DEGNE
PERSONE di Luca Bertazzoni
Nell'anteprima
Report si occupa del caso Palermo, dove alle amministrative ha vinto
l'uomo degli impresentabili, il candidato di Cuffato e Dell'Utri.
La
condanna (per favoreggiamento mafioso) è finita, dicono i
sostenitori di Cuffaro, ora può tornare alla politica, non farà gli
stessi errori. Forse.
L'ex presidente ha riportato il simbolo
della DC, non ha chiesto niente a Lagalla, si è pentito – così
dice – e ora non vuole ripetere gli errori. Il futuro della Sicilia
è il passato, l'usato sicuro?
Di certo Cuffaro porta voci ad un
nuovo raggruppamento di centro, che ha dentro Forza Italia e Italia
Viva con Renzi.
Il tutto è nato da una cena a Firenze tra Renzi
e Micciché, per arrivare a Forza Italia Viva. Certo, a Palermo IV ha
candidato Faraone, ma ad aprile quest'ultimo si è ritirato e ha dato
il suo appoggio a Lagalla.
Anche Dell'Utri, altro condannato
per mafia (per concorso esterno) ha appoggiato Lagalla: è stato lui
ad incontrare i vertici di Forza Italia per puntare sull'ex rettore
su cui far convergere i voti del centrodestra. Ma su Lagalla puntano
anche gli esponenti di Italia Viva di Palermo, Dario Chinnici e Toni
Costumati, che nonostante le parole di Renzi, stanno ancora dentro
IV.
Cuffaro
non può candidarsi, per la condanna, ma vuole tornare a fare
politica: l'insegnamento che vuole dare ai giovani e “non fate come
me, non seguite i miei errori”.
Campeggia
nella sala dell'intervista la scritta la mafia fa schifo: ma a
qualche candidato la mafia non fa schifo, come al candidato Lombardo
di Fratelli d'Italia, il partito della Meloni.
Anche il
candidato di FI Polizzi ha chiesto voti ad un mafioso, il costruttore
Sansone, che negli anni '80 frequentava Riina nella latitanza.
Oggi
nessuno si ricorda di questo Polizzi e dei suoi incontri con Sansone
.. queste cose le sa lei, io non lo conosco …
Ma gli arresti
dei due candidati non hanno bloccato la vittoria di Lagalla che oggi
commenta stupefatto lo scoprire che è la politica che oggi cerca la
mafia.
“Noi i voti mafiosi non li vogliamo” tuona il nuovo
sindaco e, aggiunge Micciché, non esiste che i soldi del PNRR (198
ml solo per Palermo) finiscano nelle mani di cosa nostra.
Ma i
voti dei clan, promessi ai candidati arrestati, a chi saranno
andati?
In Sicilia, come in Italia, il bene e il male sono
difficili da distinguere e il rigore morale, almeno verbalmente, non
basta.
QUALCHE
VACCINO DI TROPPO di Manuele Bonaccorsi e Lorenzo
Vendemiale
I
vaccini che abbiamo acquistato e che continuiamo a comprare sono
stipati a Pratica di Mare e che sono custoditi in container
refrigerati. Oggi, con la diminuzione delle vaccinazioni, si fanno
delle consegne alle regioni ogni due settimane, circa, ma una volta a
settimana ci sono degli arrivi dalle case farmaceutiche.
Perché
le consegne non si fermano? Perché non si tracciano le dosi comprate
e quelle somministrate: nel solo 2022 l'Italia ha comprato 138ml di
dosi, una cifra che consentirebbe di rivaccinare due volte il paese.
Ma oggi ai centri vaccinali c'è il deserto.
La quarta dose
andrà somministrata solo ai pazienti a rischio: secondo Crisanti,
fino ad ottobre la maggior parte della popolazione si sarà ammalata
e non avrà bisogno della quarta dose. Cosa ce ne facciamo allora
delle dosi stoccate a Pratica di Mare?
Ci sono anche vaccini che
abbiamo comprato e che ancora nono sono stati approvati, ci sono
vaccini che si possono dare solo alle prime dosi e che dunque
difficilmente saranno usati.
Così
nei contenitori frigoriferi ci sono dosi in scadenza, sebbene gli
Pfizer hanno avuto una proroga per la scadenza: le dose in surplus
sono così donate ai paesi poveri.
