Il primo capitolo (Facciamoci uno staterello) del libro "Quando la Sicilia fece la guerra all'Italia", di Alfio Caruso (Longanesi editore):
Nell’inverno
del ‘42 continuano a chiamarlo l’Espresso, benché il tempo di
percorrenza da Roma a Palermo sfori abbondantemente le undici ore
previste dall’orario ferroviario. Non sono ancora cominciati i
devastanti bombardamenti aerei, tuttavia per accumulare i ritardi
bastano le precedenze alle tradotte militari e ai treni merci,
gl’improvvisi rallentamenti addebitati a misteriose emergenze.
Andrea Finocchiaro Aprile vi sale per sfuggire al controllo sempre
più stretto dell’Ovra (Opera volontaria per la repressione
dell’antifascismo), che non era, come spesso viene detto, la
polizia segreta del regime, bensì una branca della stessa polizia
con indennità economiche speciali e dove per essere ammessi
bisognava essere convinti sostenitori del fascismo. A Finocchiaro
Aprile hanno perquisito casa, sequestrata la fitta corrispondenza,
chiesto conto e ragione delle ricorrenti visite, effettuate fino
all’aprile del ‘40, all’ambasciata britannica. Anche l’antica
e collaudata amicizia con Carmine Senise, l’abile capo della
polizia, che tra poco più di un anno transiterà senza problemi da
Mussolini a Badoglio, non è parsa bastevole a garantire una
rassicurante immunità. Il viaggio nella natia Sicilia è stato
considerato il mezzo più immediato per sottrarsi a ulteriori
seccature. E poi c’è da mettere in atto il piano che potrebbe
cambiare la Storia e appagare le smisurate ambizioni dell’austero,
impettito sessantatreenne dalla lucente capigliatura corvina con
perfetta riga laterale.
Finocchiaro
Aprile è nato nel 1878 a Lercara Friddi, lo stesso paese di Charles
Luciano. Il padre Camillo, volontario a sedici anni con Garibaldi a
Mentana, aveva già avviato una profittevole carriera da avvocato e
ancor più da politico. Sospinto dalla massoneria, si è intruppato
nel correntone di Crispi: in una felice, per lui, progressione è
stato assessore comunale, deputato, ministro di Grazia e Giustizia
nel governo Fortis, autore, nel 1914, del nuovo codice di procedura
penale. Andrea ha seguito le orme paterne. Si è laureato a Roma, ha
esercitato la professione, insegnato storia del diritto a Ferrara e a
Siena. A trentacinque anni è stato eletto in Parlamento nella
circoscrizione di Corleone già all’epoca definita la «Cassazione
della Mafia». Sottosegretario con Giolitti e Nitti, le sue
aspirazioni sono state azzerate dall’ascesa di Mussolini. Fino al
1924 ha tenuto un atteggiamento vagamente critico. In un comizio a
Termini Imerese ha definito il fascismo espressione del capitalismo
settentrionale ostile alla Sicilia, ha imputato al duce una scarsa
attenzione ai problemi dell’isola e dei suoi abitanti. Dietro le
quinte si è però offerto quale risolutivo intermediario tra il
regime e i siciliani.
L’inesorabile
progressione della dittatura ha consigliato a Finocchiaro Aprile di
passare dalle imputazioni alle suppliche, tuttavia le orecchie di
Mussolini hanno finto di non sentire. Nemmeno l’esclusione dalle
liste dei futuri senatori ha alterato «la profonda devozione nei
confronti del duce». Ma questi ha pure respinto la richiesta di
un’acconcia sistemazione nella burocrazia statale. Nel novembre
’39, malgrado il plauso di Finocchiaro Aprile a nome dei comuni
siciliani di ascendenza albanese per l’occupazione della medesima
Albania, Mussolini gli ha addirittura preferito un ebreo, Giuseppe
Dall’Oro, alla direzione generale del Banco di Sicilia. In tale
circostanza Finocchiaro Aprile ha messo da parte le maniere forbite,
si è affidato a una ributtante delazione, condita da stomachevole
servilismo: «Per il caso che il governo fascista, in attuazione
delle provvide norme sulla difesa della razza, credesse di dovere
dispensare dal servizio l’attuale direttore generale del Banco di
Sicilia, Giuseppe Dell’Oro, mi permetto di rinnovarvi la mia
preghiera di assegnarmi il detto ufficio. E’ noto al Ministero
delle Finanze, ed io stesso ebbi a informarvene, che nei primi del
1920 ebbi dal ministero Luzzatti l’offerta di quell’ufficio,
ch’io però credetti di declinare per ragioni d’ incompatibilità
parlamentare… Dal 1925, dopo l’uccisione di Matteotti per la
quale si inscenò la vergognosa speculazione delle opposizioni contro
il fascismo, non ho tralasciato occasione di dichiararvi, eccellenza,
la mia illimitata devozione…». Senz’alcuna vergogna il presunto
antifascista ha aggiunto che gli unici meriti di Dell’Oro
consistevano nell’essere correligionario dell’ex ministro delle
Finanze Jung e questi l’aveva scelto benché fosse un milanese. Dal
che si deduce che Jung, discendente da un prestigioso casato
palermitano, non nutrisse alcuna stima ni confronti del rancoroso
compaesano, con cui, tra l’altro, si conoscevano da bambini.
Lo
sprezzante silenzio di Mussolini ha obbligato Finocchiaro Aprile a
entrare nelle file degli attendisti, a prepararsi per il dopo.
L’antica adesione alla massoneria, paradossalmente in una loggia
anti regionalista, ha favorito gli stretti rapporti con sir James
Rennel ascoltato rappresentante dell’obbedienza di rito scozzese
ruotanti attorno alla corte di San Giacomo. I due si erano annusati e
piaciuti al tempo della prima guerra mondiale allorché lord Rennel
era l’ambasciatore della Gran Bretagna a Roma. Finocchiaro Aprile è
diventato un habitué della sua residenza di Shamley Green, nel
Surrey. Vi ha conosciuto anche il figlio, Francis Rennel of Rodd, fra
gli emergenti del partito conservatore. Nei mesi caotici tra il
vertice di Monaco e l’invasione tedesca della Polonia, fra
l’instabile neutralità dell’Italia e le manovre guerrafondaie di
Hitler, Finocchiaro Aprile ha stabilito che si avvicinava la sua ora.
