31 dicembre 2023

La Venere di Salò di Ben Pastor

Come non affezionarsi ad un personaggio come Martin Bora: un militare così tedesco e, paradossalmente, allo stesso tempo così umano. Non troverete in altri libri un uomo che soffre, per le sue ferite: quelle fisiche che si vedono e quelle interne, che non si vedono.
In questo capitolo della sua lunga storia di guerra (iniziata nel 1936 con la guerra di Spagna ne “La canzone del Cavaliere”), è richiamato a Salò, come ufficiale di collegamento tra l'esercito tedesco e gli italiani , quel caotico mondo formato da GNR, brigate autonome (come la Muti), i reparti della X Mas di Borghese. Siamo nell'ottobre del 1944, ed è chiaro a tutti, tedeschi e italiani, che la guerra sia persa.
Ma nonostante ciò qualcuno ha deciso di chiudere i conti definitivamente con Bora, per i suoi scontri con le SS in Polonia (gli stermini degli Einsatzgruppen in Polonia, "Lumen") e a Roma (l'omicidio di un informatore della Gestapo, in "Kaputt Mundi").
Qualcuno, nell'ombra, sta raccogliendo prove, documenti, foto, per accusare Bora di alto tradimento.
Ricordo che siamo nei mesi successivi l'attentato di Von Stauffemberg contro Hitler, dove le SS scatenarono una caccia contro i cospiratori, uccidendo migliaia di tedeschi.
L'ultimo colpo di coda di un regime in agonia.

Oltre alla lotta antipartigiana, deve indagare sul furto di un dipinto di Tiziano, la Venere di Salò: furto che si intreccia (forse) con delle misteriose morti di giovani donne, uccise da un assassino che ne simula il suicidio.
Dovrà ancora fare affidamento al proprio fiuto investigativo per risalire la colpevole delle morti e sciogliere il mistero. Ma anche per salvare la propria vita dalla trappola della Gestapo.

Ma non è solo la guerra al centro dei pensieri di Bora: subisce il fascino della Venere del dipinto (dietro cui si celano le brame dei gerarchi nazisti perché nasconde un segreto). Ma anche di una Venere in carne ed ossa: ecco come Ben Pastor descrive l'attrazione crescere nel protagonista
Aveva una bellezza diversa dalle donne che preferiva – donne del suo colore, come le definiva – ma in lei percepiva uno spazio, un vuoto, nel cui lasciarsi andare. Era come un margine, possedere una donna come lei aveva un significato. [..] Il processo fu troppo rapido per capirlo. Bora, che per anni aveva severamente controllato i suoi istinti, si ritrovò a concludere in un solo inesplicabile istante che doveva possedere questa donna, che entrare in lei sarebbe andato bel oltre l'atto carnale. Sarebbe stato come possedere il vuoto per dominarlo, e scoprire che il vuoto stesso è.
La guerra: condizione di esistenza per un soldato come Bora, reduce dai duri mesi sulla linea Gotica. La guerra con le sue morti (tutte descritte con una propria dignità), i lutti, i rastrellamenti, i cecchini e le rappresaglie. La lotta contro i partigiani (guidati da un misterioso capo, Cristomorto), italiani contro italiani. Ma anche la guerra “vera” al fronte (sebbene tutta l'Italia del nord sia un unico fronte), e i bombardamenti alleati sulle città.
E lui: il soldato, ma anche l'uomo, sempre in bilico tra il dovere (che gli impone di obbedire agli ordini) e gli obblighi morali. Sempre più uomo e meno soldato, su cui pesano i ricordi delle passate campagne (la Russia, l'Italia, la Polonia), ma anche la profezia di Remedios (la strega che gli predisse altri sette anni).
Un uomo solo: abbandonato dalla moglie, Dikta, disilluso sul proprio destino, ma sempre alla ricerca dell'amore, della sua Venere.

Sorprende che, proprio una donna, sia stata in grado di descrivere così bene particolari così “intimi” di un uomo.
Un libro appassionante, coinvolgente, incalzante, fin dalle prime pagine: una lunga corsa alla caccia del mistero sulle morti, dove il cacciatore alla fine diventa preda di nuovi aguzzini. Un romanzo epico dei giorni nostri.
Buona lettura.

La scheda del libro sul sito di Sellerio
Technorati:

Il morto in piazza di Ben Pastor



Ben Pastor riesce a scrivere un libro ambientato in periodo di guerra, senza farcela vedere, la guerra. Protagonista del libro è il soldato detective Martin Bora, Tenente Colonnello della Wehrmacht: in fuga da Roma, dove l'avevamo lasciato al termine di Kaputt Mundi, viene comandato di una missione segreta, in un piccolo paese in Abruzzo, Faracruci.
In questo sperduto paese la guerra è lontana, ma la si percepisce lo stesso attraverso le rappresaglie dei soldati tedeschi contro i contadini e i partigiani, attraverso la miseria, attraverso i giovani strappati alle loro case, dove sono rimasti solo anziani, donne e bambini.


La missione di Bora è recuperare alcune lettere del carteggio Mussolini - Churchill, consegnate dal primo mentre era prigioniero a Campo Imperatore, ad un confinato politico, l'avvocato Borgonovo. Un Bora preoccupato per la missione, per cui dovrà eliminare un civile, per i ricordi del suo passato che riemerge: la morte del fratello, gli orrori della Russia, le SS, che stanno accumulando un dossier contro di lui. Ma anche il ricordo dell'amore lasciato a Roma, solo poche ore prima.
Ma, arrivato a Faracruci e preso contatto con Borgonovo, le cose si complicano, col ritrovamento del “morto in piazza”, un uomo ucciso misteriosamente e lasciato in vista di tutti sulla piazza del paese. Bora e Borgonovo iniziano ad indagare: chi era il morto? Cosa era venuto a fare in paese? Perchè è stato ucciso?


L'indagine li porta indietro nel tempo, fino agli anni della prima guerra mondiale, finchè non scoprono che il morto di è legato ad un vecchio omicidio, di 25 anni prima. Capiscono che antichi torti nel paese bruciano ancora oggi. “un antico crimine che non a caso sanguinava di nuovo, rivelandosi più importante dell'omicidio appena commesso, così che il morto in piazza che un simbolo per quell'altro morto”.

