La storia di Paolo Borsellino è quella
di un uomo dello Stato che credeva nelle istituzioni, di un giudice
che credeva nella legge e nella giustizia, nella legge uguale per
tutti, non nella legge che tutela solo i più forti.
La storia di Paolo Borsellino è
quella di un magistrato coraggioso, che ha fatto il suo dovere fino
in fondo, che ha sopportato enormi sacrifici assieme ai colleghi del
pool.
Un magistrato che è stato ucciso due
volte: la prima volta per mano della mafia (e probabilmente di altra
manovalanza) ma su mandati di poteri che vanno oltre la mafia in una
strage molto strana, perché seguiva di soli 55 giorni quella del
collega e amico Giovanni Falcone, a Capaci.
Strana strage perché Borsellino è
stato ucciso una seconda volta dallo Stato, per quell'indegno
depistaggio di cui è stato vittima e che fu organizzato dal uomini
dello Stato.
..la storia del depistaggio di via D’Amelio: la fabbrica del falso pentito Vincenzo Scarantino, artigiano semianalfabeta, orchestrata dagli investigatori di Arnaldo La Barbera
Ci sono voluti anni e l'autoconfessione
di Gaspare Spatuzza affinché si facesse giustizia, di
Borsellino ma anche dei balordi condannati (Candura,
Orofino e lo stesso Scarantino) per quella finta pista che
partiva da un piccolo spacciatore del quartiere di Guadagna che era
stato “vestito” come un uomo d'onore da La Barbera e considerato
dai magistrati di Caltanissetta (Giovanni Tinebra e i suoi
collaboratori, Anna Palma, Ilda Boccassini e Giordano).
Un depistaggio fatto non per
conquistare meriti, ma “allo scopo di non individuare i veri
colpevoli di quella strage. E i veri responsabili sotto il profilo
dei mandanti.”
Sono le parole dell'ex poliziotto
Genchi che aveva seguito le indagini seguendo i tracciati dei
cellulari dei sospettati.
Non si può, dunque, ricordare
Borsellino e non parlare del depistaggio di Stato, della
trattativa stato-mafia che ha portato (al momento solo in
primo grado) alla
condanna di ufficiali del Ros (l'ex capo del Sisde Mori) e di
esponenti politici (Marcello Dell'Utri, fondatore del partito Forza
Italia).
Ecco perché alla strage di via
D'Amelio e alla morte Paolo Borsellino solitamente si dedicano solo
poche parole di circostanza: la mafia sconfitta dallo Stato, lo Stato
che è stato capace di arrestare tutti i mafiosi colpevoli delle
bombe della stagione eversiva di cosa nostra tra il 1992 e il 1993.
Lo Stato ha vinto perché ha sconfitto
la mafia militare di Riina e Bagarella .. (e la mafia dei colletti
bianchi, la mafia che viaggia a braccetto con la massoneria?)
Meglio non infilarsi in discorsi troppo
lunghi, altrimenti gli uomini delle attuali istituzioni, ministri,
politici, dovrebbero spiegare come mai Arnaldo La Barbera (su
input di chi?) e la sua squadra si inventarono il finto mafioso
Scarantino convinto a furia di botte e torture psicologiche a
confessare di essere lui dietro l'autobomba in via D'Amelio.
Altrimenti dovrebbero spiegare come mai
il magistrato capo di Caltanissetta Tinebra affidò al Sisde di Bruno
Contrada le prime indagini sulla strage.
Quel Bruno Contrada poi condannato per
concorso esterno in associazione mafiosa su cui la procura di Palermo
e Borsellino stesso avevano forti dubbi, per i suoi contatti con
mafiosi come Saro Riccobono: contatti che la revisione della Corte
Europea dei diritti non ha mai smentito.
Troppe cose non tornano sulla morte
di Borsellino: la fretta di quella strage, il fatto incredibile
che nessuna bonifica fosse stata fatta sulla via dove risedeva la
madre del giudice.
Il fatto che in quei 57 giorni la
procura di Caltanissetta non sentì mai Borsellino, non ritenne
opportuno convocarlo, nemmeno dopo il suo discorso del 26 giugno a
Palermo dove disse, alla folla che lo ascoltava, che i segreti che
custodiva li avrebbe riferiti solo all'autorità giudiziaria.
Non torna il depistaggio, certamente:
depistaggio che è servito a spostare l'attenzione lontano dai veri
responsabili di quella strage, i mafiosi di Brancaccio, per esempio,
i fratelli Graviano.
E, dai fratelli Graviano, su su fino ai
mandanti a volto scoperto: tutti i politici coinvolti nella
trattativa tra stato e mafia (che per anni è stata sminuita,
chiamandola “presunta”), nata a seguito dell'omicidio di
Salvo Lima e della sentenza del maxi processo, con le condanne
definitive all'ergastolo di quel gennaio 1992.
