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Roma, 16 marzo 1978, poco prima delle 9 di mattina un commando delle Brigate Rosse (con qualche elemento estraneo probabilmente) fermano l’auto del presidente della DC, Aldo Moro, mentre si stava recando con la sua scorta in Parlamento a votare la fiducia al primo governo di unità nazionale, col sostegno esterno del partito comunista.
Da qui, col rapimento di Aldo Moro e la strage dei componenti della sua scorta, parte quello che è passato alla storia come “il caso Moro”, uno dei tanti misteri d’Italia. Vicenda che si sarebbe poi chiusa con la morte del presidente Moro, il cui cadavere fu fatto ritrovare in via Caetani (una strada nel centro di Roma non lontana dalla sede della DC e del PCI), 55 giorni dopo.
Un mistero che, col passare degli anni, col disinteresse da parte della politica nel districarsi in questo enigma, si è cristallizzato in una verità di comodo, quella raccontata dal memoriale delle Brigate Rosse, di Morucci e Faranda, fatto arrivare al presidente Cossiga e poi consolidata nelle sentenze emesse dai vari processi.
A rapire Moro, a gestire il rapimento e ad ucciderlo sono state solo le Brigate Rosse: in questo modo, con questa versione semplice, non si devono scomodare attori terzi, oltre oceano, dentro lo Stato, attenti osservatori della vicenda. Non si deve chiedere conto alle BR dei tanti perché, non si deve chiedere conto alla politica come mai per Moro si scelse la linea dura (nessuna trattativa con le BR, mai, lo stato non deve cedere), diversamente da quanto poi successo pochi anni dopo col sequestro Cirillo (o nel 1992-93 con la mafia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio).
Meglio una verità di comodo che non fa nascere troppe domande, che consola la nostra coscienza, che non crea problemi alla DC e nemmeno alle BR (come mai gli scritti di Moro sono stati tenuti nascosti, diversamente da quanto avevano comunicato in un primo comunicato? Chi ha tirato fuori il falso comunicato numero 7?).
Una verità che cozza contro tutte le incongruenze emerse man mano che il velo di fumo calato sulla vicenda iniziava a dipanarsi: di queste se ne è occupata recentemente la trasmissione Report, suscitando una reazione infastidita, nervosa, sia da parte di ex brigatisti, sia da parte di doversi opinionisti improvvisatisi anche storici, strenui difensori della verità di comodo. Ad uccidere Moro sono state le BR e basta, tutto il resto è complottismo.
Ma è proprio il
racconto delle BR, su cui le sentenze paradossalmente si basano, che
ci costringe ad essere scettici: chi era presente in via Fani quel 16
marzo? Chi ha sparato quei colpi col mitra, in modo preciso, colpendo
la scorta (visto che parte delle armi delle BR si incepparono)?
Cosa
ci faceva un colonnello del Sismi, legato a Gladio, quella mattina in
via Fani?
C’è poi il mistero della prigionia: l’ultima
commissione di inchiesta su Moro presieduta da Moroni ha fatto
eseguire diverse perizie sul cadavere, sul covo ufficiale in via
Montalcini e sul garage, dove Moro sarebbe stato ucciso..
Le perizie non
escludono né confermano, ma ritengono molto improbabile che Moro sia
stato tenuto fermo, in pochi metri quadrati, visto lo stato del suo
fisico. Come molto improbabile che il cadavere sia stato trasportato
in quella Renault R4 dalla periferia al centro di Roma, troppo
rischioso.
In tanti avevano interesse a bloccare Moro, la
sua scelta politica di un governo con la “non ostilità” della
sinistra. Ci sono stati interessi anche da parte del governo
americano? Al momento non ci sono prove, nemmeno il servizio di
Report arriva ad una conclusione. Non è complottismo però citare il
lavoro del consulente del Dipartimento di Stato americano Steve Pieczenik, che
nelle sue memorie spiega di essere stato mandato in Italia per
bloccare ogni trattativa per liberare Moro. Non è complottismo
ricordare le minacce ricevute da Moro nel suo viaggio negli Stati
Uniti.
Non è complottismo ricordare che con la sua morte, inizia il declino della prima Repubblica, si consolida il ruolo della P2 dentro la politica, l’economia e la stampa. Non è complottismo ricordare che l’attuale versione non spiega tutte le incongruenze.
I brigatisti italiani sono stati eterodiretti, soldatini nelle mani di un puparo che stava sopra di loro?
I rapporti tra Moretti e Hyperion, la scuola di lingue a Parigi che è considerata una camera di compensazione tra servizi segreti appartenenti a blocchi contrapposti, farebbero pensare a questo.
Rimangono i misteri,
i punti poco chiari, le parole di circostanza che verranno ripetute
anche oggi, e poi dall’altra parte l’insegnamento di Aldo Moro:
“quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla
detta: la verità è sempre illuminante. Siate indipendenti. ”.
Questi i nomi della scorta di Aldo Moro, spesso dimenticati nelle celebrazioni: il vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi, le guardie di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, il maresciallo maggiore dei carabinieri Oreste Leonardi e l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci.
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