Una piccola nota storica: nel libro Ben Pastor formula l'ipotesi che nel carteggio siano contenute delle informazioni così stravolgenti, che se fossero cadute in mano delle SS o degli americani, avrebbero potuto portare alla rovina l'Italia, vittima di atroci rappresaglie come la Polonia nel 39, ma anche una parte della Germania stessa. Il tema del carteggio è uno degli argomenti più misteriosi e affascinanti della seconda guerra mondiale. Secondo alcuni storici, come Arrigo Petacco, non sarebbe mai esistito, ad ogni modo, nelle lettere non ci sarebbero contenuti particolarmente interessanti.
Ben Pastor ha svolto un'ampia ricerca presso gli archivi dell'esercito americano (a Washington, Philadelfia, Boston), dove sono conservate alcune "veline" di rapporti dell'OSS su questo fantomatico carteggio. Ovviamente le veline nulla dicono sull'effettivo contenuto del carteggio, salvo il fatto che esisteva e che andò avanti ANCHE durante l'ultimo scorcio della guerra. Ben Pastor si è rivolta anche ad archivi ufficiali londinesi, ricevendo un cortese rifiuto alla consultazione di carte ancora (e incredibilmente)
"secretate".
Qui in Italia, il principale consulente è stato Marco Patricelli, giornalista, docente universitario e storico (pubblica da Mondadori e Utet, ed è uno dei principali esperti di "crimini e misfatti" della Seconda Guerra Mondiale). Ringrazio l'editor Luigi Sanvito, che ha risposto ad una mia lettera, fornendomi queste informazioni.

Il romanzo associa al giallo d'azione, le pause riflessive di Bora, narrate con lo stile epico di Pastor: riesce ad essere appassionante e commuovente, riportando a galla pagine della nostra storia resistenziale. Ma l'aspetto che più si apprezza è l'utilizzo della guerra come mezzo per raccontare un dolore e una sofferenza personali, di un uomo costretto ad ascoltare la propria coscienza ma anche a rispettare i suoi doveri di soldato. Un uomo in bilico tra desiderio della vita e la paura della morte:

Ci sono momenti in cui penso che le SS mi abbiano dopotutto ucciso al limite del bosco di Swiety Bor, nel 39, e tutto questo sia l'incubo di un morto. Che gli ultimi cinque anni siano stati un trascurabile frammento dell'eternità che dovrò passare in Purgatorio, condannato a fare esperienza della guerra in tutte le sue facce .. E a volte penso invece che sto solo dormendo, e mi sveglierò nel 36, quando mi sono addormentato. La casa di famiglia, i miei genitori, Peter, ci saranno tutti. La via, il parco, la città. Benedikta mi sarà ancora ignota, e il dolore un'ombra lunga proiettata davanti a me, che dovrò cercare di evitare con tutte le mie forze”.
Il tema portante del libro è quello dell'esilio, della lontananza dal casa, come spiega l'autrice al termine. Tema che accomuna Bora e Borgonovo, personaggi così diversi per cultura, provenienza ed esperienze personali. Ma entrambi sono esuli, lontano dalla loro terra e dalla loro casa. La pagina dove si confidano i propri dolori è una delle più profonde della storia. Per questo dolore, la lontananza dalla propria terra, la scrittrice dedica questa storia a tutti gli abruzzesi, e tutti gli emigranti con loro, che non poterono tornare a casa.


Come mi è capitato con i precedenti capitoli della storia di Bora, anche al termine di questa vicenda mi rimane un triste vuoto, lo stesso che si prova per la partenza di una persona che si è imparato a conoscere ed amare.


La scheda del libro sul sito di Sellerio 
Technorati:


La finestra sui tetti e altri racconti con Martin Bora, di Ben Pastor

 

Gli otto racconti qui raccolti, quattro ambientati sul fronte orientale e gli altri su quello italiano, ci raccontano secondo nuove prospettive questo personaggio letterario, complesso e allo stesso affascinante, Martin Bora, ufficiale dell’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale, volontario in Spagna nel 1937 (La canzone del cavaliere) – laddove la strega Remedios gli rivelerà il suo destino Quando mi si mostrerà di nuovo, sarà perché dovrò morire .
Nel 1939, nei mesi che precedono la guerra, che in cuor suo non vede l’ora di attraversare, il giovane ufficiale Bora, già in servizio presso l’Abwher, il servizio segreto militare (spesso in contrasto con le SS), deve seguire un incontro tra uomini d’affari e militari giapponesi (Il signore delle cento ossa).
Nel 1939 in Polonia, alle prese con l’omicidio di una suora in odore di santità (Lumen).

Un anno dopo, nel 1940 in Francia, in Bretagna, all’indomani della capitolazione dell’esercito francese, quando deve mettersi in contatto con un vecchio ufficiale, eroe di guerra.

Lo ritroviamo a Creta, nei luoghi che richiamano i romanzi etici che ha studiato, per la sua formazione classica, ma dove deve dar la caccia agli assassini di una famiglia svizzera (La strada per Itaca).

Martin Bora, per inseguire il suo destino di militare è andato volontario anche sul fronte russo due volte, nel 1941-42 la prima volta, riuscendo anche a sfuggire all’assedio di Stalingrado (La sinagoga degli zingari) e successivamente nell’estate del 1943 seguendo la seconda fallimentare offensiva tedesca a Kharkov (Il cielo di stagno).
Dopo la disfatta in Russia, il fronte italiano: prima nel veronese, alle prese con la morte di un gerarca fascista (Luna bugiarda), dove subirà l’amputazione della mano sinistra a seguito di un attacco dei partigiani. Successivamente a Roma, nell’inverno più lungo della capitali, città aperta per le leggi di guerra, ma alle prese con la miseria, la caccia agli ebrei, col fronte sempre più vicino (Kaputt Mundi).

In Abruzzo, nell’estate del 1944, inseguendo dei documento segreti di Mussolini, si è imbattuto ne “Il morto in piazza”. Pochi mesi dopo la sua strada ha incrociato quella degli ufficiali che organizzarono l’attentato a Hitler, come il colonnello von Stauffemberg (La notte delle stelle cadenti). Poi un ritorno in Italia, nei mesi drammatici in cui il paese era diviso dalla guerra e dall’odio di italiani contro italiani, specie al nord nella repubblica di Salò (La Venere di Salò).
Eccetto i primi due romanzi, sopra elencati in ordine cronologico, non nell’ordine della pubblicazione dei romanzi (l’autrice Ben Pastor è andata avanti e indietro nel tempo), sono tutti ambientati nel corso della seconda guerra mondiale: una guerra in cui il giovane ufficiale tedesco ci si è gettat
o, come gli eroi di Omero si gettavano nella battaglia qualche secolo prima. Di cultura classica, laureato in filosofia, un padre naturale musicista e un patrigno che è stato generale nella prima guerra mondiale. Sangue tedesco, ma anche scozzese, per parte di madre. Un figlio della Sassonia, la regione ad est della Germania che confina con la Polonia, ma anche un figlio della nostra terra, per le estate passate a Roma.

