In occasione dei vent'anni dai fatti di Genova per il G8, è uscito per Chiarelettere un libro scritto dall'allora agente della Digos, Gianluca Prestigiacomo: "G8. Genova 2001. Storia di un disastro annunciato" .
Disastro che costò la vita di un ragazzo, una città distrutta e vandalizzata, ragazzi picchiati e torturato. Un intero movimento politico che chiedeva ai grandi del mondo di essere ascoltati che fu criminalizzato.
Sul Fatto Quotidiano è uscita l'intervista all'autore dove racconta quei giorni
“A Genova c’era un piano per reprimere i no global”
di Alessandro Mantovani | 14 GIUGNO 2021
Vent’anni dopo un poliziotto in pensione racconta in un libro il G8 di Genova e il suo disgusto per la feroce repressione del movimento no global: “C’era un disegno per fermarlo”, dice Gianluca Prestigiacomo, autore di G8. Genova 2001. Storia di un disastro annunciato (Chiarelettere). Simpatizzante della sinistra, era entrato in polizia negli anni 80. Lavorava alla Digos di Venezia, trattava con Luca Casarini e i Centri sociali del Nord-est e a Genova era nel piccolo gruppo di poliziotti in borghese che accompagnava il corteo delle Tute bianche appena trasformate in Disobbedienti, quello con gli scudi di plexiglass che voleva “violare la zona rossa”. Il 20 luglio 2001 il corteo doveva arrivare in piazza delle Americhe, al limite della zona rossa, e invece fu fermato 300 metri prima, all’angolo tra via Tolemaide e Corso Torino, da una carica dei carabinieri di cui nessuno si assunse mai la responsabilità, iniziata dopo un lancio di oggetti da parte di un gruppo di black bloc. Da lì si scatenò l’inferno. Tre ore dopo un carabiniere sparò a Carlo Giuliani, 23 anni e lo uccise. Era una carica illegittima secondo il tribunale di Genova, lo stesso che condannò a pene fino a 11 anni (poi si arrivò a 15) alcuni manifestanti accusati di devastazione e saccheggio.
Lei racconta che prima della carica arrivò un gruppo di persone e vi mandò via, c’era uno con i Ray-ban, un altro disse che erano “del servizio d’ordine dei centri sociali di Roma”. Chi erano?
Eravamo davanti al corteo, a 300 metri da Brignole dove c’era il reparto di polizia schierato. Ci siamo allontanati, altrimenti le avremmo prese da quelli lì. Quando partì la carica un funzionario tirò un bestemmione, diceva “falli tornare indietro”, c’è un filmato su youtube. Quelli erano 5-6, forse una decina. Uno ci filmava con una telecamera. Neanche un bambino avrebbe creduto che fossero dei centri sociali…
I Servizi?
O provocatori, non lo so.
Un funzionario che era nel suo gruppo conferma: “Siamo stati espulsi dal corteo”. Però ritiene che quelli fossero davvero dei centri sociali romani. Poco dopo partì la carica, prima i carabinieri e poi anche la polizia. Se era un errore non bastava fermarsi?
Nessuno capì cosa sarebbe successo, davanti al corteo non c’erano poliziotti in divisa perché così era stato concordato. Il piano era questo: sarebbero arrivati alla zona rossa, avremmo fatto un po’ di teatro, quattro fumogeni, le cose che si facevano allora… E Luca (Casarini, ndr) sarebbe entrato nella zona rossa a fare una conferenza stampa. Ma invece bisognava fermarli, è stato tutto preordinato.
Sì ma era dalla mattina che i dirigenti della polizia non rispondevano al telefono ai responsabili del corteo. Chi ha preordinato? L’uomo con i Ray-ban?
Non è mai stata fatta chiarezza. Bisognerebbe riaprire l’inchiesta, o fare una commissione parlamentare.
Come tanti altri, specie delle Digos di Roma e Milano che conoscevano i no global, lei non andò alla scuola Diaz la sera del 21 luglio. Finì con 87 feriti e 93 arrestati con prove false. Perché non andaste? Cosa avevate percepito?
Non pensi che ci siamo accordati per non andare. Io ero con il mio collega Mirko, era partito l’ordine di arrestare tutti quelli che avevano a che fare con le proteste contro il G8.
Lo riferì al processo, senza che riuscissero a smentirlo, Ansoino Andreassi, l’allora vicecapo della polizia recentemente scomparso. Ma a lei chi lo disse?
Un collega di Genova, non ricordo il nome. Gli diedi il mio numero e gli dissi “se vuoi ci chiami”. Poi ho spento il telefono. Mi sono poi ritrovato, l’ho scritto nel libro, con Pietro Troiani, il funzionario che la sera portò le due bottiglie molotov alla Diaz. Ci ordinò di arrestare due poveretti che non avevano fatto niente. Rifiutai. Non era quello il modo di operare. L’allora capo della polizia Gianni De Gennaro ha partorito quel meccanismo, un sistema repressivo anziché preventivo. Dovevano lasciar fare ad Andreassi.
E invece arrivò Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. Ma secondo lei può succedere ancora quello che è successo a Genova?
No. Gli attuali vertici li conosco. Conosco l’attuale direttore della prevenzione, il vicecapo della polizia Vittorio Rizzi, lo stesso Lamberto Giannini (il capo, ndr) e Franco Gabrielli, che ha detto cose importanti su Genova. Non potrebbe più succedere anche a prescindere da loro. Potrà scivolare la mano, una manganellata, ma non quello. Non avrebbe mai fatto quelle cose neanche Francesco Gratteri (condannato per falso nel processo Diaz nel 2012, interdetto per cinque anni quando di lui si parlava come di un possibile futuro capo della polizia e da allora in pensione, ndr). Passati vent’anni, dovrebbe dire chi gli ha dato l’ordine.
L’ordine di fare cosa? Non credo di massacrare tutti alla Diaz. Di arrestarli con prove false?
Servirebbe una commissione parlamentare per fare domande a tutti, ci sono persone ancora viventi che possono parlare.
Ultima questione. Si è discusso della riammissione in servizio di alcuni dei condannati per la Diaz e per Bolzaneto dopo il periodo di interdizione. La legge italiana lo prevede, la Corte europea dei diritti umani raccomanda invece la rimozione per fatti di tortura o collegati. In entrambi i casi l’Italia è stata condannata a Strasburgo per tortura. Lei come la vede?
Sono stati fatti rientrare solo per farli arrivare alla pensione.
Gilberto Caldarozzi, allora vice di Gratteri e anch’egli condannato per i falsi verbali della Diaz, dal 2017 per due anni è stato numero due della Divisione investigativa antimafia. Per qualcuno era troppo.
Caldarozzi e Gratteri hanno obbedito a qualcuno. Se tu sei il mio dirigente e mi dici “fai questo” io mi fido, anche perché sei quello che mi nomina. Se fosse arrivato un ordine di De Gennaro avrebbero dovuto obbedire. C’era un disegno generale, un contesto, c’era anche Gianfranco Fini (allora vicepremier, ndr) nella centrale operativa dei carabinieri. Ma del resto a Napoli, sotto il governo di centrosinistra di Giuliano Amato, era andata allo stesso modo. Bisognava fermare il movimento. E ci riuscirono. Da lì in poi tutti hanno avuto paura.
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