E poi, come in altri delitti eccellenti
della mafia (se fu solo mafia) ci sono dei pezzi mancanti: è
sempre Genchi ad avere scoperto ma manina che “dopo il «botto»
di via D’Amelio, si è incaricata di far sparire il traffico
telefonico in entrata sul cellulare di Borsellino. «I tabulati delle
chiamate – come ha rivelato Genchi – sono stati sottratti”.
Ci
sono poi le telefonate dei tabulati fatti dai mafiosi tramite
cellulari clonati:
a utilizzare quei cellulari clonati sono mafiosi, camorristi, ’ndranghetisti collegati a soggetti dei servizi segreti, che Genchi reincontrerà anni dopo in altre inchieste in Calabria.
Cellulari e numeri
che partono dai mafiosi (come Gioè e La Barbera) e portano dentro
uffici dei servizi, a Roma.
Tra i pezzi
mancanti anche la memoria del databank Casio di Falcone, i sigilli
rimossi dall'ufficio di Falcone a Roma e l'intrusione sui computer,
con la cancellazione dei file.
E poi l'agenda
rossa da cui Borsellino non si separava mai e di cui oggi non
sappiamo che fine abbia fatto.
Oltre ai pezzi mancanti, c'è anche la
memoria di politici e di altri magistrati che è mancata: da
Martelli a Liliana Ferraro, che per anni si erano dimenticati di aver
parlato col magistrato della trattativa, di cui Borsellino molto
probabilmente era al corrente, essendo poi stato informato dagli
ufficiali del Ros stesso, Mori e De Donno.
A mancare è stata la memoria dell'ex
ministro Mancino (che non si ricorda dell'incontro col magistrato al
Viminale, nel giorno in cui Borsellino incontra anche Contrada) ..
Ma la storia della strage va inquadrata
in uno scenario molto più ampio e inquietante: la storia delle bombe
della mafia del 1992 – 1993 si intreccia alle rivendicazioni
della Falange Armata, alla grigia vicenda dei gladiatori che
volevano essere messi in pensione senza pagare il prezzo per le
operazioni sporche portate avanti in Italia durante la guerra fredda.
Si intreccia con l'esigenza, da parte
della mafia (o delle mafie) e dei loro riferimenti politici di un
nuovo accordo, di un nuovo equilibrio: occorreva spazzar via tutti i
vecchi testimoni della mafia militare, da una parte, e i vecchi
politici troppo collusi dall'altra.
Qualcuno dovrebbe spiegare come mai
dall'autunno 1993, o dal gennaio 1994, dal fallito attentato allo
stadio Olimpico, non sono più scoppiate bombe in Italia.
E forse collegare questo con l'arrivo
di Forza Italia, partito fondato da quel compare palermitano di cui
Graviano parlava con Spatuzza. Marcello Dell'Utri.
Recentemente si stanno desecretando
le audizioni fatte presso la commissione antimafia, nella
speranza di fare luce su tutti i misteri insoluti della storia
mafiosa.
Forse serviranno a poco ma di certo
sentire
dalla voce di Borsellino la sua amarezza fa molto riflettere: il
sentirsi solo, come molti altri magistrati antimafia, dover
arrabattarsi per la scarsità di mezzi e di personale.
Eccolo lo Stato, o almeno una parte
dello Stato, che porta avanti un'antimafia solo di facciata: lo
stato di quei politici che da una parte parlano di sequestri e
arresti di mafiosi ma poi si fanno pochi problemi per le candidature
di personaggi poco raccomandabili.
Di quei politici che accettano
pacchetti di voti da mafiosi.
Di quegli imprenditori che accettano i
servizi di mafia spa per connivenza o perché meno costosi.
No: a 27 anni dalla strage di via
D'Amelio non possiamo più accontentarci di una verità di comodo, di
una verità dimezzata che si ferma solo ai tre poliziotti della
squadra di La Barbera oggi a processo
(Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei).
Vogliamo sapere chi c'era sopra di loro
e perché è stato organizzato tutta questa messinscena?
Vogliamo sapere perché Borsellino è
stato ucciso, perché questa fretta da parte di Riina
nell'organizzare l'attentato?
I due giornalisti Lo Bianco e Rizza nel
loro libro Depistato spiegano questa fretta con le informazioni che
Borsellino aveva sulla strage di Capaci:
Tra i suoi impegni, oltre alla trasferta in Germania, c’era un appuntamento: un nuovo interrogatorio di Mutolo, che gli aveva parlato di Contrada anticipando rivelazioni sui rapporti tra servizi segreti e mafia.
Finché non si farà luce su questi rapporti, su questi segreti e ricatti, lo Stato non potrà essere credibile quando parla di lotta alla mafia.
Tutte le citazioni di questo post sono
prese dal libro DepiStato
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza – Chiarelettere
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