Realtà o rappresentazione? Lo sapremo dopo la pubblicità
È una mattina di febbraio del 2001 e, come ogni altro giorno, milioni di televisori sono accesi su una delle trasmissioni più seguite dalle famiglie italiane. Si chiama Unomattina e fa compagnia a chi si prepara per andare a scuola o in ufficio, a chi resta a casa a fare lavori domestici, a chi fa la colazione in molti bar o salette negli alberghi.
Questa mattina in particolare, milioni di persone stanno guardando Luca Giurato e Paola Saluzzi mentre si abbracciano in studio, lo sguardo al pavimento e il tono di voce drammatico. Alle loro spalle, in collegamento video, c'è il volto serio in primo piano dello psichiatra Raffaele Morelli, ricercatissimo opinionista televisivo di quei tempi.
Siamo veramente sicuri di comprendere o, meglio, di conoscere veramente la realtà dentro cui viviamo?
Bombardati come siamo di informazioni, da tutte le fonti, compreso quel cellulare che ci portiamo sempre appresso, verrebbe da affermare certo che si.
Ma non è vero: Antonio Paolacci e Paola Ronco, due scrittori di gialli che fino ad oggi hanno raccontato il paese e la nostra società attraverso le storie del vicequestore Nigra, in questo saggio ci daranno tutti gli strumenti per comprendere la grande menzogna con cui i mezzi di informazione raccontano la cronaca nera in questo paese.
Stiamo parlando della narrazione dei casi di cronaca dove l'immigrato, di colore se possibile, viene fermato per spaccio, o dopo aver compiuto una violenza contro una donna o. in generale. dove le vittime sono gli elementi più deboli di questa società.
Stiamo parlando della distorsione di come noi cittadini percepiamo la realtà: un fenomeno in corso da molti anni, che si basa sul principio, mutuato dalle fiction, di una società in cui c’è una chiara divisione tra i buoni e i cattivi, noi e loro. Dove loro, i cattivi, l'uomo nero, le bestie senza morale, sono nate per compiere il male, è connaturato in loro.
In questa narrazione la cronaca nera è raccontata come una fiction, dove il male viene da fuori, dove l'omicidio non può essere commesso da uno come noi, brave persone. No l’assassino deve essere uno venuto da fuori, come le bande di albanesi tirate in causa dopo la strage familiare compiuta a Novi Ligure da Erika e Omar (senza dare i cognomi, come fossero due personaggi di una serie televisiva...) nel 2001 di cui si parla nell’incipit.
O come per il delitto di Erba, dove ad uccidere due anziane e un bambino di due anni non possono essere state quelle due persone. Deve essere stato un regolamento di conti all'interno del mondo dello spaccio.
In questo modello
non si cerca di raccontare i delitti in modo razionale, facendo leva
sulla nostra ragione: questo ci spingerebbe a chiederci il perché
del delitto, a interrogarci magari su cosa ha prodotto (all'interno
della società, della famiglia) quella rabbia, quel desiderio di
morte.
Magari mettendo in discussione questo modello di società
dove la forbice tra chi sta sopra e chi sta sotto si allarga,
l’ascensore sociale rimane bloccato agli ultimi piani.
Abbiamo alle spalle anni di televisione dove a risolvere delitti magari c'era il bravo maresciallo o il prete in bicicletta, hanno confuso i ruoli, portandoci a vedere il mondo secondo luoghi comuni inquinati da pregiudizi, dalla propaganda dei partiti xenofobi, da quell'istinto giustizialista che ci portiamo dentro senza che ce ne accorgiamo.
Così pensiamo anche noi di poter giudicare l'uomo in manette in base allo sguardo di fronte ai fotografi pronti a cogliere l’attimo, come se - lo raccontano bene i due scrittori - tutti gli innocenti di fronte alle manette si mettessero a piangere. Sto riferendomi al caso di EnzoTortora, raccontato dagli autori nei primi capitoli, come esempio sia di malagiustizia ma anche di linciaggio mediatico partito da come i giornali hanno raccontato questa storia.
La procura agisce senza la minima etica: ha messo in moto una macchina impressionante, ha redatto quasi quattromila pagine di relazione, eppure non ha verificato le accuse. Non ha controllato nemmeno quel numero di telefono che compariva su un’agendina sotto il nome Tortona
Grazie alla nostra memoria corta ci siamo dimenticati oggi del linciaggio mediatico di Tortora: “il mondo giornalistico, da parte sua, salvo pochissime eccezioni come Sciascia, è tutto colpevolista.”
