Federica Guidi [ministro del fu sviluppo economico]. "Non voglio fare il difensore di nessuno, tantomeno della Fiat, ma rispetto agli anni '80 è un'altra azienda, ha fatto investimenti". Tuttavia, a giudizio del ministro, in generale "bisogna creare le condizioni perché qualunque azienda italiana e non, ritrovi un valore aggiunto ad investire nel nostro paese. Nessuna azienda, però, può essere trattenuta a forza e obbligata per legge ad investire in un paese".
Nestlè, vuole cambiare il contratto di lavoro: da indeterminato ad altre forme. Il no dei sindacatiL'azienda, tra i leader mondiali dei beni di largo consumo, ha rotto le trattative per il rinnovo dell'integrativo e i sindacati hanno dichiarato lo stato di agitazione.La società vuole trasformare le attuali forme contrattuali negli stabilimenti italiani in forme di lavoro più flessibili
Pare che questo paese sia la patria dei lavativi, dei fannulloni, di quelli che non vogliono lavorare e campano come parassiti alle spalle dello Stato.
Dove fare impresa sia impossibile. Impossibile fermare le aziende, che rivendicano il loro diritto di inseguire il profitto, ad ogni costo, in qualunque parte del mondo.
Dove fare impresa sia impossibile. Impossibile fermare le aziende, che rivendicano il loro diritto di inseguire il profitto, ad ogni costo, in qualunque parte del mondo.
Anche a costo di lasciarsi alle spalle una generazione di vite
rinviate.
Le vite rinviate, di cui parla il saggio del giuslavorista Luciano
Gallino, sono quella della generazione che sta sperimentando
sulla propria pelle il fallimento dell'ideologia neoliberista basata
sul dogma della flessibilità.
Parliamo di dogma poiché tutti i numeri che si possono
raccogliere sul mondo del lavoro, dicono che questa non crea più
posti di lavoro, né genera maggiore produttività per le imprese.
Diversamente da quanto si crede, non sono le norme sul lavoro, lo
statuto dei lavoratori, le rigidità dei sindacati che bloccano il
rilancio dell'economia del nostro paese, che bloccano le aziende
dall'assumere del personale.
Altrimenti non si spiegherebbe come mai la disoccupazione, specie
quella giovanile, gli indici che misurano la produttività, i dati
sull'occupazione femminile, siano tutti peggiorati, nonostante questo
paese abbia sperimentato, dalla fine degli anni novanta, diverse
contro riforme sul lavoro.
Dal pacchetto Treu, varato dal centrosinistra del 1997, alla
riforma Biagi (la legge 30) che ha semplicemente normato il lavoro
precario nelle sue varie forme. Fino all'ultima riforma Fornero del
2012, in piena crisi, che di fatto ha tolto di mezzo anche l'articolo
18. Quello che confindustria, giornalisti, politici ideologicamente
presentavano come totem, ma che era solo una norma di civiltà.
La flessibilità, dunque: non solo non ha giovato al sistema
Italia, ma ha con se dei costi sociali ed economici che spesso
vengono dimenticati.
Chi ha oggi un lavoro precario difficilmente domani potrà pensare
di ricevere un'adeguata pensione.
Chi è precario non può affrontare serenamente domani, per
pianificare il suo futuro, in termini sociali ed individuali. Metter
su famiglia o fare un figlio.
Chi ha un lavoro a tempo determinato, con fasce orario di lavoro,
ha difficoltà a trovare il tempo per curarsi.
E, ancora, una persona che lavora con contratti che si misurano a
mesi, difficilmente potrà pensare di migliorare la propria
formazione professionale.
La stessa vita delle persone è cambiata, con il proliferare dei
contratti “atipici”. C'è minore socialità nei posti di lavoro,
per l'altro tasso di rinnovo del personale, rende difficile al
lavoratore di consolidare la sua identità professionale.
Soprattutto, fa sorgere in lui l'idea che il suo destino sia in
mano di entità esterne, al di fuori della sua volontà.
Precario il lavoro, precaria la vita.
Gallino ha diviso in quattro settori i comparti dove maggiormente
trovano posto i contratti a tempo determinato (lo si spiega anche
qui):
- Lavoro razionalizzato, strettamente vincolato da fattori tecnici e
organizzativi.
- Lavori a qualificazione medio-bassa e ad alta intensità di forza
lavoro
- Lavori semi-autonomi che comportano in genere attività di
controllo sull’attività.
- Lavori che presuppongono di per sé una qualificazione elevata e
sono svolti in condizioni di notevole autonomia e responsabilità.
La flessibilità, che doveva garantire in linea teorica la
possibilità di cambiare spesso datore di lavoro per accumulare
esperienza che possa poi essere rivenduta, trova applicazione solo
nell'ultima fascia.
