La battaglia dei lavoratori dell’auto
Il viaggio nel mondo delle industrie, per capire qual è lo stato di salute, comincia a Detroit: qui la crisi ha colpito duro nel settore delle auto. Il maxi prestito di Obama salvò alcune aziende, come Chrisler, poi acquistata dalla Fiat di Marchionne.
Le aziende furono salvate, gli stipendi dei manager sono cresciuti ma non quelli degli operai: si è arrivati allo sciopero contro le big three (Ford, Stellantis e GM), con lo slogan “eat the rich”. Sei settimane di sciopero hanno portato ad un accordo storico: il sindacato e i lavoratori nei picchetti hanno ricevuto la solidarietà del presidente Biden, non di Trump, “a lui non interessa nulla dei lavoratori” risponde il segretario del sindacato UAW Shawn Fain.
Per gli operai non è mai tempo di chiedere aumenti di salari – si sente dire sempre così, anche in Italia: ma la battaglia del sindacato ha avuto ragione di questa sciocchezza, anche per le battaglie portate avanti contro gli scandali, contro un atteggiamento troppo amichevole con le aziende (voglio un sindacato grasso e docile diceva Marchionne). In Italia si direbbe un sindacato ideologico, ma è quello che serve per difendere i diritti e i salari, anche con scioperi pesanti che hanno causato perdite di profitti, stimati in 4,3 miliardi di dollari in quelle sei settimane.
L’aumento di salari è stato tra il 20 al 25%: sono soldi che consentono alle persone di poter vivere meglio, permettersi di pagare le bollette. Hanno ottenuto il ripristino del COLA, l’adeguamento degli stipendi con l’inflazione, benefici anche per i neo assunti.
Lo sciopero è stato vissuto con grande entusiasmo dai lavoratori, si sono sentiti uniti: hanno ricevuto il sostegno da parte di un fondo dello stesso UAW per mantenere le famiglie.
Anche la politica industriale di Biden ha fatto la sua parte: la sua amministrazione ha messo sul piatto un investimento da 750miliardi per la svolta green, investimenti in nuovi veicoli elettrici, purché prodotti in America. Così è stata supportata l’industria americana, anche con incentivi fino a 7500 dollari per veicoli elettrici e ibridi, tutto per mantenere la produzione negli Stati Uniti.
Stellantis voleva abbandonare lo stabilimento di Belvedere in Illinois: ma dopo le proteste dei lavoratori e del sindacato UAW hanno fatto cambiare idea a Tavares.
Mantenere aperte le fabbriche e aumentare i salari non ha mandato in bancarotta Stellantis né delle altre aziende: le aziende stanno cercando di risparmiare quei soldi con misure di efficientamento, che significa tagli ai posti di lavoro, anche se questo significa diminuire la sua forza lavoro.
È la solita avidità aziendale, i manager vogliono sempre più soldi nelle mani di poche – racconta a Presadiretta il segretario di UAW – che punta il dito contro le delocalizzazioni e che per questo propone un sindacato globale.
Stellantis in Italia
Il ministro Urso deve convincere Stellantis a rimanere in Italia e a mantenere gli stabilimenti aperti a Mirafiori, Pomigliano: il ministro vorrebbe puntare ad 1 milione di veicoli prodotti in Italia (oggi siamo a mezzo milione), ma senza la partenza di nuovi modelli è un obiettivo poco credibile.
Servirebbe un altro produttore di auto da fuori, ma l’AD di Stellantis ha già minacciato il governo italiano: c’è un braccio di ferro tra l’Italia e Stellantis che sta chiedendo incentivi e investimenti nelle infrastrutture.
I nuovi modelli di Stellantis, la topolino e la 600 elettrica saranno prodotti all’estero, mancano nuovi modelli prodotti in Italia.
Ad oggi gli unici investimenti di Stellantis su Mirafiori sono il Battery Technology Center dove si collaudano le batterie e l’hub per l’economia circolare, per il riciclo dei componenti. Torino non è più la capitale italiana dell’automotive: Edi Lazzi ha portato Presadiretta nella zona est di Torino, quella che era chiamata la Stalingrado italiana per la presenza di tante aziende nel settore dell’automotive, oggi però molte sono chiuse, per le delocalizzazioni di Stellantis.
