“Bei tempi per gente cattiva” è un proverbio bosniaco
che da il titolo a questo romanzo dove l'impalcatura da noir è un
pretesto per raccontare di una tragedia avvenuta quasi venti anni fa,
nemmeno troppo lontano dall'Italia, il cui dolore ancora si riverbera
ai nostri giorni.
Come una ferita infetta che nessuna medicina è in grado di
cicatrizzare.
La tragedia è quella di Srebenica del luglio del 1995: in
questa enclave, migliaia di musulmani bosniaci furono massacrati
dalle milizie serbe durante la guerra civile. Un massacro avvenuto
sotto i nostri occhi, in particolare sotto gli occhi colpevolmente
girati dall'altra parte dei caschi blu delle nazioni unite.
Roberta De Falco, nella sua seconda opera ci parla del desiderio
di vendetta per un dolore mai sopito, rimasto a covare come un fuoco
sotto la cenere e che ancora oggi spinge qualcuno ad uccidere.
Ma è anche un romanzo d'amore e di affetti: quello ritrovato tra
il commissario Ettore Benussi e sua moglie Carla,
la volontaria nel centro di recupero per tossicodipendenti e
alcolizzati, dove trovano rifugio tutti disadattati di questa
società, che vorrebbe nasconderli.
Amore ritrovato dopo troppi anni in cui si erano sopportati, dopo
l'incidente della scogliera costato qualche frattura e diversi mesi
di convalescenza a casa (la storia raccontata nel precedente libro
“Nessuno è innocente”).
Sentimento che non è stato sempre corrisposto alla figlia Livia,
ribelle e insofferente, con cui il commissario non è mai riuscito (o
forse non ha mai voluto) creare un rapporto da padre a figlia.
C'è l'amore, sottile come un filo di seta, tra i due ispettori
Elettra Morin e Valerio Gargiulo, così diversi eppure così
in sintonia tra loro.
Ma anche questo sentimento deve subire le prove della vita, rischiando di spezzarsi: per il carattere indipendente di Elettra, alle prese con la malattia della madre. Sono stati i suoi genitori adottivi a prenderla con se, tanti anni prima, dopo tante esperienze negative di affido.“C’era sempre qualcosa di freddo in quello splendore dell’aria, qualcosa di minaccioso,[..]
come se ci si aspettasse da un momento all’altro una cattiva sorpresa. Anche nel suo rapporto con Elettra, Valerio Gargiulo sentiva la stessa raggelante minaccia”.
Il loro amore l'ha salvata da un destino triste, senza una
famiglia da cui ricevere amore e attenzioni.
Una sera di un freddo dicembre, in cui Trieste si prepara a
festeggiare Natale, Carla, la moglie del commissario sparisce. È un
colpo per Ettore che all'improvviso comprende l'importanza di avere a
fianco la donna della sua vita:
“Aveva paura. Paura che Carla potesse non tornare. Paura di non aver più voglia di vivere, se questa terribile ipotesi si fosse avverata. Paura di dover fare da padre a una figlia”.Come il personaggio del film La finestra sul cortile di Hitchcock, Benussi deve svolgere le sue indagini con le stampelle, non potendo muoversi dalla sua casa sulle colline di Trieste, in Santa Croce, dove il poliziotto si è ritirato per la convalescenza.T
Indagini, affidate a Elettra e Valerio, si muovono prima di tutto
attorno alle persone seguite da Carla: un tossicodipendente, un
figlio di papà con problemi di droga e una ragazzina con padre
disoccupato e depresso.
Ma sono strade che non porteranno a nulla di buono.
Nel frattempo, nel centro di ricovero curato da padre Florence,
arriva una donna croata:
«Luka Furlan», rispose la donna, distogliendo lo sguardo. «Non sei italiana?» «Sono nata a Serajevo.»
Per quale motivo è arrivata a Trieste
da così lontano? Perché il nipote l'ha percossa una notte e perché
si ostina a non denunciarlo alla polizia?