Anche
il governo è consapevole di aver comprato troppi vaccini: in una
lettera che la struttura commissariale ha inviato alle regioni lo
scorso marzo, l’ex commissario Figliuolo spiegava come il surplus
delle dosi sarebbe stato donato ai paesi in difficoltà, un bel gesto
di solidarietà che però arriva in ritardo.
“A
livello europeo stiamo donando vaccini con scadenze molto
ravvicinate” racconta a Report la responsabile Oxfam Sara Albiani
“secondo i dati dell’Unicef nell’ultimo mese del 2021 circa 100
ml di dosi donate non sono state somministrate perché erano con
delle scadenze troppo basse.”
Gli
stati non sono liberi di donare i vaccini, che hanno pagato,
liberamente, ma devono prima chiedere il permesso alle case
farmaceutiche col rischio di allungare i tempi. Lo scorso 1 agosto a
Tunisi arriva un carico di circa 1,5 ml di dosi di vaccino donate
dall’Italia, le autorità locali organizzano perfino una piccola
cerimonia di ringraziamento, ma un’inchiesta del collettivo
giornalistico Follow
The Doses ha svelato che sarebbero scaduto dopo appena due mesi.
Stessa storia in Nigeria dove, nel passato dicembre, il governo
locale è stato costretto a gettare in discarica oltre 1 ml di dosi,
appena donate e già inutilizzabili.
Abbiamo
comprato troppe dosi e anziché buttarle noi le facciamo buttare ai
paesi africani, così facciamo un’operazione di maquillage per
rifarci la faccia..
Un
brutto esempio di Apartheid vaccinale: i paesi ricchi si sono
accaparrati le dosi, facendo alzare il prezzo delle dosi e mettendo
in crisi i paesi poveri nel sud del mondo, a cui oggi facciamo la
carità. In Africa solo un quinto della popolazione ha compiuto un
ciclo completo di vaccinazione.
Cosa
faremo se dovessero arrivare sul mercato vaccini moderni,
maggiormente efficati con Omicron? Buttiamo via quelli già comprati?
In
Europa ci sono paesi che non vogliono più pagare i vaccini: la
commissione Europea ha stretto allora un accordo con Pfizer e
Moderna, per rimandare il pagamento di queste dosi. Ma in Polonia non
la pensano così, le spedizioni di vaccino le vogliono interrompere,
così a marzo hanno smesso di pagarle. Per causa di forza maggiore,
tirando in ballo la guerra in Ucraina e i profughi.
Attorno
a questa strategia vaccinale si sta creando una nuova coalizione di
Visegrad per non pagare i vaccini, almeno per spalmare i contratti su
più anni: le dosi di troppo rischiano di diventare un caso europeo,
nato dai contratti ancora oggi secretati dalla commissione Europea
con le case farmaceutiche.
I contratti con Pfizer non sono equi
– racconta il ministro polacco – li abbiamo firmati ma eravamo
costretti.
Eppure in commissione UE pensano che la strategia
vaccinale sia stata un successo: forse per le multinazionali del
farmaco, non per i cittadini europei. La commissione oggi non ha
alcuna intenzione di rivedere quei contratti, in alcun modo.
E
l'Italia cosa farà? IL ministero italiano non ha risposto a Report,
nemmeno alla domanda su che cosa faremo con le dosi in più. Quelle
dosi sono costate 2,5 miliardi di euro.
FINO
ALL'ULTIMO RESPIRO di Giulio Valesini,Cataldo
Ciccolella
Giulio
Valesini racconta la storia dei ventilatori della Philips, usati
inizialmente da chi soffre di apnee notturne e, in seguito, dai
malati di covid. La Philips ha dovuto richiamarli per un difetto che
rende questi dispositivi potenzialmente pericolosi.
Durante
la pandemia l'azienda ha venduto tanti respiratori, fino al richiamo
fatto nel 2021, il più grande della storia di dispositivi
elettronici.
Molti
pazienti che li avevano usati raccontano oggi di aver denunciato
problemi per anni, senza essere creduti: quei respiratori contengono
una schiuma che poteva generare delle particelle, per sbriciolamento,
che se inalate possono dar luogo ad una risposta
infiammatoria.
Peggio ancora se il paziente non era sano, perché
ammalato di covid.
In America l'ente di controllo ha
chiesto alla Philips di ritirare subito i dispositivi, in Italia si è
scelta una via soft, di fatto solo il 20% dei respiratori in questo
paese sono stati sostituiti o riparati.