Questo succede – raccontano i due autori - perché c’è una confusione di piani: se seguiamo sullo stesso mezzo, la televisione, sia le serie televisive (la fiction, dove i bravi sono i bravi e gli innocenti si mettono a piangere quando arrestati e non hanno lo sguardo glaciale come è stato scritto per Tortora) che l’informazione sui casi di cronaca, tenderemo a confondere i due mondi, a non accorgerci delle differenze tra la realtà e la finzione.
Applicheremo al mondo reale, quello dove vengono arrestate persone famose, dove si parla di delitti cruenti, le stesse regole della televisione: i buoni da una parte e il male che viene da fuori e che deve essere sconfitto per riportare l’ordine. Ovvero arrestando il colpevole e vissero tutti felici e contenti.
È grazie a questa confusione di ruoli, a questa informazione velenosa, che pensiamo di vivere in un mondo più pericoloso rispetto a venti-trenta anni fa, e tutto questo ha dei riflessi sulla nostra vita quotidiana (oltre che al momento del voto). Quando vediamo una persona di colore per strada pensiamo subito ad uno spacciatore perché non può esserci altro, perché gli abbiamo appiccicato subito l’etichetta addosso.
Invece, di fronte ad uno dei tanti casi di femminicidio dove il colpevole è un maschio bianco, si parla di raptus, di un gesto improvviso perché non è concepibile che un buon padre di famiglia possa uccidere la compagna di fronte ai figli oppure, come nel caso del delitto di Cogne, il proprio figlio. Devono essere state persone da fuori, le bande degli albanesi, oppure gli immigrati, i clandestini.
Nella realtà vera, i numeri dicono il contrario: una delle cose che ho apprezzato di più di questo libro è l’estrema onestà e chiarezza dei due autori, che non si nascondono dietro ad un dito nel raccontare la loro posizione, di persone di sinistra.
I dati riportati dagli autori parlano chiaro: in Italia ci sono meno omicidi ora che in passato e non è affatto vero che gli immigrati che arrivano qui da noi abbiano una attitudine a delinquere maggiore di noi. Lo dicono i numeri, mi dispiace per tutti i benpensanti.
Se nelle patrie galere ci sono molti immigrati è per colpa delle leggi che questa politica ha fatto, costringendo chi in Italia a rimanere sospeso in un limbo, magari a finire rinchiuso in quelli che molti definiscono dei lager, i CPR. E a diventare facile manovalanza per le mafie.
Perché grazie ai nostri pregiudizi e a questa narrazione tossica, noi (e i giornalisti nei talk, i politici che campano con la propaganda anti immigrati) vediamo l’uomo di colore e non i boss della ndrangheta che li sfruttano. Vediamo l’uomo di colore e non le imprese che li fanno lavorare “in nero” nei cantieri.
Diversamente da quanto succede nelle fiction, non esistono regole per riconoscere un criminale da uno sguardo, non esiste nessuna predisposizione genetica per il delitto. Pensiamo, sempre tenendo in testa il canovaccio delle fiction, che il male sarà sempre lontano da noi, i buoni. Non vediamo le persone messe ai margini, non vediamo l’emarginazione, che costringe molti a passare quel confine tra il lecito e l’illecito.
Anche le parole con cui descriviamo i casi di cronaca sono mutate: parliamo di ripulire i quartieri, quando si registrano (come a Caivano) episodi di violenza che ci colpiscono. Con che cosa però? Con maggior uso delle forze dell’ordine, per l’errata convinzione che il male, che non siamo noi ci mancherebbe, si debba combattere solo con la forza, non con servizi pubblici, scuole, presidi dello Stato.
Gli autori dedicano un capitolo a come vengono raccontate le donne in questi casi di omicidi: si usa il modello del “dead girl show”, il modello di Twin Peaks, dove la donna-vittima diventa un’icona impalpabile, che il buono deve vendicare, magari andando a sparare a quelli che considerano i responsabili della sua morte. È così che è stata in parte raccontata (e percepita da una buona parte degli italiani) la storia di Pamela Mastropietro. La cronaca ha raccontato tanto del suo assassino, di come l’ha uccisa e fatta a pezzi. Dimenticandosi degli altri due uomini che ne avevano approfittato.