Presadiretta
è andata poi a Grugliasco davanti a quello che, secondo le
intenzioni di Marchionne, doveva essere il polo del lusso, con la
produzione delle Maserati, su cui si doveva basare la rinascita della
Fiat Chrisler a Torino: oggi è tutto abbandonato, oltre le vetrine
si intravede una macchina, rimasta là dentro dopo tutti questi anni.
Si tratta del primo modello prodotto, con le firme degli operai: qui
una volta lavoravano 2500 operai, ma un giorno in Fiat hanno deciso
che questo fosse uno stabilimento di troppo, hanno trasferito le
poche produzioni rimaste a Mirafiori. “Abbiamo visto chiudere
centinaia di imprese” spiega a Presadiretta Edi Lazzi segretario
generale della Fiom Cgil di Torino “ne abbiamo quantificato almeno
370 nel solo settore metalmeccanico, persone che hanno perso il posto
di lavoro e che ancora oggi stanno facendo la cassa integrazione. E
sembra che questo film dell’orrore non si fermi..”
Lo
stabilimento della Maserati è stato messo in vendita da Stellantis
sul sito di immobiliare.it, come fosse un edificio qualsiasi e non
uno degli insediamenti industriali tra i più importanti
dell’automotive italiana.
Alla
Lear si producono sedili per le auto: i lavoratori sono oggi in
presidio perché temono la chiusura dello stabilimento. Qui non si
lavora proprio, come conseguenza di quello che sta facendo
Stellantis, che porta il lavoro fuori da Torino e così si riduce il
lavoro di tutto l’indotto. Fino a pochi anni fa non si trovava il
parcheggio davanti la Lear, oggi invece il piazzale è vuoto: le
persone davanti la fabbrica sono preoccupate, temono le
delocalizzazioni e anche l’atteggiamento del governo, che non si
rende conto della catastrofe.
I sedili della 500 elettrica sono
realizzati da una azienda turca, che ha abbassato i costi,
prendendosi la commessa.
Cosa si produce nell’hub dell’economia circolare inaugurato a fine dicembre del 2023 dove sono stati messi a lavorare 100 operai? Si recuperano pezzi, parti mobili, dei veicoli non marcianti – spiega a Presadiretta Alberto Pittarello operaio Stellantis – poi c’è il ripristino di veicoli marcianti con pochi km a cui viene data una rimessa a posto per essere rimesso in vendita.
Non era proprio la stessa mansione che aveva prima, quando lavorava per Maserati, dove montava le plance.
In
questo hub Alberto, che ha 50 anni, è il più giovane: ci sono tutte
persone che si apprestano ad arrivare alla pensione “a me
piacerebbe girarmi e vedere che c’è un giovane di 26 anni, che
subentra, giusto per avere lungimiranza, vuol dire che c’è un
progetto ..”
Invece accanto ad Alberto non c’è nessuno.
Alcuni
stabilimento producono più cassa integrazione che altro, come a
Mirafiori: l’azienda Stellantis oggi sta incentivando i suoi
dipendenti ad andarsene, –
racconta un altro operaio “l’azienda sta dicendo, noi ti aiutiamo
economicamente per uscire .. avessero investito gli stessi soldi che
stanno investendo per far andar via le persone probabilmente facevano
uno o due modelli nuovi.”
Tavares
sta spingendo i suoi fornitori a ridurre i costi, andando a portare
la produzione nei paesi a più bassi salari: si risparmia su tutto
nell’era Tavares, anche su affitti, riscaldamento. Meglio produrre
in India e in Asia, pur di avere costi inferiori: è una richiesta di
mercato – giustifica il presidente della Sila Pavesio – ma questo
significa produrre prodotti di qualità, rimanendo in Italia con la
ricerca.
Ma ci sono aziende che hanno seguito Stellantis, andando a spostare la produzione all’estero, come AD Microchannell Devices.
Da Torino a Pomigliano: qui si producono 2500 veicoli, tra cui la Panda. Ma Stellantis ha fatto sapere che la nuova panda elettrica sarà prodotta in Serbia, il presidente serbo ha dato l’annuncio di fianco alla presidente patriota Meloni.
Quali
prospettive rimangono per i 4200 operai di Pomigliano, a cui oggi
viene chiesto di lavorare su turni massacranti?
La panda
elettrica è fondamentale per mantenere l’occupazione in Italia:
spostare la produzione in Serbia è uno schiaffo ai lavoratori,
costretti a competere coi lavoratori serbi.
