L'industria della moda garantisce
profitti alti ai top manager ma scendendo la filiera si scoprono
salari bassi, basso rispetto dei diritti umani, delle norme
ambientali, e non all'estero, anche qui in Italia.
All'interno dell'industria della
moda, la scarpa è oggetto di un marketing ossessivo: ogni giorno
produciamo 66ml di paia di scarpe al mondo, nel 2019 il mercato delle
calzature sportive ha venduto per 140miliardi di dollari, tanto da
convincere Federer e Di Caprio ad entrare nel mercato con un loro
marchio.
Un mondo dove troviamo scarpe da
migliaia di euro reclamizzate da influencer, scarpe indossate da
attori famosi per fare pubblicità: ma queste scarpe producono tanta
co2, alla faccia della sostenibilità.
LA produzione di calzature è in
crescita dal 2010, con un tasso del 2% l'anno, non solo per i modelli
in pelle, fatti a mano, anche per le più semplici sneakers che
nonostante la semplicità per la produzione hanno costi alti sul
mercato.
L'Asia copre più dell'80% della
produzione mondiale al mondo e in questo continente a far la padrone
è la Cina: qui sono popolari i brand italiani molto venduti anche ai
giovani.
Ma anche l'Italia non se la passa male:
vengono ad acquistare da noi fin da Dubai, dalla Russia e anche da
altri paesi.
Il 66% del prezzo di una scarpa è
racchiuso nella distribuzione e nel marketing: l'alta moda parla
italiano, ma dietro le luci e i brand cosa si nasconde?
Presadiretta ha ripercorso la
filiera della scarpa partendo dalla pelle: l'Italia ha la
conceria più grande in Europa, ma la pelle prima di arrivare in
Italia ha girato il mondo, per esempio partendo dall'Amazzonia, da
pascoli rubati all'Amazzonia.
Per produrre un kg di pelle servono 4kg
di foraggio per allevare bovini che vengono scuoiati in macelli che
separano subito la pelle dalla carne.
Per bloccare la putrefazione della
pelle questa viene sottoposta ad un prodotto chimico, detto concia:
si usano sostanze come il cromo, che è molto inquinante ma che
garantisce molta efficienza per la produzione.
Con altri prodotti chimici le pelli si
colorano, si riconciano e poi vengono nuovamente trattate per
renderle più sottili e pronti per diventare scarpe.
L'industria conciaria è leader
europea, qui troviamo i più grandi distretti della pelle come ad
Arzignano in Veneto e Santa Croce in Toscana, per un fatturato da 4
miliardi.
Ma con un residuo enorme di residui
tossici: ad aprile 2021 la DDA ha aperto una indagine su aziende
conciarie nella zona Santa Croce in Toscana, per sversamenti illegali
in un canale di rifiuti aziendali non trattati. In questa indagine
sono stati indagati sindaci locali, uomini della regione e un
consigliere del PD che aveva presentato un emendamento per favorire
queste aziende: questo emendamento avrebbe consentito una scorciatoia
per sversare questi prodotti, ma è stato subito bloccato dal
governo.
In queste questa indagine era presente
anche la ndrangheta, che ha sepolto sotto una strada provinciale
rifiuti tossici: l'indagine ha fatto emergere una commistione tra
mafia, politica e industria conciaria che sta allarmando diverse
associazioni di cittadini.
L'ONG abiti puliti aveva denunciato lo
scorso anno tutte queste cose in un report, che puntava il dito
contro i conciatori di Santa Croce: questo rapporto ha causato loro
molti problemi, perché gli industriali sono arrivati fino
commissione europea per cercare di bloccare i finanziamenti che
ricevevano dall'Europa.
E' così importante il distretto
toscano che qui a Santa Croce si sono spostati anche gruppi veneti,
che si si sono mossi dall'altro distretto nella zona di Arzignano a
Vicenza.
Anche in Veneto gli effetti della
concia hanno causato danni all'ambiente e alle persone, costrette
ad allontanarsi dalle concerie, come successo alla famiglia di
Gianfranco Cecchin.
Le famiglie hanno scritto
all'amministrazione di Zermeghedo (uno dei comuni del distretto
conciario), ma il sindaco non ha mai risposto né alle mail delle
persone e nemmeno alla richiesta di intervista di Presadiretta.