Quella dei lavori ad alta specializzazione, come i sistemisti
informatici.
Le fasce intermedie vengono scacciate, un po' verso l'alto, ma
spesso verso il basso nella prima categoria lavorativa.
Quella dove non servono competenze ed è più facile trovare
ricambio sul mercato.
Non il massimo dello scenario, diverso dai principi dei vari
politici che hanno emanato le leggi sul lavoro di cui sopra.
Attenzione però, ammette l'autore, della flessibilità non
possiamo fare a meno.
La flessibilità nasce dall'esigenza di un'industria che deve essere “just in time”; nasce da questa società dell'informazione, dove si lavora in orari flessibili e dove si pretende un servizio h24 per l'acquisto di merci online e per i servizi cui siamo abbonati.
La flessibilità nasce dall'esigenza di un'industria che deve essere “just in time”; nasce da questa società dell'informazione, dove si lavora in orari flessibili e dove si pretende un servizio h24 per l'acquisto di merci online e per i servizi cui siamo abbonati.
Gallino parla di “società flessibile”: “la società
flessibile è una società in cui sono cadute le rigide barriere che
fissavano per la vita un individuo a una cerchia ristretta di
rapporti sociali”.
Una società perennemente attiva, che “comporta a titolo di
prerequisito la massima diffusione del lavoro flessibile.”
Un lavoro che cambia le regole della nostra vita: non esiste più un rigido orario di lavoro, con le vacanze estive come nelle grandi fabbriche di una volta. L'orario stesso della giornata cambia, perché si lavora lontano da casa (e si è costretti a tenersi quel lavoro in assenza di alternative) o perché l'orario del lavoro è allungato alla sera o alla notte.
Un lavoro che cambia le regole della nostra vita: non esiste più un rigido orario di lavoro, con le vacanze estive come nelle grandi fabbriche di una volta. L'orario stesso della giornata cambia, perché si lavora lontano da casa (e si è costretti a tenersi quel lavoro in assenza di alternative) o perché l'orario del lavoro è allungato alla sera o alla notte.
Sono tutte ore che vengono sottratte alla famiglia e alla
socialità. Per il proprio tempo libero.
Non solo l'azienda è delocalizzata, ma la stessa persona diventa
delocalizzata dalla famiglia.
Che fare? L'autore si concentra, nella seconda parte del libro, di
come si può mitigare gli effetti della precarietà per dedicarsi poi
nell'ultimo capitolo, sulle sue cause.
La flexsecurity.
La strada verso cui muoversi è quella della flessicurezza:
«una strategia integrata per accrescere, al tempo stesso,
flessibilità e sicurezza sul mercato del lavoro».
È una politica intrapresa ad esempio
in Olanda e Danimarca, paesi dove è sì più semplice licenziare
(con l’obbligo però di un esteso preavviso), ma vengono tolti al
lavoratore le ansie e le insicurezza per questa situazione.
Come? Tramite l'ausilio di indennità
di disoccupazione relativamente generose che stabilizzino a un
livello accettabile il reddito dei soggetti interessati anche nei
periodi di inattività.
Lo stato predispone qui dei corsi di
formazione, che il disoccupato è obbligato a seguire, per migliorare
continuamente il suo profilo.
Esistono dei dispositivi di legge “per
assegnare automaticamente un posto di lavoro a tempo indeterminato a
chi abbia cumulato un certo periodo o un certo numero di contratti
temporanei”.
Tutto questo però, ha un costo: i
corsi di formazione richiedono del personale pubblico (in Danimarca
il settore pubblico comprende, da solo, copre oltre il 30% degli
occupati).
Le indennità costano qualche punto
percentuale di PIL: sempre in Danimarca, le indennità arrivano al
90% dello stipendio degli ultimi 12 settimane.
Sono soldi che in Italia non si vuole
spendere: abbiamo fatto fatica a trovare i soldi per tagliare l'Imu,
poi rientrata dalla finestra.
Non solo: l'autore ricorda il diverso
comportamento dei centri di collocamento: “l’Italia spende per
i servizi di collocamento un ventesimo di quello che spende la
Danimarca”.
Infine, c'è tutto l'aspetto dei
servizi pubblici che nei paesi del nord sono considerati normali e
che qui invece sono solo un miraggio.
Gli asili nidi per tutti, l'accesso
agli atti amministravi via internet, una previdenza sociale che non
dà sicurezze per il futuro.
La flessicurezza in Italia è fatta con
gli ammortizzatori sociali, che sono una coperta corta tirata da
tutte le parti: stiamo discutendo ora di reddito minimo garantito e
salario minimo (in Europa non l'abbiamo noi e la Grecia).
