendeva dire, l'ex magistrato
D'Ambrosio al telefono quando esprimeva a Mancino i suoi timori, di
essere stato “un inutile scriba di segreti indicibili”?
Il re è nudo, si dicono Lodato
e Di Matteo:
“Ormai il Re è nudo” scrive Lodato mentre introduce il tema della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. “Il Re era nudo da tempo – replica Di Matteo -. Ma nessuno voleva vederlo. I fatti, i personaggi, le solite manine che hanno accompagnato, e in certi casi diretto dall’esterno sia la mafia sia il terrorismo in questo Paese, erano perfettamente individuabili. Ma nessuno voleva trarne le dovute conseguenze. Non si volevano delineare responsabilità politiche, istituzionali, storiche, che avrebbero potuto precedere e prescindere dalla responsabilità penale di soggetti determinati”.
Mentre in Italia si moriva sotto le
bombe, qualcuno nello Stato trattava: questa la storia che non andava
raccontata, portata alla luce.
Quegli anni dovevano essere sepolti
sotto la verità di comodo di una mafia distrutta e di una battaglia
vinta dallo Stato.
Ma non è così: quei segreti, quei
ricatti, quel do ut des tra mafia e politica (“un gioco di
specchi”) ha degli effetti ancora sul presente.
E' servito il processo (e le
rivelazioni di Spatuzza, e le carte di Massimo Ciancimino) per far
tornare la memoria ai protagonisti di quegli anni: Liliana Ferraro,
Martelli, Violante ..
Le 5252 pagine della sentenza
Le ultime due
parti del libro sono forse ancora più importanti del dialogo
intervista tra giudice e giornalista: c'è un riassunto delle 5252
pagine della sentenza depositata a luglio 2018, dove si mettono nero
su bianco le responsabilità, gli episodi, le date: a futura memoria
per il paese ma soprattutto per i negazionisti (Scalfari, Fiandaca, Padovani, Deaglio..) della trattativa, non
più presunta.
“Tutto questo – sottolinea il magistrato siciliano – lo affermano i giudici sulla base di prove granitiche, con una conseguenza terribile nella sua cruda semplicità: la Trattativa, la manifestata disponibilità al dialogo con la mafia, il cedimento di una parte dello Stato, rafforzarono in Riina e nei suoi seguaci il convincimento che la scelta di attaccare frontalmente le istituzioni – a suon di bombe, ricatti e richieste – era quella giusta. Serviva a costringere definitivamente alla resa uno Stato che aveva già iniziato a piegare le ginocchia. La Trattativa non evitò altro sangue. Lo provocò. Con altre stragi, a partire da quella di via d’Amelio, che muovevano dalla logica di intimorire ancora di più l’interlocutore istituzionale, la controparte di un dialogo scellerato e segreto”.
Lasciatecelo
dire
L'ultimo capitolo è
una raccolta di articoli pubblicato da Saverio Lodato su
Antimafiaduemila e pubblicato nel libro “Avanti mafia”, con
un'ironia molto amara: sono articoli scritti in questi ultimi anni e
che toccano alcuni punti già discussi nel libro
- le occasioni
mancate per sconfiggere la mafia
- le telefonate di Mancino e gli “indicibili accordi”
- “Quarant'anni di Stato-mafia emafia-stato?”: dove si pone il confine tra Stato e mafia; perché con le BR si è attuata la linea della fermezza mente con la mafia si è scelto di trattare?
- “Il nuovo anno di un condannato a morte”: il silenzio nei confronti del giudice di Matteo (da parte del governo Renzi); la trappola dentro la proposta di andare a Roma alla DNA (Direzione nazionale antimafia) senza passare per un concorso.
- “Chi sono loro? E chi siamo noi?”: loro sono quelli che lodano i magistrati morti, dell'antimafia di facciata.
- le telefonate di Mancino e gli “indicibili accordi”
- “Quarant'anni di Stato-mafia emafia-stato?”: dove si pone il confine tra Stato e mafia; perché con le BR si è attuata la linea della fermezza mente con la mafia si è scelto di trattare?
- “Il nuovo anno di un condannato a morte”: il silenzio nei confronti del giudice di Matteo (da parte del governo Renzi); la trappola dentro la proposta di andare a Roma alla DNA (Direzione nazionale antimafia) senza passare per un concorso.
- “Chi sono loro? E chi siamo noi?”: loro sono quelli che lodano i magistrati morti, dell'antimafia di facciata.
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Quotidiano)
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sul sito di Antimafiaduemila
La scheda del libro sul sito di
Chiarelettere
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