Il comitato “diritto di respirare”
ha presentato ora una querela contro il sindaco e dovrà rispondere,
almeno a questa.
Anche qui, come in Toscana, c'è un
forte legame tra politica locale e le concerie: i comuni non
controllano più le emissioni di idrogeno solforato, l'inquinamento
di terreni e acqua, perché alle aziende sono stati concessi limiti
per le emissioni più alti oppure sono proprio stati tolti.
Così, nonostante le centraline
dell'ARPAV registrino valori di emissione per gli inquinanti sopra
soglia, in questi comuni nessuno ha chiuso nulla, nessuno ha fermato
le concerie.
LA giornalista ha anche scoperto che le
pelli, che per regolamento della polizia locale non potrebbero essere
tenute all'aperto sul piazzale, sono tenute proprio lì e ha pure
ricevuto delle minacce da uno di questi conciatori che evidentemente
pensa di fare quello che vuole.
“La pianura è morta, la frutta che
si produce su questa pianura è piena di prodotti chimici” – è
la denuncia di un medico di base – “tutto quello che si produce
qui è morte e si diffonde per tutta la regione”.
Perché poi le acque reflue delle
concerie finiscono nel fiume Frattagozzone e sono utilizzate per
irrigare i campi, per la frutta che poi finisce sulle tavole
dell'Italia.
La regione Veneto spenderà altri 11 ml
di euro per spostare il collettore che convoglia le acque reflue “un
po' più in là”, dal vicentino fino al veronese, non per risolvere
il problema.
Perché il settore della concia vale
l'1% del PIL, sono potenti in regione e anche a Roma.
Il ministero della transizione
ecologica, su sollecitazione dei cittadini, ha scritto una lettera
alla regione, che non ha ricevuto una risposta.
E nessuna risposta è arrivata nemmeno
sul rischio del PFAS, un veleno anch'esso contenuto dentro le acque
reflue: questi inquinanti velenosi sono entrati nel sangue delle
persone in Veneto, a seguito dell'inquinamento di un'azienda chimica,
la Miteni, oggi sotto processo per il danno ambientale.
Purtroppo i PFAS sono usati anche
dall'industria della concia: la nuova Miteni è il distretto
conciario che già nel 2019 doveva mettere a norma la produzione, su
indicazione di un giudice, ma ad oggi non è stato fatto nulla, come
per anni non era stato fatto nulla dalla regione Veneto per il PFAS
trovato nelle acque e nella frutta coltivata.
Dal 2017 la regione non ha più fatto
analisi sugli alimenti, non sta facendo analisi sulle acque, lo hanno
fatto le mamme dell'associazione “mamme no pfas”.
Presadiretta non ha ottenuto risposte
dalla regione Veneto, dall'assessore per l'ambiente, dal
rappresentante del distretto della concia: in una lettere il
direttore delle Acque del Chiampo ammette che il depuratore non
riesce a trattenere il PFAS: il sospetto è che non sia in grado di
controllare le aziende e gli scarichi dei PFAS. E' tutto lasciato
nelle mani delle concerie, ammette il direttore, che di fronte alla
giornalista aggiunge che toccherebbe alla regione mettere dei limiti
sugli scarichi, perché l'impianto non è efficace.
Ma quello che conta, per la regione, è
la mediana (non importa che in un giorno i valori siano superati),
basta fare un controllo su base annuale: è così che si continua ad
avvelenare il Veneto.
Dalla pelle si passa alla
lavorazione per produrre le scarpe: questa parte della filiera è
molto lunga e dentro troviamo aziende con salari da fame, per
scarpe che costano quasi come uno stipendio di un impiegato.
In Italia abbiamo tante aziende che
fanno produzione, anche in modo artigianale: 14,3 miliardi di euro
era il fatturato di queste aziende prima del Covid, poi sceso del 15%
nel 2020.
Il covid ha messo in crisi i piccoli
artigiani che lavorano per i grandi gruppi che impongono margini
bassi a chi lavora per loro.
“La filiera delle
scarpe è una delle più complesse e meno indagate nel mondo della
moda” – racconta la giornalista Giulia Bosetti - “ i marchi del
lusso si forniscono di fornitori di primo, secondo e terzo livello,
appalti e subappalti, per ogni brand decine o centinaia di terzisti
tagliano, cuciono e assemblano le varie parti della scarpa, dalla
tomaia che è la parte superiore, alla suola”.