Presadiretta è andata a Kragujevac, città a circa 140 km da Belgrado dove ha incontrato Branko Vuckovic, giornalista locale, esperto di industria e automotive, che ha mostrato gli storici stabilimenti Zastava Fiat, oggi di proprietà di Stellantis. Ai tempi della Fiat nel parcheggio aziendale potevano stare solo le auto della Fiat e della Zastava, le auto di altri marchi dovevano sostare lontano e gli operai venire a piedi. Poi i capannoni costruiti per la Fiat 500, negli ultimi due anni la fabbrica è stata chiusa e hanno impiegato questo tempo per installare altre linee di produzione nello stabilimento. I lavori sono quasi pronti – racconta il giornalista serbo – e la produzione della nuova auto Fiat dovrebbe iniziare nel terzo trimestre di quest’anno. Al momento nella fabbrica ci sono 500 operai circa: solo loro che produrranno, secondo i piani di Stellantis, l’auto per tutte le tasche, la nuova Panda elettrica: “io parlo con la gente, sono sempre per strada, posso dirti che qui sono tutti molto felici che Stellantis abbia scelto Kragujevac per produrre il nuovo modello, perché l’auto elettrica rappresenta il futuro e questo porterà tanto lavoro per la città e per tutta la Serbia”.
Nel 1954 venne firmato il primo contratto tra gli Agnelli e la Zastava: l’amministrazione ha eretto un monumento alla Fiat, che ha poi salvato il marchio serbo quando stava per fallire. Lo stabilimento di Kragujevac ha comunque subito dei tagli, molti fornitori esterni hanno visto tagliarsi i contratti per la scelta di Stellantis di internalizzare la produzione di componenti.
Molti lavoratori di queste aziende, come la Adient, hanno così perso un lavoro: il processo di riduzione delle spese e di risparmio di Tavares non porterà nuovi posti di lavoro in Serbia, ad alcuni operai è stato proposto o di andare a lavorare all’estero, oppure di prendersi due anni di indennità.
Che accordo è stato firmato con Stellantis? Il governo serbo sta dando molti soldi a Stellantis per farla rimanere qui, come successo prima con Fiat: sono sovvenzioni per gli stipendi, infrastrutture, sconti al prezzo dell’energia.
Ma il punto centrale sono i salari bassi: sono 600 euro al mese per Stellantis, perché la Serbia rimane un paese a basso costo di lavoro (con cui noi italiani dovremmo fare concorrenza). Un paradiso per gli investitori, ma un inferno dei lavoratori, non si sopravvive con 600 euro al mese – raccontano a Presadiretta diversi sindacalisti intervistati.
Il contratto tra governo serbo e Stellantis è segreto: il giornalista Miletic racconta che in Serbia è normale che i cittadini siano tenuti all’oscuro di questi accordi, nascondendo quali siano i favori e i soldi dati a questa compagnia. Sta tutto nelle mani del presidente serbo: per ogni posto di lavoro il governo può sborsare fino a 130mila euro in dieci anni.
Di fatto, è il governo che paga i salari.
L’ex presidente Tadic ha firmato i primi accordi con la Fiat di Marchionne: all’epoca si pensava di attrarre investimenti tenendo bassi i salari.
Così oggi siamo arrivati ad una situazione che è prossima ad un ricatto: o tenete bassi i salari, o ci date incentivi, o noi ce ne andiamo.
Si chiama effetto della centralizzazione del capitale, come diceva Marx: i grandi produttori fanno la guerra ai piccoli, per eliminare la concorrenza.
Il professor Brancaccio ha spiegato a Presadiretta quali scenari potremmo avere: piegarci al liberismo o cambiare la politica europea di produzione, decidendo dove produrre e dove no, per ristrutturare il settore.
La guerra dei prezzi, già raccontata da Marchionne anni fa, farà fuori i piccoli produttori e in questa guerra ci troveremmo stritolati anche noi.
Nel frattempo in Italia continua la cassa integrazione e gli incentivi alle dimissioni.
4 giorni a settimana
Ma ci sono anche imprese che pensano che il loro successo sia legato anche al benessere dei loro dipendenti. Come Luxottica, simbolo del made in Italy: l’azienda fondata da Leonardo Del Vecchio, scomparso nel 2022, ha deciso di ridurre l’orario di lavoro, regalando del tempo ai propri dipendenti.
Quello della settimana corta, “time for you” è parte dell’accordo integrativo tra operai e azienda: i venerdì liberi saranno dedicati alla famiglia, negli altri giorni si potrà lavorare meglio perché più rilassati.