Dimentico di quindici anni di salamelecchi a Mussolini, ha cercato di
attirare l’attenzione dei prossimi nemici dell’Italia. Ha bussato
in Vaticano per trovare una sponda in America, ha ispessito le visite
a Shamley Green. In testa gli frullava già il progetto di staccare
la Sicilia dal resto del Paese e riteneva che per riuscirvi fossero
indispensabili due condizioni: la sconfitta militare del fascismo,
l’appoggio di Stati Uniti e Inghilterra.
Nel
gennaio del ‘40 Finocchiaro Aprile ha raggiunto per l’ultima
volta Shamley Green. Sir James è stato un accanito sostenitore di
Mussolini nel Parlamento britannico, ma la guerra con la Germania ha
imposto di aggiustare simpatie e antipatie. L’inesorabile
avvicinamento dell’Italia al Terzo Reich ha spinto gl’inglesi a
guardarsi intorno, a cercare sostenitori. I possibili nemici dei loro
nemici sono stati considerati amici preziosi, figurarsi poi se
abitavano in casa dei nemici. Finocchiaro Aprile è diventato uno di
questi, benché mantenesse un ruolo defilato e non accettasse di
sporcarsi le mani in operazioni di spionaggio o di sabotaggio. Il suo
attivismo ha comunque insospettito i custodi dell’ordine pubblico,
eppure la trasferta siciliana, in quei primi mesi del ‘42 non
suscita alcuna curiosità in coloro che si dovrebbero occupare della
sicurezza nazionale.
La
Sicilia che accoglie Finocchiaro Aprile è attraversata dal
malcontento. Il fascismo è stato vissuto come un movimento del Nord;
l’isola non ha espresso gerarchi di rango; le grandi opere non
l’hanno toccata. I siciliani hanno dovuto leggere sui giornali dei
milioni e milioni investiti nell’Agro Pontino e nelle lontane
colonie africane, mentre nessuno si è curato delle loro strade, dei
loro acquedotti. L’opposizione, tuttavia, si è limitata a velenosi
bisbigli dentro sale appartate. Un po’ di propaganda l’hanno
svolta il «Movimento del soldino» a Messina, il «Fronte unitario
antifascista italiano» e il «Movimento autonomista siciliano»
nella parte occidentale dell’isola. Anche la mafia ha preso a
mostrare il viso dell’arme. Gli strombazzati processi, che hanno
fatto il solletico a Cosa Nostra, hanno comunque indotto molti
capibastone a uno sdegnato isolamento, a ritenere il fascismo e
Mussolini inaffidabili. Il duce ha sempre avuto un rapporto
complicato con Sicilia sin dal primo viaggio, nel maggio 1924. Dentro
il nutrito programma delle accoglienze entusiastiche predisposte dal
numero uno del partito, l’onorevole e oculista Alfredo Cucco,
avevano inserito pure una visita a Piana degli Albanesi. Lo dominava
da sindaco un influente boss, don Ciccio Cuccia. Nel farsi incontro a
Mussolini aveva pronunciato la frase, che mai avrebbe dovuto
pronunciare: «Voscenza poteva fare a meno di tanti sbirri intorno…
Voscenza, signor capitano, è cu mia, è sotto la mia protezione e
niente ha da temere…».
Mussolini
era subito andato in bestia. Quel bifolco sconosciuto, che pretendeva
di esercitare un potere maggiore del suo e che addirittura gli aveva
affibbiato la qualifica di capitano – nella scala del potere di
Cuccia si trattava, invece, di un significativo riconoscimento –
l’aveva visibilmente messo di pessimo umore. Cuccia era stato
ignorato e non aveva giovato alla causa l’appello rivolto a metà
della giornata alla folla plaudente, da cui erano stati circondati:
«Ricordatevi che Mussolini, oltre a esser il miglior uomo del mondo,
è anche amico mio, quindi massimo rispetto e ubbidienza cieca».
Alle incomprensioni con Cuccia si era aggiunto il furto della
bombetta nella prefettura di Catania. Insomma le due settimane
trascorse in Sicilia avevano lasciato un’ombra nel cuore del duce:
i siciliani, che già l’avevano deluso nelle elezioni del mese
prima, gli erano parsi irrecuperabili; il regolamento dei conti con
la mafia, indicata come il centro di potere sostenitore nelle urne
dei vecchi esponenti del liberalismo, il modo più spiccio di far
intendere la legge del più forte. Non era andata proprio così. Da
un lato Cesare Mori, il «prefetto di ferro», aveva bastonato i
picciotti e risparmiato i mammasantissima, dall’altro lato aveva
messo sotto scacco proprio Cucco, accusato di agire da grande
protettore dei mafiosi. Mussolini era stato dunque costretto a
intervenire per salvare il buon nome del fascismo.
Il
secondo viaggio, nell’estate del ’37, era scivolato via meglio.
Sulla scia della conquista d’Etiopia e della proclamazione
dell’Impero, Mussolini si era mostrato di manica larga. Aveva
parlato di tariffe, di agevolazioni ferroviarie «per eliminare la
concorrenza automobilistica», di rendere più veloci i trasporti
marittimi utilizzando piroscafi «con stive munite di apparecchi
refrigeranti». Ma soprattutto Mussolini si era detto pronto ad
affrontare i «problemi agricoli». Molti vi avevano letto la fine
del latifondo. Due anni dopo il duce l’aveva definito esempio di
vergogna e d’inciviltà, la cui abolizione sarebbe servita a
«riscattare la terra, con la terra gli uomini, con gli uomini la
razza per disperdere al vento le ceneri maledette della corruzione,
dell’imbroglio, dell’arbitrio, dell’ignavia». Nel gennaio ‘40
avevano perciò fondato l’Ente di colonizzazione del latifondo
siciliano. Sulla carta avrebbe dovuto accontentare le masse di
contadini super sfruttati e non scontentare la casta dei grandi
proprietari terrieri. I primi si sarebbero trasformati in mezzadri e
avrebbero avuto accesso a uno status sociale fin lì vietato; i
secondi avrebbero potuto mantenere gli antichi diritti, purché
avessero collaborato a rendere produttive le terre incolte senza
intralciare la colonizzazione.