Quale segreto nasconde nel suo passato? Livia si ricorda di un ragazzo, uno zingaro zoppo con un violino, che la madre aveva incrociato davanti un supermercato, dimostrando di conoscerlo bene.«Mio nipote, figlio di mia figlia.»
«Minorenne?»«Ha vent’anni.»«Proprio per questo dovrebbe aiutarci a ritrovarlo. Potrebbe fare male ad altre persone…»«Il male lo hanno fatto a lui, tanto tempo fa.»
Altre domande e altre piste per i due
investigatori e mezzo (se includiamo il burbero Benussi).
La storia della caccia alla donna
scomparsa si intreccia alle pagine di un diario, scritto da un
ragazzo bosniaco nell'estate del 1995: è il diario di Kassim
che racconta, per il figlio che non vedrà mai, la sua storia d'amore
per la piccola Nadja. Una storia da Giulietta e Romeo ambientava
nella follia della guerra civile jugoslava. Perché Kassim è
musulmano bosniaco, Nadja è serba, figlia di una donna croata.
Un amore impossibile.
Un amore spento dall'odio nato
all'interno della stessa famiglia, di cui faceva parte uno zio,
miliziano cetnico, che si era macchiato del suo stesso sangue.
Igor, questo il nome del ragazzo col
violino, c'entra qualcosa con la scomparsa di Carla Benussi?
E c'entra qualcosa Radovan Jovic, uno
dei massacratori di Srebenica durante una guerra nata sia per l'odio
che da sempre covava tra serbi, croati e musulmani, sia per motivi
economici:
Srebenica, 1995:«E allora quale fu l’elemento scatenante?» «Motivi economici, soprattutto. Quando i bosniaci, che erano per la maggior parte musulmani, tentarono la carta dell’indipendenza, [..]
gli ex burocrati comunisti ebbero paura di perdere il loro potere e scatenarono una campagna di odio fomentata ad arte,[..]Aizzarono gli ignoranti, i contadini, i montanari, tutti coloro che vivevano ai margini.Fu una guerra del fanatismo ignorante contro la borghesia progressista e tollerante.”.
Non so quanti giorni ancora mi restano. Devo fare presto a raccontarvi tutto, lo faccio soprattutto per te, figlio mio, perché tu sappia di cosa è capace l’uomo quando è incendiato dall’odio e dal fanatismo.
Nelle pagine del diario, Kassim
racconta anche delle stragi compiute per rappresaglia dai bosniaci
contro i serbi:
“combattimenti sempre più serrati e sanguinosi nei villaggi e nelle campagne, degli agguati come quello di Voljavica, dal quale i serbi non ebbero scampo”.
Combattimenti in cui
anche lui aveva preso parte, finché non vide una scena che gli fece
aprire gli occhi su tutta quella violenza insensata:
“se non mi fossi imbattuto, a un tratto, in un bambino morto tra le braccia di sua madre, anche lei poco più che una bambina. Avevano gli occhi spalancati, come a chiedere pietà.
[..] quella donna e quel bambino serbi, come i loro parenti che stavano festeggiando il Natale ortodosso nelle loro povere case, non erano altro che vittime come noi.[..] allora ti dico, figlio mio, aiuta i tuoi coetanei a vedere nell’altro non un ustascia o un cetnico o un turco, ma soltanto quel bambino innocente.Radovan Jovic, ricorda questo nome. È lui l’uomo che ha bruciato la nostra moschea, che ha portato l’odio nel nostro villaggio. Sono uomini come lui, fanatici, crudeli, disumani a sporcare la razza umana.Oggi è il 12 luglio del 1995. Ricordati questa data. Forse è l’ultimo mio giorno su questa terra. Addio, tuo padre.
Un bambino scampato al massacro di
Srebenica. Un carnefice serbo che qui a Trieste ha cercato di rifarsi
una vita. Amori che vanno avanti a fatica e amori che si riscoprono.
La scheda del libro sul sito di
Sperling
& Kupfer.
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