Accelerare la conversione green per
uscire dalla crisi, per far ripartire l'economia, per migliorare la
qualità della nostra vita.
Non è un'utopia ma una conversione che
dobbiamo fare: dobbiamo abbandonare la cultura e l'economia basate
sul fossile, non abbiamo più tanto tempo a disposizione.
Vista dallo spazio, la terra racconta
lo stato della sua salute: l'astronauta Luca Parmitano ha
raccontato degli uragani, scoppiati sui Caraibi, le foreste bruciare
in Amazzonia e in Africa. Nell'emisfero australe la diminuzione dei
ghiacciai. Ai governanti della terra Parmitano ha
detto che siamo noi l'anello debole, siamo noi le prime vittime
dell'emergenza climatica, anche se gli effetti non sono a breve e per
questo non ci spaventano, come l'emergenza sanitaria.
Eppure nel mondo ogni anno gli
incidenti si susseguono con troppa frequenza: come la fuoriuscita di
petrolio in un fiume in Siberia, diventato rosso.
In questa regione a causa dell'innalzamento delle temperature, il permafrost si sta
scongelando mettendo a rischio le strutture costruite, come le
strutture dell'industria energetica.
Se si sciogliesse il permafrost avremmo
degli impatti forti sul pianeta: lo racconta il professor Vineis
– siccome non abbiamo rispettato la convenzione di Parigi siamo
oggi in ritardo. Dovremo cambiare abitudini negli
spostamenti – una delle politiche di cobenefici – per ridurre la
co2 nell'atmosfera e ottenere vantaggi anche per la propria salute.
E' l'effetto dell'uomo sul pianeta che
ci mette a rischio, spiega il professore.
Un monito condiviso anche dal papa:
“credevamo di rimanere sani in un pianeta non sano”.
Una frase che è piaciuta allo
scienziato Stefano Mancuso: il problema dei cambiamenti climatici è
il problema, stiamo distruggendo il nostro ambiente, senza rendercene
conto.
Questo ha avuto anche un effetto sulla
pandemia: nelle zone col più alto inquinamento ci sono state più
vittime per il coronavirus, solo un caso? E tutti i casi di spillover
non ci dicono che stiamo mettendo a rischio l'equilibrio della
natura?
Inquinamento e pandemia
Il virus dalla
Cina è arrivato anche in Europa e poi in tutto il mondo: molti
scienziati si stanno chiedendo se ci siano correlazioni tra
inquinamento e diffusione del virus.
Un dubbio che era
già emerso con la Sars e con altre infezioni, come il morbillo: i
casi di queste malattie sono legati con la concentrazione del pm10,
ed è già dimostrato che lo smog aggrava i sintomi delle malattie
respiratorie.
L'inquinamento
dell'aria è causa di 7 milioni di morti l'anno, dice uno studio
dell'Oms e l'esposizione al particolato porta ad un aumento della
mortalità in America del 7% riporta uno studio dell'università di
Harvard.
In alcune zone
degli Stati Uniti un aumento della concentrazione del particolato
porta dirette conseguenze con la probabilità di morire per
coronavirus, è come buttare benzina sul fuoco.
Questa ricerca è
stata apprezzata dai senatori democratici ed odiata da quelli
repubblicani: la politica ambientale non è nell'agenda
dell'amministrazione Trump.
Studi come questi
si stanno moltiplicando nel mondo, in Inghilterra e in Italia: da noi
hanno partecipato le università di Milano e Torino.
Lo studio è in
aggiornamento: l'inquinamento ha una correlazione coi morti,
questo il risultato a cui sono arrivati studiando i dati provincia
per provincia. Il virus è più letale dove l'aria è inquinata:
perché le persone sono più vulnerabili o forse perché il virus si
muove meglio.
Lo ha raccontato
il professor Becchetti di Tor Vergata: ci sono migliaia di
morti di differenza tra zone inquinate o meno.
Un altro studio
della società di medicina ambientale ha cercato di verificare
se il virus si può legare al pm10: sono state campionate zone a
Milano e a Brescia, e il virus era presente, non sappiamo se era in
condizioni di aggressività, se era potenzialmente pericoloso.
Nel particolato
atmosferico c'era il virus, non sappiamo se fosse vivo o no: si
deve capire ora se nel particolato il virus può muoversi.
Il virus non si
muove solo con le goccioline più grosse, ma sopravvive anche con
quelle piccole, i cosiddetti aerosol.