Era
stata così avviata la costruzione di abbeveratoi per animali e di
stradine campagnole. Un migliaio di famiglie si era insediato nei
poderi, ma l’essenza del latifondo aveva conservato i propri
privilegi. Era stata scorporata la sola Ducea di Nelson, nei pressi
di Catania: l’avevano catalogata bene nemico essendo ancora
amministrata dagli eredi del celebre ammiraglio inglese. Ben presto
le sorti del conflitto avevano risucchiato ogni attenzione: nessuno a
Roma aveva avuto più tempo e voglia di curarsi dell’Ente e degli
altri terreni da espropriare. Al contrario gabellieri e latifondisti
avevano conservato la sensazione di una minaccia pendente: di
conseguenza avevano ancor più unito i propri destini. I gabellieri
appartenevano per secolare tradizione a Cosa Nostra; i latifondisti
ne costituivano da sempre il referente privilegiato e nelle loro file
ormai campeggiavano i più importanti capi mafiosi, Calogero Vizzini,
Peppe Genco Russo, Vanni Sacco, i Nasi di Trapani, i Rimi di Alcamo,
i Greco di Palermo. Il punto d’incontro sono state le logge,
ufficialmente bandite sin dal 1925, sempre all’opera nella
quotidianità.
All’inizio
del ‘42, dentro i riservati saloni della Società degli agricoltori
siciliani, i latifondisti hanno cominciato a ragionare sul futuro
dell’isola. Per moltissimi s’identifica con il futuro dei propri
possedimenti, con la salvaguardia di feudi e privilegi. Quasi tutti
risultano affiliati alla mafia e alla massoneria. La blanda
emarginazione, cui sono stati sottoposti dal fascismo, li fa
assurgere al ruolo di vittime e d’intransigenti oppositori. Il
regime viene definito la «malattia del Nord»; lo Stato unitario è
indicato come l’incubatore della dittatura; il latifondo si
trasforma nell’unica alternativa alle degenerazioni
dell’industrialismo, la sua élite fondiaria diventa «la garanzia
di un ordinato sviluppo in grado di consentire il progresso di ogni
classe». Dietro tanti paroloni in libera uscita, gli agrari
rivendicano un’adeguata ricompensa per essi coincidente con il
ritorno al passato. Checché ne dicano, sono infatti atterriti
dall’arrivo della modernità: l’apparentano all’eccessiva
democrazia statunitense e al rabbrividente comunismo dell’Urss.
L’esponente più rappresentativo è Lucio Tasca: appartiene a una
radicata famiglia zeppa di conti e di baroni, lui però si deve
accontentare della qualifica di cavaliere. Il padre è stato sindaco
di Palermo e senatore del Regno. La sua rivalsa sono le ricchezze
accumulate grazie a un acuminato intuito affaristico. Le migliorie
apportate alle aride terre di Regaleali sono sfociate in
lussureggianti vigneti, dai quali proviene un famoso vino di qualità.
L’azienda agricola Villa Tasca d’Almerita è citata quale modello
di tecnologia avanzata, eppure Tasca ha appena stampato un libello
dal significativo titolo Elogio del latifondo siciliano. Viene
indicato come un imprescindibile strumento di civiltà e di progresso
assieme alle sue tradizioni, compreso l&rquo;aratro a chiodo
«molto più utile di ogni attrezzo meccanico». Nel perfetto mondo
bucolico inventato da colui che è il trait d’union tra mafiosi,
massoni e grandi possidenti soltanto il latifondo appare in grado di
assicurare il benessere ai contadini e di conseguenza all’intera
Sicilia.
Tasca
è stato il confratello più in vista della loggia che ha raccolto il
meglio della proprietà agraria. Vi ha introdotto Vizzini, suo vicino
in un appezzamento in provincia di Caltanissetta. Don Calò aveva già
fama di «uomo rispetto»: più che la lunghissima fedina penale
aveva deposto a suo favore l’averla scampata in tre clamorosi
processi, dov’era stato accusato di aver imbrogliato lo Stato con
un traffico di cavalli rubati e venduti durante la prima guerra
mondiale, di sovrintendere alla «mafia delle miniere di zolfo» e di
partecipare alla «mafia dei latifondi». L’unico incomodo per
Vizzini era consistito nell’anno di confino all’acqua di rose in
Basilicata. In mezzo, però, l’alto riconoscimento di rappresentare
l’Italia nel 1922 alla conferenza di Londra per la creazione di un
cartello mondiale dello zolfo. In quell’occasione gli avevano fatto
compagnia Guido Donegani, il fondatore della Montecatini, e Guido
Jung. Al pari dei suoi altolocati compari, Vizzini si atteggia ad
antifascista, benché in realtà la sola colpa di Mussolini consista
nel non averli coccolati. Anche don Calò non perdona al fascismo di
averli privati del bene più prezioso: l’uso del voto di scambio,
che una dittatura rende inutilizzabile.
Tasca
e Vizzini diventano immediatamente gl’interlocutori di Finocchiaro
Aprile appena sbarcato dal treno. Lo nominano presidente dei circoli
«Sicilia e Libertà» rifugio di latifondisti e massoni. Tanti
aderenti provengono dal «Movimento autonomista siciliano» e quindi
si piccano di aver sviluppato dall’antifascismo il sentimento
d’indipendenza, già manifestatosi – a loro dire – nelle
rivolte del 1861, ’63, ’66. Si era, viceversa, trattato di
violente esplosioni di rabbia popolare lontane da ogni progetto
politico, meno che mai da ogni idealismo. Ma nella consueta retorica
del «passato glorioso», tra una mano di scopone e un’altra di
tressette, qualsiasi revisionismo di parte trova accoglienza. Si
cercano, e ovviamente si trovano, gli antecedenti storici.