Renzi aveva proposto nel suo jobs act
di ridurre le forme atipiche ad un solo contratto a tempo
indeterminato con tutele crescenti (ma con possibilità di
licenziare): al momento è rimasta solo la possibilità di non
specificare la causalità del contratto atipico per i primi tre anni.
Di sussidi non se ne parla e, anziché
corsi di formazione per migliorare il curriculum di chi perde il
lavoro, il ministro Poletti parla di volontariato alle mense della
caritas.
Dagli effetti alle cause.
Se anche fossero già attivi questi rimedi, per tutelare i
precari, rimarrebbe la questione di fondo: cambiare continuamente
lavoro, magari spostandosi anche di regione, ha comunque un costo
sociale per il lavoratore.
“La credenza che una maggior flessibilità del lavoro,faccia
aumentare o abbia mai fatto aumentare l’occupazione, equivale
quanto a fondamenta empiriche alla credenza che la terra è piatta”:
Gallino confuta la tesi all'origine del mito della flessibilità che,
secondo lui, sarebbe nata da studi dell'Ocse e del FMI degli anni
'90, basati su dati sbagliati.
Questa tesi, sostenuta pure dalla
Commissione Europea si basa sull'idea (non dimostrata) che le imprese
non assumono perché in caso di difficoltà incontrano troppi
ostacoli a licenziare.
Come si è detto, anche il jobs act di
Renzi (e la riforma Fornero) sposano questa idea.
Nonostante le migliaia di lavoratori
che oggi sono a spasso, perché l'azienda li mette in cassa
integrazione prima e in mobilità poi. Nonostante i licenziamenti per
motivi economici (senza articolo 18). Nonostante la maggior parte
delle nostre imprese sono piccolo dove l'articolo 18 neppure vale.
Dal 2003 e 2013 (post legge Biagi) i
posti di lavoro persi sono stati 1.031.151.
La flessibilità migliora la
produttività delle imprese? Altro dati riportato nel saggio “tra
il 1995 e il 2007 la produttività totale dei fattori è scesa di
quasi il 4%, mentre tra il 1992 e il 2011 la produttività del lavoro
è cresciuta a un tasso medio annuo dello 0,9%.”.
Sono tesi ideologiche, dunque, portate
avanti per nascondere la vera natura di queste riforme: svilire il
ruolo del lavoro, per mettere in competizione (al ribasso) lavoratori
(garantiti) contro lavoratori (non garantiti, o quelli dei paesi
dell'est). Come a Torino nella marcia dei 40000 (impiegati contro
operai in sciopero).
Visto che la flessibilità non crea
più lavoro, come mai le aziende spingono sempre di più per questa:
l'autore lo spiega ricordando la sempre più finanziarizzazione delle
imprese:
“Il fatto è che le imprese hanno costruito un modello produttivo-finanziario totalmente asservito alla libertà di movimento del capitale. [..]un capitale perennemente in movimento richiede che anche la quantità, la qualità, la dislocazione della forza lavoro sia di continuo adattata ai suoi movimenti. [..]La flessibilità del lavoro, in altre parole, è una filiazione diretta della finanziarizzazione dell’intera economia”.
In conclusione, occorre
“modificare il modello produttivo al presente dominante, sebbene scosso ormai da una gravissima crisi globale, allo scopo di restituire stabilità e giustizia al lavoro, sarà molto difficile. Tuttavia sarebbe fondato su situazioni più realistiche, che non il tentare di rimediare ai guasti della demolizione del diritto al lavoro e del lavoro (di cui agli artt. 4 e 35 della Costituzione) indotti dalla finanziarizzazione esasperata dell’economia, mediante altri artefatti legislativi che tali situazioni sembrano del tutto ignorare”.
“modificare il modello produttivo al presente dominante, sebbene scosso ormai da una gravissima crisi globale, allo scopo di restituire stabilità e giustizia al lavoro, sarà molto difficile. Tuttavia sarebbe fondato su situazioni più realistiche, che non il tentare di rimediare ai guasti della demolizione del diritto al lavoro e del lavoro (di cui agli artt. 4 e 35 della Costituzione) indotti dalla finanziarizzazione esasperata dell’economia, mediante altri artefatti legislativi che tali situazioni sembrano del tutto ignorare”.
L'ultima parte del libro è un
compendio sulla cronologia delle riforme sul lavoro (“Cronologia
dei diritti perduti”) e una serie di articoli che spiegano le
parole chiave sul lavoro (dai “Quaderni di affari e finanza”
curati da Massimo Giannini).
Da Ammortizzatori sociali a Welfare.
La scheda del libro sul sito di Laterza.
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