Quanto tempo
rimane nell'aria e quanto si muove, come distanza, dipende da diversi
fattori: se si è all'interno o all'aperto, dalla qualità dell'aria.
Sono informazioni che tornano utili per
questo inverno, quando le persone potrebbero tornare ad affollare le
stazioni nelle metropolitana, quando la qualità dell'aria nelle
città della pianura Padana tornerà ai livelli di inquinamento del
passato.
Dobbiamo ripulire la qualità dell'aria
delle nostre città: cambiare la mobilità, cambiare il
riscaldamento, togliere i furgoncini euro 0 ed euro 1, cambiare il
modello dei pendolari che si muovono per andare sul luogo del lavoro.
Serviva una pandemia per renderci conto
di questo? “Andare sbattere contro il nostro
limite ci fa vedere le cose secondo una nuova prospettiva”,
spiega il professor Becchetti.
Ma traffico incide per il 10%, c'è anche il riscaldamento che incide per il 30-40% e in pianura c'è poi il
problema dei grandi allevamenti che si stima che sia il secondo fattore.
Nelle città industriali ci sono anche
le emissioni delle industrie, dove il particolato si mescola con
sostanze nocive come il cadmio: serve una rivoluzione verde, cambiare
modello energetico, liberarci dalla dipendenza dalle energie fossili.
Primo ospite in studio Fabrizio
Bianchi, epidemiologo del CNR: ha raccontato degli studi di
correlazione, sui dati di province o aggregati geografici e sulle
condizioni di inquinamento. Tutti gli studi ci dicono che esiste una
correlazione, per andare oltre serve coinvolgere i virologi, gli
epidemiologi, oltre agli statistici. Si deve sapere cosa ha fatto
l'uomo, con chi o cosa è stato in contatto: questi studi sono fatti
dal CNR, dall'Ispra.
Ripulire l'aria va fatto anche a
prescindere dal Covid: la cattiva qualità della nostra aria causa
migliaia di morti, ma sono morti nascoste perché cambiare abitudini
su trasporto, riscaldamento tocca al cuore interessi economici e
politici importanti.
Entro il 2025 dobbiamo dismettere le
centrali a Carbone, come quella di Vado Ligure che ha inquinato un
intera fascia di popolazione causando tumori e malattie cardio
vascolari a causa delle sue emissioni. Ma chiuderle non è così semplice, né
in Italia e nemmeno in Europa.
La situazione della Sardegna.
Per due terzi il fabbisogno energetico
è dipendente da due centrali a carbone, eppure
questa regione è ricca di sole e di vento, di energia pulita e
rinnovabile: potrebbe essere la prima regione in Europa libera dai
combustibili e dalle raffinerie, creando posti di lavoro e portando
benefici per tutti.
Sono due le
centrali ancora in funzione nell'isola, a Fiumesanto a Porto Torres
di un privato e la centrale Grazia Deledda del Sulcis dell'Enel.
Quest'ultimo è uno degli impianti meno efficienti d'Italia con oltre
1 milione di tonnellate di co2 emesse nell'aria nell'anno. Erano state create
per i grandi centri industriali, oggi chiusi: le centrali scaricavano
veleni nell'aria e nell'acqua.
445mila ettari di
terreni sono inquinati e aspettano ancora oggi di essere bonificati:
terreni che non possono essere coltivati, non ci si può vivere.
Secondo gli accordi
di Parigi e secondo il nostro piano energetico, dovranno essere
entrambe chiuse entro il 2025.
Enel si dice
possibilista per la chiusura: di deve però trovare una alternativa
al carbone (per Euroallumina e Alcoa stanno ripartendo), visto che
sull'isola il metano non c'è.
Come alternativa
c'è quella di Terna che ha progettato un cavo sottomarino dove
dovrebbe passare l'energia elettrica, che però potrebbe finire nel
2028.
L'altra alternativa
è il metano, che arriverebbe dal nord con una pipeline lunga 500 km:
ma il metano non è una energia rinnovabile e il progetto costa 1.4
miliardi per una infrastruttura che alla fine della riconversione
andrebbe abbandonata.
Il metadonodotto
non raggiungerebbe nemmeno tutta la Sardegna: 70 comuni su 370
soltanto.
C'è poi un terzo
progetto: creare piccoli depositi costieri e portare il metano solo
nelle zone industriali laddove serve.
Enel sta chiudendo
impianti a Carbone a Brindisi e a La Spezia: ma ancora non è stato
scelto niente per la Sardegna e il 2025 è vicino, c'è il rischio
che dire addio al carbone in Sardegna possa essere impossibile.