Si produrrà di meno? No perché si può organizzare il lavoro con anticipo, anche investendo con nuove assunzioni, magari di donne, perché la settimana corta favorisce anche la parità di occupazione.
Luxottica è stata la prima azienda a dare la mensa gratis, a dare rimborsi ai dipendenti, con borse di studio, con nuove forme di welfare: si può essere competitivi con meno ore di lavoro, con salari dignitosi.
Dopo Luxottica, Presadiretta è andata nello stabilimento di Lamborghini: qui non hanno aderito al jobs act e ora hanno puntato alla settimana corta.
Gli investimenti nella fabbrica consentono di recuperare le minori ore di lavoro: meno stress nella produzione, maggiore efficienza delle linee di produzione.
L’azienda da mezz’ora al giorno ai dipendenti, ha concesso lo smart working a tutti i dipendenti: qui è in corso una rivoluzione industriale, che una volta tanto non è ai danni di chi lavora.
Non si fa competizione al ribasso, spiega a Presadiretta il responsabile delle risorse umane: la settimana corta porterà ad un maggiore attaccamento al lavoro, una riduzione degli infortuni, maggiore efficienza.
Anche in Germania si sta sperimentando la settimana corta: lo chiedono i sindacati ad Amburgo nel settore metalmeccanico, ma anche in settori amministrativi.
In Spagna la settimana corta la sta portando avanti il governo: il ministro del lavoro parla di una rivoluzione del tempo, ridurre il lavoro a parità di salario.
Anche in Portogallo si sta portando avanti una sperimentazione, iniziata dal governo precedente, su aziende molto diverse.
Gli effetti sui dipendenti parlano chiaro: meno stress e maggiore soddisfazione, si cerca di far bene il lavoro con meno ore. Il tempo libero stimola la creatività, incentiva la formazione.
Non è una riforma né di destra né di sinistra – racconta l’economista portoghese Pedro Gomes a Presadiretta: la settimana corta è il futuro, ma la politica deve guidare il cambiamento, che non avverrà da solo.
La storia delle lavoratrici di La Perla
La battaglia delle lavoratrici del marchio La Perla è per tutti noi: sono due mesi che in pausa pranzo scendono in strada a far rumore, per attirare attenzione sulla loro situazione. Si parla di portar fuori la produzione, con tante incognite sul loro futuro: il fondo inglese Tennor ha comprato il marchio e lo scorso marzo è iniziato un tracollo della produzione, non ha mai fatto un piano industriale, ha aumentato l’indebitamento nei confronti dei fornitori.
La Perla è un marchio nato nel 1954, è un marchio noto per la qualità dei suoi prodotti.
Queste lavoratrici oggi provano un senso di rabbia per l’ingiustizia che stanno subendo, per come si sta distruggendo un patrimonio industriale e lavorativo.
Molte delle dipendenti non sono giovani e non sarà semplice per loro trovare un lavoro: per il fondo inglese le dipendenti sono numeri, non persone che devono pagare un mutuo.
Il fondo inglese ha ridotto i posti vendita de La Perla, causando problemi anche nelle aziende dell’indotto: nei magazzini della logistica giacciono capi invenduti che potrebbero ripianare i debiti dell’azienda. Ma il fondo inglese ha altre idee: l’obiettivo è ridurre al massimo le perdite, massimizzare i rendimenti finanziari. I fondi finanziari non sanno improvvisarsi in imprenditori, la finanza del fondo Tennor sta uccidendo il lavoro.
Così oggi, per le mancate tasse pagate dal fondo inglese, i beni de La Perla sono congelati, bloccandone il rilancio: servirebbe una regolamentazione europea sui fondi finanziari, che dia poteri ai lavoratori per difendersi da questi fondi che si comportano come predatori, distruggendo il lavoro.
Forse non mancano, come dicono i giornali, persone che vogliono lavorare in Italia, fare sacrifici. Mancano imprenditori in Italia, che vogliono mettersi in gioco, partendo dal know di queste lavoratrici che un mestiere lo conoscono bene e che oggi devono lottare senza uno stipendio.
Senza un lavoro con un salario dignitoso, le nostre città diventeranno solo per persone che vivono di rendita – racconta a Iacona la rappresentante sindacale.
Ecco cosa rischiamo in questo paese, non solo il deserto industriale, ma anche il deserto sociale.
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