Nell’infuocata riunione del 1920 a Palermo, in cui i latifondisti
avevano lanciato un pasticciato ultimatum al governo di Roma, qualora
avesse proseguito nell’intento di assegnare ai reduci di guerra le
terre incolte, viene ad arte fissato l’inizio di una recente presa
di coscienza della Sicilia. In quei mesi di scatenata fantasia
persino la tragica esperienza dei Fasci siciliani, primigenia
manifestazione del socialismo in Italia, è letta quale empito
d’indipendenza. Rinvigorisce il vecchio ritornello di una Sicilia
obbligata ad andare da sola, se vuole progredire.
Mussolini
ci ha messo del suo. Il 3 agosto 1941 un telegramma ha ordinato ai
ministeri il trasferimento dalla Sicilia dei dipendenti, che vi sono
nati. Il motivo è tuttora misterioso: si è accennato a una
richiesta avanzata dal comando del II corpo aereo tedesco, con alcune
basi nell’isola; si è ipotizzata una dispettosa risposta del duce
al crescente malumore della Sicilia nei confronti della guerra e
soprattutto del regime. Contro il provvedimento hanno protestato i
giornali di Palermo, di Catania, di Messina; ha protestato anche un
giornalino universitario, L’Appello, cui Mussolini, nello stupore
generale, ha inviato una risposta tramite il prefetto: «Urgenti
necessità militari, nessuna voglia di offendere il probo e fedele
popolo siciliano». Questo forzoso trasferimento di massa, aggiunto
al divieto d’inviare i pacchi di conforto ai prigionieri per non
intasare il traffico postale e i trasporti lungo lo Stretto, ha
segnato il definitivo distacco della Sicilia dal
fascismo.
Finocchiaro
Aprile ha una fitta agenda di appuntamenti. Incontra i grandi
proprietari terrieri, incontra i nobili, incontra gl’indipendentisti
di antica data e quelli di fresco conio, incontra i rappresentanti
dei partiti antifascisti, compresi i comunisti, cioè quanto di più
lontano dalle sue idee si possa immaginare. A tutti profetizza la
sconfitta di Hitler e di Mussolini, spiega il divario delle forze e
degli apparati bellici, sciorina numeri, dati, calibri, che lasciano
a bocca aperta gl’interlocutori. E quando l’auditorio ritiene che
l’elenco delle rivelazioni sia esaurito, ecco l’annuncio
mozzafiato della prossima invasione della Sicilia. Nell’estate del
‘42 serve una bella immaginazione per ipotizzare ciò che ancora
non ha preso forma nemmeno nella mente di Churchill. A quanti
domandano maggiori ragguagli, a chi degli amici più intimi osa
chiedergli quale sia la fonte di simili auspici, Finocchiaro Aprile
fra un sospiro e un alzare gli occhi verso l’alto risponde che lui
sa, che lui è in contatto con i padroni dell’Universo, che
Roosevelt gli ha promesso l’aiuto dell’America per una Sicilia
indipendente. Finocchiaro Aprile ha in effetti spedito, attraverso il
Vaticano, alcune lettere al presidente Usa. Tuttavia mai si è saputo
di una risposta. Nei palazzi pontifici amici influenti lo tengono
informato sui movimenti nello scacchiere della politica
internazionale. Al resto provvedono le entrature dentro la massoneria
britannica. Nell’eterno gioco del dare e dell’avere Finocchiaro
Aprile è convinto di piegare gli altri ai propri disegni.
Roosevelt
e Churchill inseguono il modo migliore di scardinare Mussolini, ogni
progetto tendente a scuotere la dittatura, ad accrescere la protesta
nei suoi riguardi trova tanta comprensione e tante promesse. Accade
pure con l’indipendentismo. Però neppure questo quadro d’insieme
giustifica la profezia di Finocchiaro Aprile sullo sbarco. Allora si
può ipotizzare una ragnatela d’intese, di complicità, di patti
inconfessabili in grado di tenere nello stesso calderone la Chiesa e
un suo nemico storico come l’obbedienza di rito scozzese. Il
trasformismo risorgimentale ricompare nel compromesso tra due forze
in teoria inconciliabili. E’ l’esordio ufficiale dell’inciucio,
che poi avrebbe caratterizzato numerose svolte della
Repubblica.
Molti
giovani cominciano a fantasticare una Sicilia quarantanovesima stella
della bandiera statunitense. I fascisti e i loro guardaspalle
tedeschi appaiono l’ostacolo da buttare a mare per avventurarsi nel
dolce mondo della Coca Cola, del jazz, del dollaro. Da simile
marmellata nascono le voci più incontrollabili. Da Palermo a
Catania, da Messina a Trapani, da Siracusa ad Agrigento si rincorrono
le ipotesi e le previsioni più strabilianti all’insaputa dei
carabinieri, dell’Ovra, del Sim (Servizio informazioni militari).
La Sicilia da oltre un anno viene colpita dalle scorribande di
un’inafferrabile cellula dello spionaggio britannico. La guida un
singolare ed effervescente professore dell’università di Catania,
Antonio Canepa; la compongono giovanissimi studenti, hanno vent’anni
e anche meno. Il rischio è altissimo: la città sonnolenta, ironica,
disincantata ha all’improvviso conosciuto una velenosa
radicalizzazione ideologica. Da un paio di anni fioccano le denunce
politiche. Il preside del ginnasio-liceo Cutelli, Rosario Verde, ha
avanzato forti dubbi sul patriottismo del docente più noto e più
stimato, il professore di latino e greco Carmelo Salanitro.
L’innocuo, gentile insegnante dagli occhialetti tondi è stato
sorpreso nel novembre ‘40 a deporre bigliettini di denuncia del
fascismo liberticida e sanguinario. Incarcerato, processato,
condannato a 18 anni di carcere, sarà ucciso nelle camere a gas di
Mauthausen il 18 aprile 1945. Canepa ha provato ad arruolare
Salanitro, ma questi, da cattolico intransigente, ex militante del
Partito popolare, gli ha risposto che ambiva combattere il fascismo,
non l’Italia.
Canepa
è una delle figure più intriganti e meno conosciute del ventennio.