Perché non
passare direttamente alle energie rinnovabili?
E' la scelta di
Italia Nostra Sardegna, togliere di mezzo le fonti non rinnovabili e
puntare su un modello di produttori e consumatori di energie.
C'è
uno studio del Politecnico di Milano sulla decarbonizzazione dove
si sostiene che il salto dal fossile al rinnovabile si possa fare
senza passare per il metano.
Le risorse per
questa transizione potrebbero arrivare dai fondi europei, il recovery
fund: i soldi ci sono, la tecnologia è matura, a Porto Torres Eni ha
costruito un parco di pannelli fotovoltaici che producono 50GW/H che
sono usate per le sue industrie sull'isola.
A Porto Torres Eni
sta piazzando i pannelli sui tetti delle case, per un progetto che
coinvolge anche il comune che si chiama “reddito energetico”: con
questo è stata evitata l'emissione di diverse tonnellate di co2
nell'aria.
In questi anni la
Sardegna è piena di pannelli solari e pale eoliche, un terzo
dell'energia arriva da queste tecnologie: qui sono nate le comunità
energetiche indipendenti, paesi collegati con reti intelligenti di
energia, o smart grid.
Questa è una
occasione che non può essere persa, la Sardegna potrebbe diventare
il laboratorio dell'Italia per la trasformazione verde della nostra
industria energetica, il recovery fund è l'occasione del secolo, per
cambiare i cambiamenti del clima, per creare posti di lavoro, per
dare una spinta all'economia.
Il centro euro
Mediterraneo per i cambiamenti climatici ha fatto uno studio
sugli effetti di questi cambiamenti in Italia: se la temperatura sale
più di due gradi, ci sarà una contrazione del PIL dell'8%.
Ma lo studio, a cui
ha partecipato anche la professoressa Spano, parla anche degli
effetti positivi della svolta green tra cui anche la riduzione delle
disuguaglianze sociali.
Il green new
deal
Il professore
Giovannini ha lavorato nel piano Colao ed un sostenitore sulla
svolta verde in Italia: una svolta verde che poteva avere impulso dal
piano voluto dall'Europa, il green new deal. Ma in Europa ci sono
molti oppositori, come la Polonia la cui economia dipende dal
carbone.
Così ha ottenuto
dei fondi per la dismissione di queste centrali, dismissione che poi
non è partito per l'arrivo del coronavirus. I soldi per
l'Europa sono stati spostati dall'ambiente all'economia, senza
distinzione tra fonti rinnovabili o meno.
Ma ora il
presidente Ursula Von der Leyen ha rilanciato nuovamente il piano, ma
dovremo saper cogliere l'occasione.
Sul next generationUE ha puntato decisamente sia la commissione europea che il consiglio
europeo: il loro orientamento, per i fondi, è puntare sulla
digitalizzazione, riconversione verde, sulla resilienza, perché sono
consapevoli che i cambiamenti climatici non hanno un vaccino, non
esiste un piano B se distruggiamo l'ambiente e questo potrebbe essere
causa di crisi sociali di cui tener conto (le emigrazioni dal sud del
mondo al nord).
Enrico Giovannini
ha raccontato cosa potremmo fare ora in attesa di questi soldi: usare
gli incentivi già oggi per energie rinnovabili e non per le auto
diesel.
Il decreto
semplificazione avrebbe potuto semplificare le procedure per la
trasformazione verde, nei trasporti, nell'edilizia, per progetti che
si possono fare subito.
Ambiente ed
economia non si devono mettere in contrapposizione: le aziende che
hanno scelto la sostenibilità sono ripartite più in fretta.
Silvia Bacci ha
intervistato il direttore generale di Eni, Mondazzi: il loro
obiettivo è arrivare al 50% nel 2030 di energia rinnovabile,
diminuendo investimenti in quelle tradizionali.
Ancora oggi si
investe in petrolio e gas, più sul secondo che ha un impatto
inferiore sulle emissioni.
Quando si smetterà
col petrolio, con le trivellazioni, con le esplorazioni? Il picco ci
sarà nel 2025, poi si punterà sul gas. La fine del
petrolio ormai è data per certa, anche da Eni: ma bisognerà
aspettare ancora troppi anni.
Le aziende che
sono già green
Ci sono aziende che
non hanno aspettato le scadenze dell'Europa, senza aspettare la
politica: 500 aziende chiedono all'Italia un suo green deal, che
assicurerebbe una ripartenza verde. Tra queste Novamont, tra
le prime per energie sostenibili e rinnovabili.