Attraverso i suoi racconti, l’autrice ci racconta la Storia, quella con la S maiuscola: le grandi battaglie, i personaggi che troviamo sui libri di storia. Una guerra che è descritta dal punto di vista strettamente personale di questo personaggio che, per citare Pirandello, è uno e nessuno e centomila: ufficiale dei servizi che ha prestato giuramento alla patria, al Fuhrer, ma anche uomo che si trova di fronte tutti i problemi etici che questa guerra gli mette di fronte e che fanno cadere, una dopo l’altra, tutte le sue certezze, fanno scemare quell’entusiasmo con cui aveva indossato la divisa. I cadaveri dei civili polacchi raccontati in Lumen, che lo metteranno per la prima volta sul libro nero delle SS.

La guerra in Russia, che non era più una battaglia tra eserciti, ma uno sterminio di uomini contro uomini, dove si era andati oltre tutte le leggi di guerra.

L’uomo giusto nella divisa sbagliata”: così lo definisce Luigi Sanvito, che cura per Sellerio i romanzi di Ben Pastor, nell’introduzione a questa raccolta. L’uomo giusto, alle prese con tutti i contrasti nati dalla sua natura, di soldato e di uomo con dei valori. Ma anche la natura di investigatore, per tutti i casi che, nel corso delle sue storie, si è trovato ad affrontare: sono delitti nati dalla guerra, le piccole storie, con la s minuscola, che aiutano anch’essi a raccontare il clima, il contesto, la vita di quegli anni in cui in Europa era diventata terreno di battaglia.

Ufficiale di carriera dell’esercito tedesco che ordini superiori o il semplice caso prestano all’attività investigativa, Bora deve affrontare non solo intricatissimi misteri criminali, ma anche, forse soprattutto, i paradossi che scaturiscono dalla sua scomoda posizione di «uomo giusto nella divisa sbagliata»: che senso ha indagare su singole morti per omicidio mentre tutt’attorno infuria l’apocalittica carneficina della guerra, assassinio legalizzato per eccellenza?
Come conciliare l’etica Kantiana (e i precetti cristiano cattolici, sia pure con qualche sfumatura protestante) con la consapevolezza, sempre più matura di anno in anno (e di romanzo in romanzo, dalla Spagna del ‘37 de La canzone del cavaliere alla Repubblica Sociale italiana del ‘44 de La Venere di Salò), di essere oggettivamente al servizio di una delle dittature più sanguinarie della storia recente italiana?

In questi racconti, i primi quattro ambientati sul fronte orientale e gli ultimi su quello italiano, troviamo il delitto, il mistero, la scena del delitto che racconta del morto, del suo assassino e a volte è una messa in scena per sviare l’investigatore, Martin Bora che, ad occhi esterni, può apparire distaccato, freddo, senza alcuna sensibilità apparente. Un investigatore che deve mettere assieme i pezzi per arrivare alla soluzione del caso che, se non è sempre consolatoria, almeno restituisce un poco di giustizia e di luce in questo mondo sommerso dalle ombre del male.

I racconti contenuti in questa raccolta

Parte prima - il fronte orientale

Tre fratelli

Il primo enigma per Martin Bora si presenta nel 1941 in Ucraina, dove in una stazione incontra il professor Vladimir Propp: mettendolo di fronte ad un indovinello, il professore aiuterà Bora nella soluzione di un delitto, la morte di una donna trovata dentro una pozza. Propp lo metterà di fronte ai pericoli della sua “avventura”, la guerra in Russia

Mi chiedo quanto sia sensato che lei persegua questa avventura nel mio paese.  

L’eroe si inoltra in un regno sconosciuto, e se riesce ad uscirne, ne emerge profondamente cambiato.

La finestra sui tetti

A Praga nel maggio 1942, Bora deve eseguire un compito rischioso per l’Abwher, che stanno indagando sui piani criminali di Heydrich, Reichprotektor della Boemia e Moravia.

Dalla sua “finestra sui tetti” di Praga sarà spettatore dei preparativi dell’attentato a Heydrich. Qui impara, per la prima volta, quanto sia difficile nascondere la sua natura, i suoi sentimenti, per colpa degli incarichi che deve svolgere:

La mia è una finestra alta, si disse, dalla quale si gode di una vista privilegiata e solitaria. E benché il prezzo in ballo fosse la vita, stanotte sembrava a Martin Bora che che il gioco richiedesse meno eroismo che coraggio: il coraggio di apparire indifferente a coloro ai quali più teneva.

Il giaciglio di acciaio

Siamo a Stalingrado, nel 1942: questo racconto è come un capitolo del romanzo La sinagoga degli zingari, tutto è concentrato nei pochi giorni tra Natale e fine gennaio, quando assieme ai suoi uomini, Bora riesce a scappare dalla tenaglia dell’esercito russo. Salvando la sua vita, ma lasciandosi dietro un pezzo della sua anima. O forse anche la vita stessa.. A tenere vita la sua speranza, a non volersi lasciar andare, i ricordi della sua infanzia, dei suoi cari, dell’amata Dikta, la moglie lasciata in Germania a cui dedica, in una lettera, i versi di Garcia Lorca

Voglio morire, decentemente in un giaciglio

D’acciaio se possibile,

con vere lenzuola

Onegin

Questa volta non è un omicidio quello in cui inciampa Bora, ma un padre che ha denunciato il figlio ai tedeschi, esponendolo al rischio di una condanna a morte. Dietro, come si scoprirà, una storia di violenze e di vendette, non come quella raccontata da Verga con compare Turiddu, ma piuttosto come quella raccontata in Otello: in questo racconto si affronta il drammatico tema degli stupri come arma di guerra, un aspetto purtroppo ancora presente nelle guerre moderne.

Parte seconda – fronte italiano

Il sangue dei santi

Siamo a Lago, nella provincia veronese, nel dicembre 1943: l’indagine in cui viene coinvolto Bora è l’omicidio di un prete, don Ivo, descritto da tutti come “un sacerdote attento e un bravo giovane”.

Ritroviamo in questo racconto l’ispettore Guidi (protagonista nei romanzi Luna bugiarda e Kaputt Mundi) che dovrà, con una certa riluttanza, collaborare con Bora per far luce su un traffico di reliquie, sui responsabili dell’omicidio, con una riflessione finale su fede, fiducia e ingenuità, “sono credente e perfino ingenuo” si trova a dire l’ufficiale tedesco. In tempi di guerra e di sofferenza, anche questa ingenuità aiutava ad andare avanti.

