Il pranzo da Lucien e il parto dell’egiziana
Stava sognando, di questo era certo, ma, come quasi tutte le altre volte, non avrebbe saputo dire qual era il soggetto del sogno. Immagini alla rinfusa, talmente rapide e caotiche che non riusciva ad afferrarle e trattenerle fino al risveglio. Si sforzava al punto di esserne esausto, e deluso, perché quelle immagini dovevano certamente significare qualcosa e avrebbero potuto dargli un’indicazione utile. Tutto ciò che riusciva a ricordare era... No, non erano le parole giuste, sembrava si contraddicessero fra loro: un’ostilità non aggressiva, un’ostilità passiva, diffusa, emanata, più che dagli uomini, dal mondo inanimato, da oggetti inerti, da paesaggi indistinti. Non sapeva se nel sogno c’erano esseri umani e, se c’erano, erano senza volto. Doveva essere importante. L’idea di lasciarsi sfuggire una pista per non essersi sforzato a sufficienza lo deprimeva.
Un romanzo perfetto,
costruito attorno alla figura del dottor Chabot, ginecologo affermato
con una bella famiglia attorno, capo di una clinica in avenue des
Tilleuls e primario della maternità in una seconda clinica in rue de
Port Royal, dove è anche insegnante.
Ma come mai, allora, sin
dai primi istanti in cui lo incontriamo, percepiamo quel suo
malessere, quel suo sentirsi osservato dalle persone che incontra,
col pensiero fisso, “cosa sarebbe la testimonianza di costui”?
La
cameriera che veniva a rassettargli la stanza dove dormiva, in uno
sgabuzzino dietro il suo studio, non nel letto matrimoniale assieme
alla moglie?
Una domestica di cui non aveva mai saputo il nome, e che andava da loro solo al mattino per i lavori pesanti, stava riassettando. Con un foulard avvolto sulla testa, lo seguì con gli occhi senza aprir bocca, come se lui fosse un fantasma. Come sarebbe stata la testimonianza di costei?
« “Le è sembrato preoccupato?” ». Perché fanno sempre domande assurde.
«“Non saprei dire. Di solito è piuttosto pallido, e al mattino ha gli occhi cerchiati di rosso, come se...” ».
E i colleghi nella clinica? E le donne che venivano da lui per partorire e che affidavano la loro vita nelle sue mani? E Viviane, la segretaria, che lo seguiva premurosamente dappertutto, ricordandogli le medicine da prendere, proteggendolo da ogni seccatura. Una segretaria che è anche la sua amante, non per una passione scoppiata dopo anni di matrimonio, ma per colmare un vuoto.
Per loro, per tutti, lui era l’uomo forte, il maschio, il professore, il confessore, il dispensatore di benessere, fisico e morale, colui che aveva il compito di offrire fiducia.
Un vuoto legato al suo problema, di cui Chabot si rende conto, sempre di più, giorno dopo giorno: per anni ha indossato una maschera di fronte agli altri, i colleghi, i suoi familiari, le donne che incontrava nello studio e in clinica. Una maschera per ogni occasione, tanto da aver dimenticato quello che c’era sotto. La sua anima, la sua natura. I suoi desideri.
Un vuoto che Chabot ha cercato di colmare col sesso, anche con sue pazienti. E poi con l’alcool, quei bicchierini di cognac ingoiati così, per tirare avanti.
Per nascondere quel
vuoto e quella stanchezza che si porta dentro. Lo avranno capito,
come mi sento? Mia moglie, gli altri medici, quella madre nel mezzo
del travaglio che ha visto quel mio sguardo preso dal panico. Come se
mi fossi dimenticato tutto della mia professione. Come se
all’improvviso mi sentissi altrove.
C’è qualcos’altro che
preoccupa Chabot, però: lo vediamo mentre spia dalla sua finestra se
in strada c’è ancora quella persona che lo sta aspettando giù
davanti la sua macchina. Qualche volta ha anche lasciato qualche
bigliettino per lui sul tergicristallo. “Io ti uciderò”.
Chi è questa
persona lo scopriremo un pezzo alla volta: come se fossimo in un
giallo, l’enigma Chabot si svela un pezzo alla volta, attraverso i
suoi ricordi.
Qualche mese prima, mentre era di turno nella
clinica, aveva incontrato una giovane infermiera di cui non conosceva
nemmeno il nome: la visione di questa ragazza addormentata, col
camice sbottonato, l’aveva spinto a toccarla, a prenderla. Ma non,
come potremmo pensare, per un desiderio sessuale: in quel momento
“prendere” quella ragazza, che gli appariva come “qualcosa
di tenero e commovente come un orsacchiotto nel letto di un bambino”,
era stato per Chabot un atto di purezza.
Qualche settimana
dopo aveva scoperto, per caso, che quell’infermiera era stata
allontanata dalla clinica dalla sua segretaria, così sollecita a
togliergli di mezzo ogni impiccio. E, sempre per caso, aveva scoperto
che Emma, così si chiamava “l’orsacchiotto”, si era suicidata
gettandosi nella Senna, incinta.
Dovrebbe aver paura, il dottor
Chabot. Dovrebbe perfino provare rimorso, per quella sera, per non
aver aiutato la ragazza quando gli era apparsa davanti all’improvviso
in una serata di pioggia come a chiedergli aiuto e lui aveva chiuso
la portiera. Andandosene via con la sua segretaria Viviane.
Invece
niente di tutto ciò.
Osserviamo, come
spettatori di un film, la vita di Chabot i cui pensieri vengono
vivisezionati, uno per uno. I ricordi del padre, un funzionario dello
Stato accusato di reati forse non commessi e che si era lasciato
morire. Quella pistola che ha iniziato a portarsi appresso, per
difendersi da quell’uomo che lo aspetta per strada (un fidanzato?
Un fratello?), forse. Ma quella pistola che forse rappresenta la
soluzione al suo vuoto, al sentirsi una maschera senza niente dietro.
E allora ecco quel gesto, alzare il braccio, puntare la pistola al
volto e vedere l’effetto che fa..
Il finale di questo mistero su quest’uomo vuoto, il cui unico momento di felicità è stato fare l’amore assieme ad una ragazza semi addormentata, sarà il culmine di questa tragedia che Simenon ci racconterà in poche, semplici frasi:
«Su, telefona alla polizia...»
Era finita.
Improvvisamente aveva sonno.
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