Novamont ha
creato una sua filiera sulla plastica, con un suo brevetto di bio
plastica: anziché petrolio si usano zuccheri come quello del mais e
dalla barbabietola, da cellulose di scarto (come i pannolini) e poi
gli zuccheri alimentano le tecnologie per arrivare alla bioplastica,
il Mater B.
La bioeconomia
circolare si può fare in tanti settori, sono infinite le possibilità
che abbiamo: questa azienda chiede alla politica delle scelte decise,
perché “questa pandemia ci ha fatto toccare con mano quello che
stiamo facendo al pianeta”.
Ripensare le
città
Londra ha chiuso
intere zone alle auto, Parigi ha chiuso strade trafficate che
oggi sono ciclabili.
Entro il 2024 il
100% delle strade di Parigi sarà ciclabile spiega la sindaca
Hidalgo, appena rieletta: una scelta coraggiosa quella della mobilità
sostenibile, perché si sono costruite piste ciclabili per invogliare
un cambiamento nelle persone poi.
Stessa situazione
in Olanda ad Amsterdam, una delle città più ciclabili: sarà
la prima capitale europea ad emissioni zero, qui hanno investito in
autobus elettrici, poi le auto aziendali.
Qui da una parte si
scoraggia l'uso delle auto tradizionali, un parcheggio in centro
costa 7 euro l'ora, dall'altra si danno ai cittadini infrastrutture
per muoversi in bici.
Serve una volontà
politica e piccoli obiettivi da raggiungere anno dopo anno.
In Italia
situazioni analoghe si trovano a Bolzano, Ferrara e Pesaro: in
quest'ultima città si parla di bicipolitana, per collegare la città
con le periferie.
E a Roma?
Sono stati
annunciati 150km di piste ciclabili, una scelta importante in una
città come Roma dove circolano troppe auto.
Ma le poche piste
non sono in sicurezza, che qualche auto le occupi. I 150km non sono
tutti finanziati: tutte diventeranno definitive, racconta il
consigliere Stefano, sono serviti tempi lunghi per problemi
burocratici, per esempio per gli appalti.
A Roma c'è un
progetto che si chiama GRAB, un raccordo ciclabile attorno Roma: dopo
due anni il progetto esecutivo, già finanziato, non c'è.
E ora bisognerà
attendere altri 18 mesi: del GRAB ne parla Sebastiano Venneri di
Legambiente: ha portato il
giornalista lungo il percorso del GRAB (il grande raccordo delle
biciclette) che parte dall'Arco di Costantino, al Colosseo fino alle
Terme di Caracalla, la più grande area pedonale archeologica al
mondo che oggi è invece solo una strada per le auto, in pieno centro
di Roma.
Oggi l'area pedonale è solo sulla
carta: sull'Appia Antica, una strada di 2300 anni, una strada
antica, è oggi usata dalle auto, rendendo la vita difficile alle
bici.
Il Grab consente di vivere la città in
modo nuovo, consentendo di visitare luoghi storicamente importanti,
come la chiesa del Quo Vadis.
Dopo aver passato il centro il GRAB
sbuca a est in periferia raggiungendo quartieri densamente popolati,
come il Collatino: la pista ciclabile sarebbe una alternativa per gli
spostamenti e consentirebbe a questi quartieri di essere ripensati.
A compensazione dell'alta velocità che
passa qui vicino, coi sei milioni anziché un parco è stata fatta
una colata di cemento, un parcheggio inutilizzato, negli anni novanta
doveva diventare il Central Park di Roma. Il Grab passerebbe vicino ai piloni
della A24, l'autostrada Roma – l'Aquila, altra zona che verrebbe
riqualificata.
Ultimo quartiere visitato è il
Quadraro, famoso per la sua storia di resistenza antifascista.
Il Grab è un sogno, ma è anche
un'opera già finanziata per 14,7 milioni.
L'obiezione che si fa di solito è che
Roma (ma anche Milano) non è una città per le bici:
“Questa è una stupidaggine, anche
Amsterdam o Copenaghen non sono nate come città per le bici, le
e-bike che sono la vera rivoluzione anche dal punto di vista della
ciclabilità, tutta la mobilità elettrica ha eliminato qualsiasi
alibi. Non c'è colle che tenga.”
Realizzare una vera pista ciclabile costa meno di una metropolitana o
di una linea di bus: oggi quando si parla di mobilità si sente dire
modello Genova, autostrade, ma non è questo il futuro.