Proviene dalla migliore borghesia di Palermo: il padre, Pietro,
avvocato e cattedratico; la madre, Teresa Pecoraro, sorella di un
leader del partito popolare di don Sturzo; un cugino di primo grado è
Franco Restivo futuro, chiacchierato presidente della Regione e
ministro dell’Interno. Nel 1924, sedicenne liceale al collegio
Pennisi di Acireale, Canepa è stato l’unico studente della sua
classe a esprimersi in pubblico e in modo violento contro
l’assassinio di Giacomo Matteotti: «Un governo che ha bisogno di
ricorrere a simili mezzi per mantenere le sue posizioni è un governo
da lottare e da annientare, costi quel che costi». L’anno seguente
ha composto e ciclostilato manifesti contro il regime e contro
Mussolini. Alla vigilia della laurea in giurisprudenza, nel 1930, ha
preparato con pochi amici l’irruzione nello studio privato del
duce, la Sala del Mappamondo, a Palazzo Venezia. Ma il cunicolo
segreto da utilizzare per l’operazione è stato scoperto e murato
dai poliziotti addetti alla sicurezza del capo del
governo.
L’inatteso
impedimento non ha smorzato la voglia del gesto plateale. Dal
gruppetto di sodali, con i quali s’impratichiva di armi al poligono
di tiro, è giunto il suggerimento d’impossessarsi della stazione
radio di San Marino per lanciare un appello antifascista. Canepa ha
ampliato i contorni del gesto: occupazione della caserma di polizia,
sequestro del governatore Gozzi, fedelissimo di Mussolini, prelievo
del tesoro pubblico della minuscola repubblica per finanziare
l’opposizione estera. I preparativi sono proceduti per mesi in un
misto di spavalderia e di totale ingenuità: Canepa ha tenuto i
contatti con gli altri per lettera, l’unica cautela è stato di
firmarsi Mario Turri. Nonostante l’iscrizione al partito, soltanto
la cecità dell’Ovra ha consentito al drappello di aspiranti
rivoluzionari di raggiungere nel maggio ’32 la rocca. Ma qui
dabbenaggine e presunzione hanno indotto il fratello minore di
Canepa, Luigi, e un complice a svelare i propositi al direttore ed
editore della Voce di San Marino, che li ha pubblicati in prima
pagina. Si sono allora mossi i carabinieri. La retata ha acchiappato
decine e decine di ragazzi, l’ha scampata il solo Mario Turri, la
cui identità è rimasta ignota.
La
scelta di Mussolini di circoscrivere l’episodio per evitare
l’effetto emulazione e l’intercessione di famosi professionisti e
nobili siciliani hanno alleggerito il quadro accusatorio. E’
scattata la corsa alle attenuanti, alle scuse, ai distinguo. Canepa
ne ha immediatamente usufruito: l’hanno trasferito dal carcere
all’accogliente clinica romana specializzata in malattie mentali.
Ai primi miglioramenti l’hanno portato in una casa di cura a
Palermo. In tal modo ha evitato il processo e subìto una condanna
veniale in attesa del condono elargito in concomitanza con la
ritrovata sanità psichica. Ma una volta stabilito che il tentativo
insurrezionale è stato partorito da una mente malata, perché
impedire alla stessa mente guarita dalle sue turbe di raccogliere i
meritati allori? In poco più di un anno il giovane dottore in legge
Antonio Canepa si è riciclato in brillante docente dell’ateneo
catanese. Gli hanno affidato la cattedra di cultura e dottrina del
fascismo, di storia delle dottrine politiche, di storia dei trattati
e della politica internazionale. Entrato nelle grazie del preside di
giurisprudenza, il trentaduenne Mario Petroncelli ordinario di
diritto ecclesiastico, Canepa ha intessuto un sistema di relazioni
altolocate in grado di allontanare da sé ogni residuo sospetto di
sovversivismo. Sono state anche riallacciate le amicizie e le
frequentazioni con gli ex compagni del Pennisi. Tra questi i rampolli
del duca di Bridport, di Nelson, di Hood e di Bronte: privati dal
regime della ducea, regalata dai Borboni al famoso prozio, e sul
punto di rientrare in Patria hanno fatto da tramite tra Canepa e gli
emissari dell’intelligence inglese.
L’antifascismo
mai ha smesso d’infiammare l’animo e la mente di Antonio. Per
mascherare al meglio l’attività di agente segreto della perfida
Albione, si è lanciato a capofitto in un’intensa attività
pubblicistica dai contenuti smaccatamente adulatori nei confronti di
Mussolini. Quando ha sfornato i tre volumi del Sistema di dottrina
del fascismo gli è sembrato naturale dedicarli «All’Autore
dell’idea rigeneratrice». Inutile specificare chi fosse l’Autore
con la maiuscola. Un simile lodatore del mussolinismo, coccolato in
ogni salotto cittadino, dal ricco carnet di conquiste femminili, ha
avuto vita facile nello svolgere il compito di reclutatore. Canepa ha
preferito i propri studenti. Cinquant’anni dopo uno di costoro ci
racconterà che ogni formazione era composta da quattro elementi e
che nessuno conosceva gli altri aderenti. Canepa li aveva persuasi
con il miraggio dell’indipendenza; aveva spiegato che la via per
raggiungerla passava attraverso la sconfitta militare dell’Italia e
la vittoria dei francesi e degli inglesi, per quanto il conflitto
dovesse ancora scoppiare. Al corso d’indottrinamento ideologico
teneva dietro quello pratico. Se ne occupavano specialisti inviati
dall’ambasciata britannica di Roma.
La
dichiarazione di guerra pronunciata da Mussolini ha sancito
l’ingresso nella lotta armata dei ragazzi di Canepa. Alcune azioni
sono finite nelle notiziole pubblicate dal Popolo di Sicilia, il
quotidiano catanese. Si è accennato a strani «incidenti», nessuno
ha osato immaginare o scrivere che siano stati sabotaggi per conto
del nemico. Degli «incidenti» più gravi – una batteria di
cannoni saltata a Tremestieri Etneo, un deposito di carburante dato
alle fiamme a Misterbianco – non è trapelato alcun dettaglio.