Nodo d’amore

Nel gennaio 1944 Martin Bora è a Roma, come aiutante di campo del generale Westphal: avendo dimostrato di saper sbrigliare casi complicati, non solo al fronte, viene mandato a Littoria ad aiutare le autorità italiane, polizia e carabinieri, coinvolte in un caso di omicidio. Un gioielliere, italiano ma adottato da una famiglia ebrea, ucciso nel tentativo di una rapina, i ladri oltre ai soldi si sono portati via una spilla di grande valore, un nodo d’amore in oro arricchito con diamanti. La moglie, sospettata del delitto da parte della polizia, è una cittadina tedesca, da cui l’interessamento delle autorità militari. Un uxoricidio, dunque? Nella testa di Bora si accumulano dei dettagli apparentemente insignificanti, ma non meno molesti (e non meno dolorosi, se sommati al pensiero della moglie Dikta di cui non ha notizie)

Il telefono staccato, l’amante, il grembiule fradicio e insanguinato dentro l’armadio. Rapallo, i bordelli del nord Italia, l’Agro Pontino redento. Il nodo d’amore per cui si uccide e per cui si tace.

Non si sentivano i treni

Dopo la ritirata da Roma, conquistata dagli alleati nel giugno 1944 (e di cui abbiamo letto in Kaputt Mundi), l’unità di Bora si è trasferita sulla linea gotica, sull’appennino. Qui, in viaggio in treno (uno dei pochi treni in circolazione in tempi di guerra) Bora fa uno strano incontro: un signore anziano che, inaspettatamente, gli rivolge la parola, con l’intenzione di raccontargli una storia, due delitti avvenuti in una casa di campagna qualche anno prima. Una storia di due amanti uccisi per gelosia, di rimorsi e di un lupo che va a bussare a casa del cacciatore.

Bocca d’Inferno

Nell’ultimo racconto vediamo Bora, promosso colonnello, in azione sull’appennino nord occidentale nel settembre 44: in azione contro le “bande” dei partigiani, formazioni irregolari secondo il linguaggio burocratico della guerra, ex militari, renitenti alla leva, giovani che in quel drammatico inverno presero le armi per aiutare la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazi fascista. Ancora una volta è una indagine, apparentemente slegata dalla guerra, ad incuriosire Bora: una giovane donna, rimasta vedova, che sarebbe stata rapita da una famiglia di proprietari terrieri che l’ha portata nella sua cascina, a Bocca d’Inferno.

Siamo sulla linea Gotica dove, come ai tempi dei “barbari” si uccidono civili, si lotta per il possesso di un lembo di terra, si uccidono prigionieri. Come succederà a Bora, che dovrà applicare le dure leggi di guerra, nonostante la consapevolezza di stare dalla parte sbagliata della guerra, “il disinganno rispetto allo zelo idealista” dei primi anni di quella guerra dentro cui era dentro da ormai cinque anni.

Perché leggere questo libro? Per chi non ha mai letto nulla di Ben Pastor, è l’occasione per avvicinarsi a questa autrice e scoprire questo personaggio complesso, affascinante e scostante, l’ufficiale dei servizi Martin Bora. Per chi, come me, ha letto tutti i romanzi della serie, sono di aiuto per raccordare assieme tutte le storie già lette nei romanzi “lunghi” della scrittrice americana ma di origini italiane, editi da Sellerio.

Questi i romanzi di Ben Pastor con Martin Bora editi da Sellerio (alcuni erano già stati pubblicati da Hobby & Work)

La scheda del libro sul sito dell'editore Sellerio

I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon


25 dicembre 2023

Assalto alla Lombardia, di Marco Sasso

Prologo

Dal 1995 ad oggi la partita per il controllo della Regione Lombardia, l’ex locomotiva d’Italia per modello economico e sociale, si è giocata in una sola parte del campo politico, il centrodestra.

Quella dell’eccellenza lombarda è stata tuttavia una falsa narrazione, uno storytelling vecchio e vuoto di contenuti di fronte all’impatto delle crisi globali, delle sfide del cambiamento climatico e della pandemia da Covid-19, se si confrontano i dati socioeconomici con altre regioni italiane ed europee. Il ciellino Roberto Formigoni, durante 18 anni di governo ininterrotto, ha piegato l’istituzione del Pirellone ai propri interessi personali e di appartenenza politica al mondo di Comunione e Liberazione, con leggi e delibere che hanno favorito l’esplosione dei privati nel mondo della sanità. Formigoni ha saputo per primo sfruttare l’indebolimento del patto costituzionale, facendolo diventare la base per un governo locale palesemente antistatale che punta alla distribuzione della sovranità a una pluralità di soggetti che tengono insieme il privato e il pubblico.

Negli ultimi trent’anni la giunta non ha saputo né voluto mediare tra gli interessi plurali della società che rappresenta e, attraverso i suoi “mandarini” di Palazzo, ha abdicato al suo ruolo pubblico di regolatore e decisore del mercato. Il paradigma è nel campo sanitario la legge regionale del 1997, che ha sancito un modello diverso da quello nazionale (in nome della libertà di scelta e della sussidiarietà tanto cara ai ciellini) e ha messo le basi per un ampio impoverimento del pubblico. Dagli anni ’90 i gruppi privati decollano e si trasformano in colossi: oltre al San Raffaele e alla Fondazione Maugeri, nel 1994 apre l’Istituto europeo di oncologia di Umberto Veronesi, nel 1996 viene inaugurato l’Humanitas di Gianfelice Rocca, il gruppo San Donato di Giuseppe Rotelli inizia ad espandersi fino ad arrivare a 18 ospedali, tutti rigorosamente accreditati.

Ma il velo è stato sollevato con la pandemia e i lombardi si sono trovati con il cerino in mano di un servizio non all’altezza. La privatizzazione della sanità è il simbolo di una vita pubblica devastata dalle logiche del puro profitto e interamente subordinata agli affari di pochi che non ha invertito la rotta nemmeno con l’ultima riforma sanitaria targata Moratti. Anche quest’ultima legge regionale sdogana definitivamente la logica dell’equivalenza tra i due modelli, quello pubblico e quello privato, e l’ex vicepresidente si è limitata a inaugurare ex consultori pubblici trasformati in case di comunità.