Quello
che sembra un incidente nasconde invece una negligenza: la relazione
dell'FDA nella sede in America parla di 222mila reclami legati allo
sgretolamento della schiuma fonoassorbente, rimasti nel cassetto.
L'ispettore ha scoperto che Philips sapeva già dal 2007 che questi
dispositivi potevano rilasciare queste particelle, ma ha continuato a
venderle.
Ma
oggi Philips non ha oggi tutte le macchine per sostituire quelle a
rischio: alla fine cosa succederà?
Oggi Philips, di fronte alle
telecamere di Report, ha chiesto scusa ai suoi clienti: prima del
2020 – racconta Jan Kinpen, Chief Medical Officer della Philips –
le segnalazioni erano poche, ma in realtà il problema era noto
almeno dal 2015.
Tra i respiratori ritenuti pericolosi
per la salute dei pazienti ci sono anche quelli non invasivi usati in
epoca covid in ospedali, come il Trilogy, ma anche il modello E30
approvato in emergenza nel 2020 proprio per il coronavirus. Il
management della Philips sapeva da tempo del particolato, ma non ha
avuto problemi a dare l’E30 ai malati, salvo includerlo nelle
recall dal mercato finita la seconda ondata covid.
“Noi
non abbiamo mai portato dispositivi che sapevamo potessero i
pazienti” spiega a Report Jan Kinpen, Chief Medical Officer della
Philips: tra i modelli ritirati c’erano Trilogy ed E30, che erano
in uso, “ma abbiamo lasciato decidere ai medici se continuare o
meno il trattamento con questo device.”
Philips ha
aspettato troppo, prima di ritirarli dal mercato, vendendo tante
macchine privilegiando il fatturato alla salute dei pazienti? “La
sicurezza dei pazienti è sempre al centro di quello che facciamo,
quello su cui si è basata la reputazione di Philips.”
FDA,
l’ente governativo statunitense di controllo dei prodotti
alimentari e farmaceutici, ha rivelato a maggio di aver ricevuto,
solo nell’ultimo anno, più di 21mila segnalazioni di incidenti
seri tra cui 124 decessi, associati ai difetti di questi dispositivi,
mentre Philips fino al 2021 ne aveva segnalato soltanto 30 di casi.
Sono
dati parziali quelli della FDA, perché le segnalazioni devono essere
sottoposte a controlli e perizie per accertare le vere cause, ma
anche su queste perizie ci sono perplessità.
Lo
racconta Jeanne Lenzer, collaboratrice del British Medical Journal:
“FDA richiede di segnalare solo ciò che ha causato o contribuito a
causare la morte o l’evento avverso grave. Secondo lei a chi spetta
decidere se un dispositivo ha effettivamente causato la morte di un
paziente? Il medico del paziente? La FDA? No è il produttore del
dispositivo che spesso si autoassolve.”
Perché
gli studi sui rischi dei dispositivi non sono fatti da enti terzi?
Philips
ha inviato dei test preliminari su questi dispositivi alla BFARM,
l’ente sanitario tedesco che l’Europa ha delegato per vigilare
sul caso: secondo BFARM i risultati sono rassicuranti (e questo ha
rassicurato anche il nostro ministero della Salute). Anche la ERS la
società europea dei medici per la respirazione, dichiara che non c’è
bisogno di sostituire questi device e il nostro ministero si adegua e
dirama una circolare che è un copia e incolla del parere dell’ente
sanitario BFARM e delle raccomandazioni dell’ERS.
Quest’ultimi spiegano a Report che si
deve mettere sul piatto da una parte il rischio di questi dispositivi
e dall’altra parte il danno nell’interrompere il trattamento e la
bilancia pende dal rischio nell’interrompere il trattamento, perché
il rischio è ipotetico – racconta il prof. Winfried Randerath
dell’ERS. Ma nemmeno lui ha visto i dati, “perché non siamo
tossicologi” ammette, ma i dati sono stati resi noti alle autorità
sanitarie.
Randerath
ha risposto alla domanda di Report sui suoi potenziali conflitti di
interesse con Philips: c'è stato ma è terminato spiega il medico
(che oggi non lavora più con Philips). In realtà nello scorso 25
aprile è la stessa Philips a smentire a Randerath: i risultati dei
test divulgati dall’azienda stessa sono preoccupanti, alcuni esami
sulla schiuma falliscono per genotossicità. La multinazionale ha
condotto i test su un numero esiguo di macchinari, alcuni solo su una
macchina, altri su 5, non il massimo della rappresentatività come
test.