Ci sono marchi dove
la suola è fatta in Italia mentre il resto è fatto e assemblato in
Turchia, con un costo da 25 a 27 euro, prezzo non paragonabile a
quello che si trova nei negozi italiani, dove quelle scarpe si
vendono anche a 400 euro.
Come è possibile
che un prodotto venduto dal fornitore a 31 euro, arrivi ad un prezzo
di mercato di 480 euro, con una ricarica di dieci volte?
Il produttore che
ha accettato l'intervista non può fare il nome del brand, altrimenti
perderebbe il contratto, perché tutti fornitori dei marchi del lusso
sono costretti a firmare rigidissime clausole di riservatezza, se
dichiari, per chi lavori, se ti lamenti dei prezzi che ti affamano,
sei fuori dal mercato.
“Nessuno
denuncia” racconta uno di questi subfornitori, Carla Ventura, che
denuncia un vero e proprio sistema - “ad un certo punto ho dovuto
arrendermi all'evidenza e dire ho fallito, non ce la faccio e ho
gettato la spugna”.
Questa
imprenditrice ha chiuso la sua attività: la sua colpa aver
denunciato i ritardi nei pagamenti da parte di Tods, capofiliera
della produzione.
Tods, dopo la
denuncia di ingiunzione fatta dall'imprenditrice, le avrebbe tolto il
lavoro: poiché questo marchio era uno dei principali committenti la
signora Ventura ha dovuto chiudere.
Questo è un
sistema dove, per ottenere prezzi sempre più bassi, i marchi si
rivolgono all'estero, in Turchia e in Cina: lo fanno anche marchi che
sul palco del Fashion Awards difendono i diritti civili delle
persone. Ma la realtà è diversa perché i grandi brand producono
gravi impatti laddove portano la produzione: impatti sull'ambiente,
sulle condizioni di lavoro.
C'è una facciata
dove si parla di codici etici, di controlli della supply chain, di
dichiarazioni di trasparenza: ma la verità è che i brand del
lusso vogliono spendere il minor prezzo possibile.
Un altro di questi
imprenditori, che ha scelto di non mostrarsi, fa qualche nome di
questi marchi, Givenchy, Barbery, il gruppo LVMH: “loro devono
avere più margine possibile per avere il maggior profitto
possibile.”
LVMH è una
multinazionale del lusso, una delle più grandi al mondo, 75 maison,
44.7 miliardi di euro di fatturato, detiene brand come Luis Vitton,
Fendi, Dior, Loropiana. L'azionista principale è Bernard Arnoult,
molto felice del record di profitti raggiunto, uno dei tre uomini più
ricchi al mondo, con un patrimonio, netto di 188 miliardi di dollari.
C'è poi il gruppo
Kering, 13 miliardi di fatturato e una galassia di brand che vanno da
Gucci a Yves Saint Loren, da Bottega Veneta a Valenciaga.
La persona
intervistata dalla giornalista lavora per questi gruppi, il suo
compito è fra produrre le collezioni in Italia e all'estero e
vengono richiesti sempre tempi di consegna inferiori per prezzi
sempre inferiori.
La differenza tra i
prezzi con cui questi capi vengono venduti sul mercato e il prezzo a
cui vengono pagati a queste aziende è enorme: “noi troviamo un
capo spalla che il fornitore vende a 100 euro venire tranquillamente
venduto a 2500, 3000 euro in negozio.. ”.
Se i margini
sono alti, perché strozzano così tanto i piccoli produttori?
Giuseppe Iorio è
un manager del settore della moda, direttore della produzione della
ITIERRE: a Presadiretta racconta di aver delocalizzato aziende del
settore per anni per i grandi gruppi “da un punto di vista
economico io posso dire che hanno fatto un'operazione brillante
perché comprare a 12 e vendere a 200, vuol dire che veramente hai il
cervello, ma da un punto di vista morale, non è concepibile. Il tuo
non è made in Italy ma sono prodotti nei peggiori tuguri della
Tunisia ...
Questo gap, questa differenza
finisce nelle tasche a dei produttori italiani che se ne sono andati
in Romania, con la connivenza dei grossi marchi, con la connivenza di
confindustria e soprattutto con la connivenza della camera della
moda. ”
La Ong Abiti
puliti ha fatto un report sulle nostre scarpe per capire quanto siano
rispettosi del rispetto dei diritti umani: marchi come Geox che
ha fatturato 535ml di euro e ora sta chiudendo uno stabilimento in
Serbia aperto grazie ai fondi del governo Serbo.