Nemmeno i leghisti Roberto Maroni e Attilio Fontana hanno mai proposto un nuovo modello più vicino alle esigenze dei lombardi, perpetuando uno schema di gioco che prevede il controllo “militante” della macchina burocratica. Una regione spesso contro, che osteggia la Costituzione repubblicana e pretende di andare per la propria strada anche con i governatori leghisti al comando in tema di diritti e autonomia fiscale.

L’efficientismo di facciata del centrodestra ha mostrato tutti i suoi limiti con la pandemia da Covid-19 che ha causato oltre 40mila morti solo in Lombardia, con il triste record della provincia di Bergamo dove i decessi sono aumentati a marzo 2020 del 568% rispetto agli anni precedenti.

Il titolo non è stato scelto a caso: assalto è proprio la parola più corretta per raccontare quello che ha fatto il centro destra in regione Lombardia negli ultimi 20 anni, anzi, andando indietro fino al 1997, quando sono partite le politiche di privatizzazione della sanità con le leggi volute dall’ex presidente Formigoni. Un assalto, una completa e totale occupazione dei posti di potere in tutte le strutture in cui si articola la macchina di governo regionale, dalla sanità, all’istruzione, al settore dell’edilizia pubblica, ai trasporti, all’agricoltura. Un sistema di potete, quello della Lombardia, dove sembra di essere tornati indietro di secoli: le cariche e le nomine, dai direttori delle ASL fino all’ultimo dei funzionari sono assegnati secondo la tessera politica, dove la fedeltà politica alla Lega a Comunione Liberazione, a Forza Italia e, oggi, anche a Fratelli d’Italia (che nelle ultime politiche ha sorpassato gli alleati nella coalizione) va sopra ai principi di competenza, esperienza, professionalità.

Come nel vecchio medioevo con i Vassalli, Valvassori, Valvassini.
Una sorta di reddito di cittadinanza al contrario: risorse pubbliche spostate verso manager, dirigenti e funzionari pubblici arruolati per tessera di partito, distribuendo rendite di posizione e allevando una generazione di politici che da Milano oggi hanno fatto il salto politico e sono atterrati a Roma.

Il saggio di Marco Sasso è stato scritto tra la fine del 2022 e i primi mesi del 2023, prima delle elezioni regionali avvenute a febbraio 2023 che hanno visto ancora una volta prevalere, come avviene ininterrottamente dal 1995, il centro destra. Nelle intenzioni dell’autore, questo libro avrebbe dovuto aprire gli occhi ai cittadini lombardi, sbattendogli in faccia quella che è la realtà che sta dietro la macchina della propaganda (che paghiamo tutti noi cittadini, anche quelli che non votano Lega o FDI).
Purtroppo l’autore non c’è riuscito: nonostante quanto è successo nemmeno tanti mesi fa ai tempi del Covid, quando la Lombardia è stata la regione con più morti nel mondo, quando il ciclone dei contagi ma mandato in crisi ospedali, pronto soccorsi, quando medici e infermieri si sono trovasti senza dispositivi per proteggersi perché le ASST ne erano sprovviste, senza nemmeno un protocollo aggiornato per combattere la pandemia (o una influenza) perché quello esistente non era stato aggiornato.

Il falso mito dell’eccellenza lombarda

Privato è bello (o così ci hanno raccontato)

L’aggressione ai beni comuni è stata il fil rouge della politica che ha segnato i 18 anni di “regno” del ciellino presidente Roberto Formigoni, che grazie al comunitarismo cattolico ha incrementato gli affari privati: a sua firma la legge regionale n. 31 del 1997 che rivoluziona – per la prima e unica volta in Italia – la sanità assumendo come principio ispiratore la sussidiarietà solidale per assicurare l’erogazione uniforme dell’assistenza. Formigoni è al governo della Lombardia da due anni quando viene emanato il provvedimento che contrassegnerà i successivi cinque lustri politici e il futuro delle cure di milioni di lombardi di oggi e di domani. Attraverso quel principio tanto caro ai seguaci di Gioventù studentesca e al mondo di Comunione e Liberazione, il privato entra prepotentemente nel Servizio sanitario regionale grazie all’accreditamento, formalmente per cooperare alla pari con le strutture pubbliche, nei fatti per essere supportato e foraggiato dal Servizio sanitario, riservando per sé i settori più remunerativi della sanità e dell’assistenza, quali ad esempio i reparti di alta specializzazione in cardiologia, i centri di eccellenza di ricerca o le Residenze socioassistenziali (Rsa), lasciando alla medicina pubblica la gestione dei settori meno redditizi come i servizi di emergenza-urgenza, quelli dedicati alle dipendenze da alcool e droghe e la psichiatria. In questa gara impari il pubblico si vedrà tagliare migliaia di posti letto sostituiti dalle strutture private accreditate. Tra decine di leggi e norme ad hoc, nella sostanza è stata assicurata agli imprenditori, in assenza di vincoli di programmazione della Regione Lombardia, la possibilità di orientare le proprie attività verso prestazioni con rapporto favorevole tra rischio e remunerazione.

Ancora una volta la macchina della propaganda che in regione Lombardia funziona molto bene (contro gli immigrati, contro l’islam, contro gli ambientalisti, contro le associazioni LGBQ+), ha prevalso contro la logica dei fatti. La propaganda che ci racconta come la sanità qui sia una eccellenza, una parola che Formigoni, condannato a 5 anni per corruzione, ripeteva davanti ai giornalisti: eccellenza e sussidiarietà, quel principio tanto caro ai suoi amici di Comunione e Liberazione, per cui nei suoi anni di governo si è svuotata la sanità pubblica, chiudendo presidi, ospedali, consultori, per far spazio al privato in convenzione. Perché bisognava dare ai cittadini lombardi la possibilità di scegliere tra pubblico e privato, mettendoli in una sorta di competizione falsata: da una parte si toglievano risorse al pubblico, dall’altro si drenavano fondi regionali per finanziare strutture private basate sulla logica del profitto che, nei mesi della pandemia, nemmeno si sono fatte carico del carico dei malati per covid.

Marco Sasso racconta del rapporto privilegiato che ha il gruppo San Donato di Giuseppe Rotelli, tra gli esperti che hanno scritto la riforma sanitaria del presidente Formigoni: tra accreditamenti, passando per l’acquisizione dell’ospedale San Raffaele, la trasformazione di ospedali privati in Irccs, istituti di ricerca che, sempre grazie a Formigoni, possono accedere a fondi per la ricerca, il Gruppo San Donato tra il 2001 e il 2021 riceve rimborsi pubblici per 17 miliardi di euro (che rappresentano l’80% dei suoi ricavi).