Almeno una volta al mese Canepa inviava un messaggero a Roma con
dispacci, informative, richieste di materiale: l’indirizzo dove
effettuare le consegne cambiava a ogni viaggio. L’insospettabile
professore godeva di larga autonomia, però riferiva a qualcuno in
Sicilia, una sorta di diretto superiore. Il suo nome di copertura era
«ragioniere Donovan», mai è stato individuato. Per lustri e lustri
si è sussurrato che negli Anni Trenta avesse lavorato dentro
l’amministrazione della ducea di Nelson.
I
carabinieri, l’Ovra, il Sim brancolano nel buio. L’unico colpo lo
mettono a segno con l’arresto di un agente del Soe (Special
operations executive), il catanese Emilio Zappalà arruolatosi con
l’esercito britannico e sbarcato in Sicilia nel febbraio ‘42 da
un’unità della Royal Navy. Incaricato di contattare la cellula di
Canepa, Zappalà è stato acchiappato quasi subito, processato e
fucilato in novembre a Forte Bravetta, nella Capitale, assieme a un
altro italiano del Soe, Antonio Gallo. Il controspionaggio non riesce
ad appurare neppure la vera identità dell’autore dell’opuscolo
clandestino a ruba fra gli universitari di Catania. S’intitola «La
Sicilia ai siciliani». Canepa l’ha firmato con il vecchio
pseudonimo Mario Turri, ma con un’imprevista giravolta:
nell’infuocato invito alla rivolta armata contro il governo
centrale, la lotta per l’indipendentismo assume un’imprevista
connotazione comunista. Di essa non sembrano preoccuparsi i patrizi e
i conservatori sempre più convinti che la conservazione dei
privilegi possa essere garantita da una Sicilia in mano al Pus cioè
il Partito unico siciliano. Lo compongono i cento cognomi e i
cinquanta nomi, che in difesa della propria convenienza hanno da
sempre tradito e calpestato le giuste aspettative dei corregionali.
Nell’isola dove i vicerè contano più dei re il Pus da mille anni
annulla qualsiasi differenza ideologica. Dall’estrema destra
all’estrema sinistra mette insieme e amalgama politici
all’apparenza inappuntabili, imprenditori arricchitisi con le
concessioni statali e regionali, giudici e magistrati addobbati da
sacerdoti del Diritto, eleganti amministratori delegati di banche
malmesse: da centocinquant’anni per il proprio tornaconto sono
disponibili a baciare tutti i culi nordisti in circolazione.
Un
passo importante sulla strada della rottura con l’Italia avviene in
settembre: è formato il Comitato per l’indipendenza siciliana
(Cis). Pure questa presidenza va a Finocchiaro Aprile, il quale, al
termine della campagna promozionale, rientra a Roma senza fastidi.
Alla fine del 1942 bussa alla sua porta un giovane palermitano con un
biglietto di presentazione. Si chiama Franco Grasso, è uno dei
responsabili clandestini del partito comunista in Sicilia. Grazie
alla soffiata di un commissario di pubblica sicurezza, si è appena
sottratto all’arresto. Anche a lui Finocchiaro Aprile preannuncia
le mirabolanti novità all’orizzonte. Grasso propone di unire le
forze in un movimento di guerriglia, che compia sabotaggi fino
all’arrivo degli Alleati per poi intraprendere una vera attività
armata. Avendo tastato la stoffa dei propri sostenitori, Finocchiaro
Aprile invita Grasso a raccordarsi con gli esponenti siciliani. Ha
intuito che nonostante i proclami infarciti di slogan ultimativi, di
lotta fino alla morte, di assoluto sprezzo della vita pur di giungere
alla vittoria finale, gli indipendentisti non hanno alcuna voglia di
prendere le armi: ritengono che il lavoro lo svolgeranno i soldi
anglo-americani. A loro basterà poi raccogliere i frutti.
Inverno
e primavera del ‘43 accentuano l’isolamento della Sicilia.
Tracolla l’autorità centrale, tutti i poteri sono attribuiti ai
generali e agli ammiragli. Da aprile la perdita di autocarri si fa
esponenziale: ogni giorno il numero di quelli inservibili supera il
numero di quelli riparati e senza di essi, in una terra priva di
adeguata rete ferroviaria, saltano i rifornimenti per tantissimi
paesi e villaggi. Con il progredire del caldo si riaffaccia l’antica
angoscia dell’acqua: in Sicilia ne scorre più che in qualsiasi
altra regione, ma la utilizzano per scopi privati a danno della
collettività. Gli acquedotti sono sempre stati una gruviera, lo sono
maggiormente in quei mesi d’incursioni aree, di ordigni lanciati a
casaccio. Il fabbisogno di popolose comunità dipende dalle
autobotti, che però sono state requisite e dopo alcune settimane ne
restano in funzione meno di cinquanta. Mancano gli pneumatici, i
pezzi di ricambio. Sono ormai esaurite le scorte per qualsiasi tipo
di vettura così come nel periodo della semina sono risultati
introvabili gli anticrittogamici, i concimi, il carburante per le
macchine agricole e nel periodo della raccolta sono spariti i sacchi
e la corda. E’ stata l’ultima beffa dopo la fatica e i sacrifici
dispiegati per i lavorare i campi. Ai giovani non hanno infatti
riconosciuto lo stato di «forza indispensabile allo sforzo bellico
della Nazione» com’è avvenuto con gli operai delle fabbriche del
Nord. Dunque, non si sono potuti sottrarre alla cartolina precetto. A
spaccarsi la schiena su quelle zolle sono rimasti i vecchi, le donne,
i ragazzini.
I
crescenti bombardamenti alleati seminano lutti e distruzioni. I treni
marciano su un solo binario, basta un vagone colpito per bloccare
intere tratte. Il sistema viario versa in condizioni pietose: i
mitragliamenti e le bombe hanno reso impraticabili sia le poche
strade dotate di un manto di bitume, sia i sentieri in terra battuta.