Milano ha costruito km di reti ciclabili, ma manca un'infrastruttura
comune: qui ci sono 500 auto si 1000 abitanti, la città dovrebbe
pagare i cittadini per smettere di usare l'auto, non spendere soldi
pubblici per auto che inquinano: lo dice Anna Gerometta
dell'associazione di cittadini per l'aria.
La sua associazione monitora la qualità dell'aria a Milano: hanno
scritto una lettera a Sala per far sì che si chiudesse la città il
più possibile alle auto.
Presa diretta ha incontrato Stefano
Mancuso, lo scienziato italiano che ha ideato un nuovo modello di
città con soluzioni naturali, per una città verde, la città
foresta. Le sue idee hanno trovato applicazione a Firenze e a Prato,
dove stanno realizzando un progetto di forestazione delle città,
assieme all'architetto Boeri:
“abbiamo un modello di città come
qualcosa di separato dalla natura, ma questa è una soluzione
primitiva, noi non abbiamo più bisogno di proteggerci dalla natura,
anzi, dobbiamo rientrare a far parte della natura. Non c'è nessun
motivo per cui le nostre città siano completamente edificate,
cementificate, asfaltate.
Le piante in città sono l'anidride
carbonica, abbattono gli inquinanti.
[..]
Dobbiamo costruire città che
rispondono ai principi della vita vegetale, quindi delle città che
siano autonome energeticamente, che non producono rifiuti, che
consumino pochissime risorse.
Noi viviamo in
un ambiente che è malato, non abbiamo un aria respirabile, una delle
brevi e momentanee conseguenze del lockdown è stato che la sera
quando ci affacciavamo dalla finestra sentivamo un'aria che non
avevamo mai respirato. Quell'aria lì dovrebbe diventare la normalità
nei nostri centri urbani. La questione che colpisce è che basterebbe
poco, rispetto ai soldi da mettere in campo per riparare ai danni,
prevenire da questo punto di vista è assolutamente irrilevante in
termini economici. Ma noi abbiamo una storia di interventi fatti post
disastro.”
La
puntata si è chiusa con l'intervista a
Jeremy Rifkin economista e sociologo americano, sul
tema delle energie rinnovabili (eolico, solare) che in questi ultimi
25 anni hanno un forte impulso e che oggi costano sempre di meno.
“Negli anni 70 un watt di energia
solare costava 78 dollari, oggi ne costa 35-40 centesimi. In Europa
grandi società di servizi di energia stanno acquistando energia
elettrica a 4 o perfino 2 centesimi per Kw/ora. Al contrario tutti
gli investimenti che si continuano a fare sui combustibili fossili
sono oggi degli asset non recuperabili. Una grande banca mondiale ha
calcolato che siamo seduto su 100 trilioni di dollari di beni
irrecuperabili dell'industria del combustibili fossili. E' la più
grande bolla economica della storia, perché oggi sole e vento sono
più convenienti del fossile.
Tutti i diritti all'esplorazione che
le società dei combustibili fossili hanno già acquistato non
verranno mai ammortizzati. Tutto il petrolio e il gas trovati non
verranno mai estratti perché sarà troppo costoso farlo. Le pipeline
che portano gas e petrolio diventeranno inutilizzabili. Non avremo
più nemmeno bisogno di tutte le raffinerie petrolchimiche. Non c'è
nessun motivo oggi per rimanere con una infrastruttura morente, che
non darà alcuna possibilità di investimento, di business e di
lavoro.
Siamo seduti su
un crollo di proporzioni gigantesche che avverrà entro otto anni e
la pandemia potrà solo accelerare il processo, perché il mondo
consuma 96 milioni di barili di petrolio al giorno e i due terzi
servono per il trasporto. Ma adesso è finita: durante la pandemia
per lunghi periodo non abbiamo usato i trasporti e il prezzo del
petrolio è crollato 12 dollari al barile. L'industria del petrolio
sta perdendo milioni di dollari ed è nel mezzo di un collasso, fra
tre anni le auto elettriche saranno competitive con quelle
tradizionali e tra cinque anni costeranno meno. Stiamo vedendo in
tempo reale le ultime fasi della civiltà dei combustibili fossili
che ha dominato gli ultimi 200 anni”
Siamo alla genesi
di una nuova rivoluzione industriale, con una rete elettrica verde,
con una mobilità elettrica alimentata dall'energia verde.
E' tutto possibile,
non ci sono limiti, è una nuova industria più orizzontale su cui
stanno puntando gli occhi anche molti investitori.
Serve solo la
volontà politica.