Se guardiamo i dati dei Livelli Minimi Essenziali, i LEA, la Lombardiasta al quarto posto, dietro ad altre regioni come Emilia Romagna dove, tra le altre cose, gli ospedali di prossimità distribuiti sul territorio, esistono da anni.
Finita la pandemia si è detto che, basta, bisognava rafforzare la medicina territoriale, che il modello ospedalo-centrico tanto amato dalle giunte di centro destra, aveva fallito: ma è stato solo un fuoco di paglia, nemmeno la riforma voluta da Letizia Moratti ha cambiato le cose. Come ha raccontato più volte Report nei suoi servizi, si sono solo fatte tante inaugurazioni delle case di comunità, senza mettere un euro (nemmeno dal PNRR) per inserire nuovo personale in strutture che già esistevano e che hanno solo cambiato nome.
Lo spiega bene l’autore mettendo uno dietro l’altro cifre e dati: la sanità in Lombardia costa più che nelle altre regioni, andando a smentire l’altra voce della propaganda secondo cui il privato cosa meno ed è più efficiente.
Ma quale eccellenza? Dove ti giri in Lombardia si trovano sempre più ambulatori privati o cliniche smart dentro le fermate della metropolitana, nei supermercati, alla faccia del diritto alla salute dei cittadini.

Nemmeno il covid è riuscito a cambiare l’approccio ideologico iperliberista (privato buono, pubblico cattivo) dietro queste scelte politiche: prima il privato, quello che è vicino al tuo partito o alla tua corrente. E non importa se questo calpesti i diritti delle persone: un capitolo del libro è dedicato alla legge 194 che concede a tutte le donne il diritto ad abortire in modo sicuro.

Per motivi essenzialmente solo ideologici (e oscurantisti), tutte le giunte regionali hanno fatto tutto il possibile per ostacolare questo diritto, cominciando dal bloccare l’uso della piccola RU 486, con la massiccia presenza di medici abortisti in strutture accreditate (una stortura della legge, quella dell’obiezione, che nessun governo ha cancellato).

A che serve cancellare una legge come la 194 (come anche la stessa presidente Meloni ha dichiarato) quando puoi ostacolarla con la burocrazia? Quando puoi cancellare i consultori, strutture nate a fine anni 70 per aiutare le donne nelle problematiche legate alla sessualità, sostituendoli con strutture private, pagate da noi, gestite da associazioni “pro vita”, dunque fortemente ideologizzate, che non applicano la legge?

Dove sta la sicurezza delle donne?

Nel cuore del potere lombardo

È notizia di questi giorni che in regione si stanno ultimando le nomine nel comparto della sanità, un settore che vale 22 miliardi di euro ogni anno, una bella fetta del bilancio regionale. Qui si gioca la vera partita del potere: il cuore del potre sta tutto nella partita delle nomine dove, per la prima volta, il partito di Giorgia Meloni potrebbe avere più posti di quelli degli altri partiti della coalizione, la Lega di Salvini e Forza Italia di Tajani, anche andando ad allearsi con i vecchi potenti di Comunione e Liberazione, andando perfino a riesumare personaggi spariti dalla scena politica come Lucchina (ex braccio destro di Formigoni) o Mantovani (ex vice presidente, passato da Forza Italia a Fratelli d’Italia).
L’autore, nel capitolo “Nel cuore del potere” racconta tutte le vicende giudiziarie che hanno coinvolto esponenti del centro destra in questi ultimi anni: non tutte hanno portato ad una condanna in via definitiva, come nel caso Formigoni per i regali e i soldi presi dalla fondazione Maugeri in cambio delle scelte in ambito sanitario, ma tutte raccontano la stessa cosa, ovvero che il l’interesse pubblico passa in secondo piano, dopo il profitto del privato.

Ma il capitolo racconta anche altro: le porte girevoli in regione, dove si danno incarichi a politici trombati alle elezioni nazionali, dove si assumono per consulenze ben remunerate giornalisti e personaggi senza esperienza ma solo con la tessera giusta in tasca. È una macchina che mangia tanti soldi nostri, quella regionale: la sobrietà non è una dote del “celeste”, come si faceva chiamare Formigoni, che nonostante il voto di povertà si è fatto costruire un nuovo palazzo, il Pirellone, con tanto di eliporto sul tetto (costato 50 ml di euro), con un ufficio arredato nel segno dello sfarzo e del lusso (dove per l’arredo si sono spesi 42 milioni di euro). Tutti soldi nostri, ricordiamocelo sempre.

Ma nemmeno Salvini ha dalla sua la dote della sobrietà: per la sua macchina della propaganda social, la bestia, ha investito milioni euro finiti nella società del suo guru, Luca Morisi, che veniva pagato due volte: direttamente dai gruppi parlamentari e poi anche per gli appalti che le ASL in regione concedevano alla sua società.

Una forma di ritorno economico per l’uomo che ha portato milioni di follower al segretario della Lega passato da Roma ladrona a prima gli italiani..

Tanto quanto nella sanità, anche nell’istruzione la fanno da padrona i privati: il principio è sempre lo stesso, la sussidiarietà, ovvero dare a tutte le famiglie la “libera scelta” di mandare i figli in una struttura pubblica o in una privata (essenzialmente una cattolica).

Ovviamente è un principio che favorisce il privato, che in proporzione agli studenti che frequentano le sue scuole, prende molti più soldi rispetto al pubblico. Ancora altri numeri (che troverete leggendo questo libro): 24 ml date alle scuole private nella dote scuola, di fronte solo agli 8 ml dati alle famiglie con disabili.

Vita quotidiana in terra lombarda

L’ultimo capitolo è una lunga carrellata dentro la vita dei lombardi a cominciare dai trasporti regionali, un mondo che conosco molto bene essendo un pendolare di Trenord da più di venti anni.

Anche nel trasporto regionale vale la tessera di partito, nonostante lo stato impietoso dei trasporti, con treni affollati, in ritardo, con problemi di manutenzione. La regione avrebbe il ruolo di controllore su Trenord, che si prende ogni anno 950 ml di euro dalle nostre tasse per far funzionare i treni: ma è la stessa regione che in questi anni ha favorito il trasporto su gomma, costruendo e finanziando altre autostrade (oltre 400 km di nuove autostrade da qui al 2030) dimenticandosi del fatto che buona parte delle linee regionali sono ancora a binario unico.