I collegamenti sempre più precari con il Continente provocano una
grave crisi alimentare. La distribuzione del pane, per altro gommoso
e poco commestibile, scende prima a 200 grammi giornalieri, poi a
150. In maggio sono distribuiti l’olio e lo zucchero di febbraio,
la pasta di marzo. La carne si trasforma in un miraggio. Lunghe file
si formano dinanzi alle rivendite quando si propaga la voce che è
stato macellato un bovino. Le snervanti attese dentro un puzzo
crescente – il sapone risulta introvabile – si risolvono quasi
sempre in niente. La priorità sulle bistecche va ai militari, poi ai
carabinieri, quindi ai vigili urbani, infine ai dirigenti del
municipio. Nei casi fortunati si salvano le frattaglie: a esse viene
conferita la pomposa definizione di «quinto quarto».
Le
famiglie non riescono a sfamarsi. Al mercato nero i prezzi sono
duplicati: un chilo di pasta costa 35 lire, lo zucchero 70, l’olio
60, il formaggio 80, il burro, quando si trova, 100. In certi giorni
un chilo di carne tocca le 350 lire. I contadini e gli allevatori
cercano di sfuggire alle dure regole e alle miserrime quotazioni
dell’ammasso: 30 lire per un chilo di frumento, 970 per un vitello.
Le rare notizie provenienti dal Continente aumentano la rabbia: le
razioni di vitto distribuite da Reggio Calabria a Bressanone sembrano
luculliane agli occhi di una popolazione sfinita. Il movimento
indipendentista accolla ogni responsabilità allo Stato per acuire il
sentimento anti italiano già strisciante in larghi strati della
popolazione. Da Palermo si propaga a Catania: nella villa sulle prime
pendici dell’Etna di un famoso chirurgo, il professor Santi
Rindone, al calar del buio sono accolti avvocati, medici, notai,
possidenti terrieri, professori. La sera in cui bussa alla porta
anche il maresciallo dei carabinieri per chiedere il motivo di così
continue riunioni, viene spiegato con aria complice che è in corso
un torneo di tressette: il caro maresciallo ha voglia di partecipare?
Tra questi amanti del tressette, diversi hanno avuto un ruolo
pubblico prima del fascismo, ma il loro giudizio è severo anche
sull’amministrazione monarchica: in ottantadue anni di Stato
unitario la Sicilia è stata calpestata e umiliata da chiunque. A
Catania poco sanno di quanto bolle a Palermo, tuttavia le conclusioni
appaiono identiche.
In
prossimità dello sbarco alleato, ipotizzato nella prima metà di
luglio, le file del Cis s’ingrossano. Vi aderiscono quasi al
completo patrizi e latifondisti, si avvicinano molti professionisti.
Soltanto Cosa Nostra sembra restarsene in disparte, ma
all’organizzazione sono affiliati quasi tutti i componenti del
vertice indipendentista. Secondo Buscetta, ne faceva parte lo stesso
Finocchiaro Aprile, fedele «soldato» della famiglia di Palermo
Centro. La strategia di Finocchiaro Aprile non cambia: aspettare che
il fascismo venga spazzato via dai prossimi invasori. A quel punto
gli indipendentisti si offriranno per assicurare l’ordinaria
amministrazione. Governeranno in nome dei nuovi padroni: la classe
dominante dell’isola lo ha sempre fatto negli ultimi duemila
anni.
In
maggio ai rappresentanti del Pci (Partito comunista italiano) e del
Psiup (Partito socialista di unità proletaria, nato dall’unione
del Psi con altri due partiti) vogliosi di prendere le armi,
Finocchiaro Aprile spiega che non è proprio il caso: la Sicilia, che
non ha avuto brigate nere, non avrà nemmeno partigiani. Riunitisi a
Santa Margherita di Belice gli uomini della Sinistra sono propensi a
un’insurrezione, ma sono consci di aver bisogno del sostegno della
mafia e questa dipende dal vertice indipendentista. Finocchiaro
Aprile suggerisce di dare tempo al tempo: ogni cosa accadrà da sé
senza il rischio di esporsi. Sul momento ha ben altro di cui
occuparsi: è atteso in una villa di Capo Soprano, a est di Gela,
coperta da un mastodontico gelso fronzuto. Vi abita da qualche mese
un ex collega, Salvatore Aldisio, deputato del Partito popolare dal
’21 al ’25. Aldisio è considerato il figlioccio di Sturzo (il
sacerdote di Caltagirone, che con la fondazione del Partito popolare
ha portato i cattolici in politica), è stato fra i protagonisti
della protesta dopo il delitto Matteotti, poi è rientrato in Sicilia
a praticare l’avvocatura. Aldisio fa accomodare Finocchiaro Aprile
nell’ampio salone dal quale si domina il mare, offre latte di
mandorla e spremuta di limone con aggiunta di seltz. Appare
orgoglioso di questi rinfreschi preparati con i frutti degli alberi
piantati dal nonno.
Conclusi
i preliminari del cerimoniale, i due avviano un’inutile
schermaglia. A parte la comune introversione, tutto li divide: l’uno
longilineo ed elegante, l’altro irsuto e tozzo; l’uno preda di
esagerate velleità internazionali, l’altro attaccato alla politica
della roba. Sono stati sbozzati per giudicarsi reciprocamente
indigesti. Finocchiaro Aprile non nutre soverchie illusioni sulla
possibilità di arruolare il più fedele degli sturziani, Aldisio
diffida di un massone mangiapreti. Ognuno dei due coltiva la piccola
speranza di essere più furbo dell’altro e quindi di carpire
qualche segreto. Aldisio tiene per sé le notizie ricevute da New
York: don Sturzo ha mandato a dire di tenersi pronti, si avvicina il
ritorno sulla scena dei cattolici, il nuovo partito si chiamerà
Democrazia Cristiana. Finocchiaro Aprile, da parte sua, non svela i
contatti con gli Alleati, i preparativi per venire allo scoperto con
un proclama firmato da un ipotetico «Comitato d’azione
provvisorio». Nei suoi intendimenti dovrebbe far sollevare l’intera
Sicilia «tre volte maestra di civiltà all’Italia e all’Europa,
trascurata e avvilita da un governo di filibustieri»: diffuso il 12
giugno, passa quasi inosservato.