Il gruppo Tods, 55
società controllate, 637ml di fatturato nel 2020, una icona del made
in Italy.
MA come funziona la
produzione negli stabilimenti in Serbia, in Romania e nell'est
europeo? Sono veramente
rispettosi dei diritti umani?
A Durazzo c'è
uno stabilimento della Tods e Hogan, dove lavorano le operaie
prese dai villaggi: si lavorano in condizioni difficili, non ci sono
sindacati a tutelare le persone. Rideva, Renzi, quando invitava gli
imprenditori a spostarsi in Albania, soprattutto quelli della moda e
del calzaturiero, perché il costo del lavoro è molto basso in
Albania.
E le Hogan fatte in Albania e vendute da 200 a 300 euro, sono made in Italy certo, ma sono prodotte da operaie pagate anche 1 euro l'ora.
230 euro al
mese, questo guadagnano le operaie che lavorano per Hogan, Luis
Vitton: alle operaie albanese non è concesso lamentarsi per le
loro condizioni di lavoro agli italiani che dovrebbero fare il
controllo di qualità.
Sperduta nelle
campagne si trova un'azienda che lavora per il settore pubblico
italiano: le t-shirt di carabinieri e guardia di finanza, per
ospedali pubblici.
Anche il pubblico
si comporta in Albania come il privato, imponendo ai terzisti
albanesi prezzi sempre più bassi che nemmeno bastano a ripagarsi dei
costi della produzione.
Eppure tutte
queste filiere sono certificate da enti che dovrebbero certificare il
rispetto ambientale, il rispetto dei diritti umani delle persone.
Ma non è vero.
Presadiretta ha
elencato una serie di incidenti di petroliere e anche di navi per le
crociere, tutte certificate dal Rina: “il Rina fa tutto quello che
vuole Fincantieri, è interesse di tutti fare prove finte” si sente
dire in una intercettazione fatta per le indagini della Costa
Concordia.
Certificazioni
erano presenti anche nell'azienda in Pakistan, la Ali Enterprises,
dove lavoravano bambini, poi esplosa: anche qui la certificazione era
del Rina.
La stessa storia
per l'affondamento di un traghetto tra Italia e Albania: traghetto
certificato dal Rina.
Rina è una
holding che opera nel settore dei trasporti e nel settore delle
certificazioni: la procura di Genova sta indagando su un giro di
false certificazioni, come quelle rilasciate per la sostenibilità
dei marchi della moda.
In Pakistan lo
stabilimento esploso aveva la certificazione, eppure era una trappola
per chi ci lavorava dentro, non si rispettavano le norme di
sicurezza, nessun salario minimo pagato, i controlli erano
concordati, perché altrimenti si perdevano i clienti – racconta un
auditor a Presadiretta.
Se consentiamo
alle fabbriche che lavorano per noi all'estero di lavorare senza
rispetto dei diritti umani, poi questo si rivolta contro di noi: alla
Texprint a Prato gli operai in picchetto sono stati presi a bastonate
da picchiatori, venuti a bloccare lo sciopero. Altre squadracce sono
venuti a picchiare gli scioperanti davanti la Fedex.
Come mai gli operai
di Prato protestavano? La Texprint è una fabbrica tessile di Prato,
sono stati licenziati dopo aver protestato per le condizioni di
sfruttamento in cui erano costretti a lavorare. Lavoravano con un
contratto da apprendistato per 7 giorni su sette e alla fine del
periodo da apprendista venivano cacciati.
Non vogliono
essere più schiavi, queste persone: una delle responsabili
dell'azienda risponde a Giulia Bosetti che non è vero che lavoravano
12 ore, che i lavoratori stanno facendo un ricatto.
Ma tante aziende
che lavorano conto terzi nel settore dell'abbigliamento lavorano
così: sfruttando le persone, con controlli insufficienti per
cambiare la realtà, perché le sanzioni sono insufficienti, spiega
un sindacalista del SI Cobas.
Buste paghe false,
contributi non versati, salari in nero, condizioni di lavoro poco
igieniche, rischi per la salute per il contatto con sostanze
chimiche, turni infiniti: queste le denunce degli operai di una di
queste fabbriche del settore.