Le precettazioni di queste settimana hanno acuito la tensione all’interno dell’azienda, portando ad una situazione di estrema difficoltà per i viaggiatori, sottoposti allo stress di treni soppressi o in ritardo.

Aler è invece l’azienda regionale che si dovrebbe occupare dell’edilizia pubblica: nonostante ci sia una grande fame di alloggi pubblici (e 20000 sfratti esecutivi nell’area metropolitana), molte delle case dell’ente regionale sono chiuse, sfitte, perché inagibili. Servirebbe almeno 1 miliardo per sistemale, ma i conti in rosso (700ml di debiti) impediscono ogni investimento.

Così l’azienda, dove a farla da padrone sono manager di area vicina al centro destra, è costretta a vendere le case. E chi rimane fuori dalle graduatorie deve arrangiarsi.

Nonostante la pianura padana sia la zona più inquinata d’Italia, nonostante l’inquinamento causato dal traffico su gomma, dagli allevamenti intensivi, dalle attività industriali, la regione ha da sempre preferito investire nel trasporto su gomma, andando anche a finanziare la famigerata Brebemi, l’autostrada che si doveva finanziare da sola in project financing e che invece rischiava di trasformarsi in un lungo campo da calcio.
Non solo, la regione ha ostacolato i piani del comune di Milano sull’Area C, sui divieti di circolazione dei mezzi più inquinanti: ogni anni circa 90000 persona sono vittime di malattie legate all’aria cattiva che si respira, ma nonostante questo si continua ad andare avanti a consumare suolo per nuove autostrade, nuovi capannoni per la logistica (col miraggio dei posti di lavoro, che non si sa quanto dureranno), a sottrarre suolo pubblico che viene ricoperto da cemento (nel solo 2020, l’anno del covid, sono stati cementificati 750 nuovi ettari di suolo). La Lombardia è, secondo i dati di Ispra, la prima regione per consumo di suolo.

E nei pochi campi rimasti, c’è il rischio che siano inquinati per lo sversamento di fanghi tossici: lo racconta il giornalista nel capitolo “la pianura padana infangata” dove racconta di come, sfruttando le maglie larghe della legge regionale sui fanghi ottenuti dalla depurazione di scarti industriali, la WTE SRL abbia inquinato i terreni di diversi campi nel bresciano.

Io ogni tanto ci penso, cioè, chissà il bambino che mangia la pannocchia di mais cresciuto sui fanghi”: così diceva un dipendente dell’azienda in una intercettazione. Chissà se ci pensano a questa pianura cementificata, infangata, in regione? E che ne dicono i vertici di Coldiretti, associazione da tempo vicina a questa maggioranza di destra?

C’è una alternativa a questa politica, a questo gruppo di potere, a questa gestione del potere in Lombardia? Nell’ultimo capitolo del libro l’autore fa un bilancio amaro della situazione: a sinistra c’è un vuoto, il PD non è ritenuto dai cittadini un partito a cui dare fiducia per combattere queste battaglia per la sanità pubblica, per la scuola pubblica e laica, per la difesa dell’ambiente e per la fine delle spartizioni politiche nelle nomine pubbliche.

Non solo, il famoso modello Sala non si discosta (sul consumo del suolo, sulla gestione del bene pubblico) dal modello di questa destra. Che rimane allora? Rimangono le tante associazioni sul territorio che portano avanti con grandi difficoltà queste battaglie, come Non una di meno, il Forum Salviamo il Paesaggio (come recita l’articolo della Costituzione), Dico 32, gli studenti di Fridays for future, Asgi e Naga, l’associazione che ha smascherato le terribili condizioni dentro il CPR di via Corelli a Milano.

Ci dobbiamo rassegnare alla padanizzazione dell’Italia, ora che questa coalizione di destra sta governando il paese, togliendo risorse alla sanità e depotenziando i servizi pubblici? Abbiamo cinque anni per leggere questo libro e comprendere cosa sta succedendo in Lombardia e in Italia.

La scheda del libro sul sito di Laterza, l’intervista all’autore e un estratto.

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18 dicembre 2023

Luci nella notte, di Georges Simenon

 


Lui lo chiamava entrare nel tunnel. Era un'espressione sua, di cui sentiva solo nella sua testa e non usava con nessuno, meno che mai con la moglie. Sapeva esattamente cosa voleva dire, in che cosa consisteva trovarsi nel tunnel, ma curiosamente quando c'era dentro si rifiutava di ammetterlo, salvo di tanto in tanto, solo per qualche istante e sempre troppo tardi. Aveva provato spesso a posteriori a individuare il momento preciso in cui accadeva, ma senza riuscirci.

Poche volte mi è capitato di venire rapito così da un romanzo: è il racconto di due persone, marito e moglie, la cui vita viene sconvolta nell’arco di una lunga notte, quella in cui, come altri 45 milioni di persone, lasciano la città per andare a passare una vacanza nel week end del labour day, che segna un po’ la fine dell’estate.

Simenon ce li fa conoscere mentre si preparano ad partire la sera di venerdì: Steve e Nancy, impiegati come tanti, una bella casa a Long Island e due figli che stanno per raggiungere i figli ad un camping nel Maine.

Mentre le luci della città iniziano a sparire dal lunotto posteriore, all’interno di quei pochi metri quadrati della macchina si percepisce che c’è della tensione tra i due. Per quei bicchierini di troppo che lui deve bere e che sa che lo porteranno nel suo “tunnel”, quello stato d’animo in cui ci sono solo le recriminazioni contro la moglie, il mondo intero.

In una notte come quella, per esempio, una indimenticabile notte in cui c'erano 45 milioni di macchine in giro per le strade, l’importante invece era capire, e per capire era indispensabile uscire dai binari.

Perché, questo pensa Steve, la moglie non lo considera un vero uomo, costringendolo a far viaggiare la sua vita sempre secondo quei binari lunghi e dritti, come quell’autostrada dove tutti sono bloccati. In quella sera le loro vite sono destinate a cambiare per sempre, perché incroceranno sulla loro strada un evaso, Sid Halligan. Steve lo incontra in un bar, in cui è entrato in un gesto di sfida nei confronti della moglie.

Appena entrò in macchina vide l'uomo, seduto al posto che avrebbe dovuto occupare Nancy. Nonostante l'oscurità riconobbe subito l'ovale allungato del viso, gli occhi lunghi, e non si spaventò di trovarlo là, né di tutto ciò che da quella presenza poteva derivare. Anziché indietreggiare, esitare o magari mettersi sulla difensiva, Steve si sistema comodamente tirandosi un po' su un orlo dei pantaloni come faceva sempre, allungò il braccio e chiuse con forza lo sportello poi abbassò la sicura.