Colpisce
molto di più il proclama fatto affiggere dal generale Roatta, uno
dei peggiori figuri del fascismo, comandante della 6a armata, adibita
alla difesa della Sicilia, sui muri di ogni città e
paese.
«Siciliani!»
«Le
Forze Armate Sicilia, in gran parte composte di vostri conterranei,
sono qui tra voi per difendere la vostra isola, bastione
d’Italia.
«Voi
tutti, ne sono sicuro, affiancherete l’opera delle FF. AA. Sicilia
mantenendo in qualsiasi contingenza calma e incontrollabile fiducia
nei destini della Patria applicando disciplinatamente e
volenterosamente le disposizioni delle autorità militari, attendendo
con lena costante al vostro lavoro ordinario e a quello che sarete
chiamati per rafforzare sempre più la difesa dell’isola,
arruolandovi e, se sarà necessario, combattendo nelle centurie
volontarie Vespri d’imminente costituzione. Strettamente,
fiduciosamente e fraternamente uniti, voi fieri siciliani e noi
militari, italiani e germanici delle FF. AA. Sicilia, dimostreremo al
nemico che qui non si passa».
Quel
«voi (siciliani) e noi (militari italiani)» acuisce l’avversione
dei siciliani per il fascismo e per la guerra voluta dal fascismo.
L’insofferenza diventa tanto palpabile da indurre gli ultimi adepti
di Mussolini, i più fanatici e i più violenti, a rispolverare il
manganello e l’olio di ricino. Aumentano la ripugnanza nei
confronti del governo i dodici poveracci ammazzati dai carabinieri ad
Alcamo mentre rovistano dentro i vagoni di un convoglio bombardato
alla ricerca di cibo. Il distacco fra Roma e la Sicilia si è
talmente ispessito che vengono negate le armi per formare le
«Centurie volontarie dei Vespri» auspicate da Roatta. Sono sciolti
anche i quarantacinque «Nuclei antiparacadutisti» della milizia.
L’unica speranza di fermare l’invasione è racchiusa nella
ripetizione del miracolo di sant’Agata, capace nel 1551 di salvare
Catania da turchi facendo spingere al largo le navi da un impetuoso
vento di tramontana.
Roatta
perde il posto, ma il suo sostituto Guzzoni ha poco da fare per
risollevare una situazione abbondantemente compromessa. Il 10 luglio
lo sbarco Alleato travolge le resistenze italo-germaniche, nonostante
un contrattacco della divisione Livorno dalle parti di Gela faccia
vacillare la 7a armata di Patton. L’ 8a armata di Montgomery viene
bloccata sul fiume Simeto alle porte di Catania, mentre nel settore
occidentale la progressione degli statunitensi è inarrestabile.
L’opera di Cosa Nostra dietro le linee spalanca la strada verso
Palermo. Nessuno si era curato del rientro, sul finire degli anni
Trenta, di parecchi mafiosi dagli Stati Uniti. A loro si sono uniti
nel ‘41 gli Amici, i Bravi Ragazzi, gli Amici degli Amici ritornati
dal confino in seguito all’abolizione delle ordinanze Mori del
1926. Da Nola, dove si era rifugiato per sfuggire alla sedia
elettrica negli Usa, si è fatto vivo pure Vito Genovese, oriundo
napoletano, ma in ascesa verticale dentro la mafia italo-americana,
grazie alla protezione di Luciano, al punto da esser promosso, alla
fine degli anni Quaranta, capo dei capi. L’incontro tra Genovese e
Vizzini ha stabilito il definitivo passaggio di campo di boss e
picciotti. Tutti assieme hanno accolto, protetto, istruito, nella
primavera ‘43, gli emissari dell’Oss (Office of Strategic
Services) giunti con la speciale benedizione di Charlie Luciano. In
tal modo gli americani hanno colmato il gap d’informazioni dagli
inglesi, che da secoli contano sul sostegno della nobiltà
isolana.
L’aiuto
di Cosa Nostra viene identificato nell’appoggio fornito da Vizzini.
L’alto comando americano gli ha addirittura inviato un caccia sopra
la casa di Villalba. E’ stato lanciato un plico per avvisarlo che,
in mancanza di taxi, sarebbe stato prelevato da un carro armato con
l’insegna di Luciano (una grande «L» nera). Questo racconto oggi
può fare sorridere, ma in Sicilia abbiamo visto troppe fantasie
trasformarsi in incubi per non concedere almeno il beneficio del
dubbio alla stupefacente elevazione di Vizzini nell’empireo a
stelle e strisce, tanto più che il 27 luglio 1943 don Calò è
nominato sindaco di Villaba dal tenente Beher del Civil Affairs,
l’organizzazione del colonnello Charles Poletti. Qualcuno
maliziosamente racconta che il tenente Beher deve scandire l’atto a
voce alta per venire incontro alle difficoltà del neosindaco con la
lettura di vocali e consonanti. A Vizzini e ai suoi uomini viene
concesso il porto d’armi per difendersi dai fascisti che,
poveracci, non li hanno infastiditi neppure quando detenevano il
potere. Il clan, al contrario, si vendicherà del maresciallo dei
carabinieri Pietro Purpi colpevole di aver fin lì fatto rispettare
la Legge. Sarà dapprima umiliato in piazza, poi freddato alle
spalle. Né i suoi colleghi né lo Stato si preoccuperanno di
rendergli giustizia.
Lungo
la strada per Palermo gli stupefatti soldati statunitensi leggono un
manifesto a firma del «Comitato per l’indipendenza siciliana»,
evoluzione del «Comitato d’azione provvisorio». Vi s’inneggia
all’avanzata dell’invincibile armata anglo-americana, all’agonia
del fascismo, alla caduta dello Stato unitario colpevole di aver
prevaricato in meno di un secolo «la trimillenaria forza civile
della Sicilia violandone gl’interessi morali e materiali».
L’inverecondo passato sarà tuttavia spazzato dalla nascita della
Nazione siciliana pronta a partecipare alla Conferenza della pace da
buona amica dell’Inghilterra, degli Usa e di quanti altri
accetteranno di prenderla sul serio.