Non
sono test tranquillizanti: altri test arriveranno nei prossimi mesi,
che si aggiungeranno a quelli arrivati a BFARM che hanno
tranquillizzato i medici, ma che in realtà non sono stati condivisi
con nessuno, nemmeno col ministero della salute italiano.
Report
ha fatto analizzare dei campioni del poliuretano dentro questi device
per capirne la bio compatibilità: le celle che compongono le schiume
perdono i pezzi – spiegano al centro polimeri di Reggio Emilia –
perde del materiale che può essere inalato e che possono rilasciare
sostanze chimiche nel nostro corpo. Idrocarburi insaturi, alcoli,
ammine, aldeidi (sostanze cancerogene): questa schiuma, quella della
Philips, non è biocompatibile.
Lo
racconta Report, doveva dirlo il ministero, gli enti di controlli, le
agenzie.
I
pazienti oggi stanno citando a giudizio la multinazionale olandese
che ha accantonato centinaia di milioni per questo rischio: per le
class action però ha reclutato un team di avvocati per respingere le
richieste di risarcimento.
Un
ex manager della Respironics, l'azienda comprata dalla Philips per i
respiratori, spiega a Report che il problema è molto più vasto,
perché molti dispositivi in Oriente non sono stati registrati, sono
fuori dalle campagne di recall. Significa che ci sono persone che li
stanno usando e la cui salute è a rischio.
Il
ministero della Salute non ha i dati dei pazienti covid che hanno
usato dispositivi Philips, alcuni sono ancora in uso.
IL
PAZIENTE ITALIANO di Claudia Di Pasquale
Nel
maggio 2020 il ministro Speranza ha investito 1,4 miliardi di euro
nelle terapie intensive (e terapie sub intensive, per ammodernare i
pronto soccorsi): mai più le scene della prima ondata, con gli
ospedali senza più posto per i malati. Ma come sono stati spesi
questi soldi?
Ma
al Cardarelli il pronto soccorso è in stato pietoso: l'inferno in
terra per i malati è qui, così diversi medici del pronto soccorso
hanno presentato le loro dimissioni.
All'ospedale
San Paolo, sempre a Napoli, mancano medici in accettazione. Al San
Giovanni Bosco, il pronto soccorso non può aprire perché qui
mancano proprio i medici accettisti.
Il
Loreto Mare era un presidio Covid: oggi è free covid ma è ancora
chiuso.
La
regione Campania ha puntato ad un nuovo presidio ospedaliero,
l'Ospedale del Mare: il direttore del 118 di Napoli racconta di
medici che se ne sono scappati da Napoli, mettendo a rischio il
diritto a vivere (nemmeno il diritto alle cure).
Durante
la pandemia abbiamo sacrificato i posti letto per curare i pazienti
covid, così abbiamo fatto saltare cure, operazioni non prorogabili.
Oggi il dato della mortalità è cresciuto, siamo al massimo dal
dopoguerra, e ondata dopo ondata, nulla è cambiato nella sanità.
Claudia
di Pasquale è andata negli ospedali nel Lazio, col caso di Teresa
Brogna e della madre, rimasta in pronto soccorso per sei giorni.
Mancavano i posti nell'ospedale di Latina, eppure questa struttura
avrebbe a disposizione 6 ml per ampliare i posti letto disponibili.
3
ml spettavano all'ospedale di Civitavecchia, invece: ma nemmeno qui i
posti sono stati creati, nonostante siano state fatte le gare.
A
Palestrina, il direttore dell'ASL 5, soggetto attuatore, nemmeno
conosceva i nomi delle ditte che hanno fatto i lavori per creare i
nuovi posti in terapia sub-intensiva.
Al Sant'Andrea i costi
sono saliti da 5 a 9 ml di euro, a pari posti letto creati (24),
peccato manchino i medici per questi posti.
Nel
frattempo al Sant'Andrea hanno chiuso reparti di chirurgia, così si
è fatto un accordo di convenzione con una struttura privata per fare
queste operazioni.