Il vendicatore, come in un film western ha il volto di Luca Traini che dopo aver quasi ucciso sei persone, innocenti della morte di Pamela, si è costituito ai carabinieri.
Ma il mostro era l’uomo di colore: non importa che nei giorni precedenti e successivi altre donne siano state uccise, magari da uomini dalla pelle bianca.
Il giorno prima a Bellona, in provincia di Caserta, la guardia giurata quarantottenne Davide Mango, militante di Forza Nuova, dopo una lite uccide la moglie Anna Carusone
Quel delitto era funzionale alla propaganda della politica, ad un certo modo di fare informazione, che si ciba delle vittime senza preoccuparsi delle conseguenze.
L’importante è seguire il modello della “bella ragazza morta”.
Chi si ricorda ancora della strage di Firenze – avvenuta nel 2011, quando GianlucaCasseri militante di Casa Pound spara diversi colpi della pistola che deteneva ufficialmente, contro ambulanti nigeriani? Rimossa, perché non collimava col modello bianchi buoni, neri cattivi.
E chi si ricorda del G8 di Genova? Un altro capitolo è dedicato a come l’informazione ha raccontato le violenze da parte di polizia e carabinieri nel 2001 durante il G8 di Genova.
Perché, diversamente dalla realtà, anche nelle forze dell’ordine ci sono icattivi e spesso non sono poche mele marce. Non voglio dilungarmi, mi basta ricordare come ancora oggi Carlo Giuliani sia considerato (da molti, anche in Parlamento) un criminale, per aver cercato di lanciare a quattro metri di distanza un estintore vuoto contro un defender dei carabinieri. Il carabiniere si è solo difeso.
Scomparsi, perché stonavano col modello televisivo, le cariche contro i manifestanti per il G8 a Genova del 2001, il pestaggio del fotografo che stava fotografando il corpo di Giuliano, Paoni. Rimosse le prove false tirate fuori per giustificare il massacro alla Diaz.
Amnesty International definirà le azioni delle forze dell’ordine italiane in quei giorni “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”.
Ma non è solo rimozione di certi dettagli scomodi e che, certe cose non le abbiamo proprio volute vedere. Non abbiamo voluto vedere Cucchi, definito un drogato, come invece una persona con una sua dignità, picchiato in caserma da due carabinieri che solo grazie alla tenacia della sorella sono stati condannati.
Viviamo ancora in questa percezione errata del mondo reale: senza andare troppo lontano, due sabati fa degli studenti a Pisa sono stati manganellati perché avevano cercato di forzare un blocco per una manifestazione non autorizzata. Così è stato raccontato da parte della stampa e da parte del mondo politico. I buoni da una parte e i cattivi, gli studenti, dall’altra.
Studenti a cui è impedito di manifestare il dissenso, perché deve sempre trionfare il bene e l’ordine.
Viviamo “una cultura che smarrisce il senso della realtà ogni volta che fa leva sulle apparenze, una cultura che riduce le persone sempre e in ogni caso a etichette facili”: eppure le persone non sono solo personaggi di un film inventato, sono persone vere, con una storia e una vita che va oltre le etichette che tendiamo ad appiccare addosso.
La ragazza che se l’è cercata.
Il marito che uccide per un raptus.
Cosa si può fare allora? Smetterla di seguire la cronaca limitandosi a questa narrazione, che racconta sempre il dopo, ma iniziare a vedere le persone immaginandosele nel prima. Cosa li ha portati a fare quel gesto? Cosa è successo loro?
Pensateci, è il modello dentro i libri noir, dove non c’è quella linea di demarcazione chiara tra buoni e cattivi. Come ha scritto Carlotto, citato più volte in questo libro, “molte volte il noir è arrivato a fare inchiesta più e meglio del giornalismo”.
Un giornalismo che appiattisce i personaggi, polarizza l’opinione pubblica, non aiuta a comprendere. La comprensione, lo sguardo sulle persone e sul mondo, l’empatia, sono la chiave per detossificarci da questa cattiva narrazione dei crimini:
Per interiorizzare davvero l’idea che ogni omicidio sia esecrabile sempre e comunque, serve una capacità specifica: occorre essere in grado di immedesimarsi in primo luogo nelle vittime.
La scheda del libro sul sito di Effequ
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