In
Italia ci sono pazienti che non sono riusciti a prenotare, in questi
mesi, nemmeno un esame radiologico: la giornalista di Report Claudia
Di Pasquale ha raccolto la testimonianza di Elena Codrea. Paziente
oncologica dell’ospedale Umberto I con un problema collaterale con
la chemio, in reumatologia l’hanno mandata a fare la MOC e,
chiamando il CUP ha ottenuto come risposta “mi dispiace ma
l’Umberto I non fa la MOC”. Non solo adesso, nemmeno tra sei
mesi, come se questo esame non esistesse: alla fine la MOC è stata
fatta dalla signora Codrea in un altro ospedale privato
convenzionato.
Dopo
l’intervista Elena Codrea ha chiamato il CUP dell’Umberto I per
prenotare una radiografia toracica: “non c’è disponibilità
presso l’Umberto I, non c’è l’agenda aperta” è stata la
risposta, al che la signora ha spiegato come, secondo l’oncologo
questa cosa non fosse possibile. Chi ha ragione, il CUP o l’oncologo?
Antonella
Salva, presidente dell’associazione La Fenice spiega a Report che
in Italia esiste una legge, la 266 del 2005, che vieta agli ospedali
di chiudere le agende (e di fatto non accettare più prenotazioni per
specifici interventi). La realtà è all’opposto: il covid,
racconta Antonella Salva, ha rubato posti a pazienti fragili,
pazienti oncologici, pazienti cardiologici, “noi abbiamo avuto
segnalazioni di pazienti oncologici tenuti cinque giorni in barella
al pronto soccorso.”
Non
sono stati fatti interventi oncologici, perché i pazienti dopo
l'operazione dovevano andare in terapia intensiva, ma questi posti
erano occupati dal covid.
I
nuovi posti di terapia intensiva all'Umberto I dovrebbero essere 48
ma ancora oggi siamo alla progettazione: a giugno 2023 dovrebbero
essere conclusi i lavori.
Ma
nemmeno i lavori di ristrutturazione sono finiti: colpa delle
progettualità, degli interventi – si giustifica l'assessore alla
sanità del Lazio, Amato.
Alla
regione Lazio spettano, dal decreto rilancio, 118ml di euro, ma ne ha
spesi 24 ml, a distanza di due anni: i posti dovevano essere 562 (nel
piano del 2020) ma ad oggi siamo a 30 posti. E così la regione deve
rivolgersi ai privati, come ammette quasi con orgoglio il presidente
Zingaretti.
La
regione Lazio ha speso 1miliardi per rimborsare la sanità privata:
la parte del leone l'ha fatta il Gemelli, poi il gruppo Villa Maria
di Sansavini, il Tiberia Hospital, l'istituto CasalPalocco...
Forse
se si fossero spesi meglio i soldi del decreto rilancio, non ci
sarebbe stato bisogno del privato.
In
Lombardia l'assoggettarsi al privato è una scelta politica: anche
qui i lavori per creare nuovi posti non sono completati, molti
reparti sono stati riconvertiti per il covid e i pronto soccorsi sono
sovraccarichi come nel resto dell'Italia.
Le
nuove strutture da realizzare secondo il piano commissariale non sono
state realizzate nemmeno in Lombardia (si parla del 12% dei lavori
completati), dunque, nonostante i soldi ci siano già.
Ci
sono poi casi strani: il reparto di cardiochirurgia del Sacco verrà
trasferito in centro, mentre si aprirà nella stessa zona un nuovo
ospedale privato, il nuovo Galeazzi (gruppo San Donato), con un suo
reparto di cardiologia. Una coincidenza.
A
Saronno nell'ospedale su dieci anestesisti, sette arrivano da una
cooperativa privata. Qui sono stati chiusi reparti come quello di
pediatria e il punto nascite. Nessuno nasce più nell'ospedale di
Saronno.
Né
il decreto rilancio né il pnrr prevedono nuovi posti letti per la
medicina ordinaria, nemmeno in Lombardia, la regione più colpita dal
covid.
Altre regioni non hanno comunicato a Report quanti soldi
fossero stati spesi dei decreto rilancio (quel 1,4 miliardi). Il
Molise non ha proprio cominciato i lavori.
Ma
è la stessa struttura commissariale che pecca di trasparenza: non ha
concesso alcuna intervista e non ha fornito i dati alla trasmissione.
Le
regioni ne hanno chiesto solo 335ml, la struttura del commissario ne
ha trasferiti solo 250 ml: significa meno visite e interventi oncologici, per non parlare di visite e interventi per malattie meno gravi. Che prezzo dobbiamo ancora pagare per questa pessima sanità pubblica?