Non aspettò che lo sconosciuto aprisse bocca per dire in tono più da conversazione che da domanda:

«Sei tu?»

Ecco, si trova a pensare e a dire a questo sconosciuto, questa è la notte della vita, la notte dove finalmente la sua vita può andare fuori dai binari. Può fare tutto quello che vuole, anche confessare il suo malessere nei confronti di Nancy a questo sconosciuto che arriva perfino a considerare come un fratello.

Ma il mattino successivo, quando Steve si ritrova coi postumi di una sbronza sul sedile dell’auto, tutta la realtà gli appare davanti. Che fine ha fatto Nancy che, stanca del suo fermarsi per un bicchierino di Rye, aveva deciso di proseguire in bus fino nel Maine? Che ne è di quell’uomo sconosciuto dal volto allungato ed esangue, a cui aveva confidato tutto, come un fratello, come quell’uomo che avrebbe voluto essere?
A mano a mano si renderà conto della tragedia che è appena scoppiata nella sua vita, anzi nella loro vita, la sua e di Nancy.
Si troverà a dover rispondere così delle sue azioni, pezzi del racconto che aveva fatto allo sconosciuto torneranno nella sua mente, provocandogli un enorme imbarazzo. È come se la sua vita fosse all’improvviso messa di fronte ad un giudizio, lui stesso messo a nudo.

Per trentadue anni, quasi trentatre, era stato un uomo onesto. Aveva seguito i binari come aveva proclamato con tanta veemenza quella notte: bravo figlio, scolaro diligente, impiegato, marito, padre di famiglia, proprietario di una casa a Long Island. Non aveva mai infranto la legge, non era mai comparso davanti a un tribunale e tutte le domeniche mattina andava messa con la famiglia. Era un uomo felice. Non gli mancava niente.

Ma ma allora da dove gli venivano fuori tutte quelle rimostranze, quando beveva un bicchiere di troppo e cominciava a prendersela proprio con Nancy e poi con il mondo intero? Bisognava pure che scaturissero da qualche parte.

Ma, forse, proprio da questa brutta storia, Nancy e Steve troveranno la forza per iniziare una nuova vita, abbattendo quelle barriere che li avevano divisi, impedendo loro di raccontarsi quello che avevano dentro. Finalmente, dopo quella notte della vita, dopo quella notte in cui Steve aveva voluto abbandonare i suoi binari, troveranno un momento di vera sincerità.

Ora si guardavano senza più riserve, ed entrambi avvertivano che quell'istante probabilmente non sarebbe mai più tornato. Ciascuno dei due si sentiva irresistibilmente attratto dall’altro; lo si vedeva solo dagli occhi che non smettevano di fissarsi ed esprimevano una sorta di pacato rapimento.

Un romanzo nero, con dentro il dramma, il dolore di una tragedia e con un finale sorprendentemente positivo per Simenon: ancora una volta l’autore apre una finestra dentro la vita delle persone considerate “normali”, un lavoro, una casa, due figli, andando a scavare dentro la loro psicologia. Come nel caso del protagonista, un uomo che si sente schiacciato e oppresso nella sua vita, che non riesce a comunicare con la moglie (tanto da arrivare a confidarsi con uno sconosciuto trovato in macchina, che considera però un vero uomo), che pensa che lo voglia opprimere e da qui la valvola di sfogo, “entrando in un tunnel” solitario.

Un romanzo nero illuminato dagli sprazzi delle “luci nella notte”, ovvero le luce delle altre auto che incrociano quella dove Steve e Nancy stanno andando incontro al loro destino.
Da un libro del genere, la cui azione si chiude nell’arco di tre giorni, chissà che film avrebbe tratto un regista come Hithcock.

La scheda sul sito di Adelphi

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Report – il quadro di Sgarbi e gli interessi di Brugnaro

C'era un cinese a Venezia di Walter Molino e Andrea Tornago

Si comincia con i conflitti di interesse del sindaco di Venezia Brugnaro: l’essere sia sindaco che imprenditore ha fatto bene alle sue imprese che, per evitare accuse di conflitto di interesse ha ceduto la gestione ad un blind trust.

Ma, come racconta il consulente di Report Bellavia, l’essere sindaco ha fatto bene alle sue imprese:

quando Brugnaro ha lasciato il gruppo aveva già un’importante liquidità, stiamo parlando 7ml di euro liquidi, aveva un grosso patrimonio netto, faceva 70 ml di ricavi e guadagnava 10ml l’anno. Nel 2022 i 7 ml di liquidità sono diventati 72ml, ha decuplicato i soldi liquidi, il patrimonio netto da 60ml è passato a 380ml, i ricavi da 373ml sono triplicati ad oltre 1 miliardo di euro .. chissà che parcella gli farà l’avvocato americano. ”

A denunciare il conflitto di interesse nel comune c’è il consigliere Gasparetti: gli imprenditori conoscono bene le aziende del sindaco, gli sponsor lo stesso. Il polo nautico è stato inaugurato pochi mesi fa, i lavori sono stati fatti dalla Setten, sponsor della squadra di pallacanestro di Venezia di proprietà del sindaco. Si tratta della stessa azienda che ha restaurato il Palazzo della Misericordia, palazzo che sarà gestito da una società del Trust.

La LB Holding di Brugnaro ha dentro la Umana, una agenzia del lavoro, la Reyer, poi immobiliari, servizi di manutenzione impianti, per la manutenzione di campi sportivi … il suo Blind Trust fatto nel 2017 ha dato in gestione i suoi beni ad un avvocato americano.
Ma questo sistema in Italia non è stato regolato, Report ha chiesto spiegazioni al blind, al comune di Venezia, ma nessuno ha saputo dare spiegazione su come funzioni: l’unica è fidarsi di Brugnaro.

Quella de I Pili è un’area all’ingresso di Venezia, terreni contaminati che Brugnaro compra a prezzi stracciati nel 2005: quando si candidò a sindaco giurò che su quei terreni non avrebbe fatto nulla. Ma poi scampò un investitore cinese, il signor Kwong, specializzato in grandi operazioni immobiliari: a Venezia voleva costruire un resort di lusso a Certaldo, ma alla fine i lavori si fermarono perché l’imprenditore cinese non pagava i fornitori, come l’imprenditore Claudio Vanin. Assieme avevano lavorato a Venezia, per l’operazione immobiliare nell’area I Pili, sull’area che Brugnaro non doveva toccare: si doveva realizzare ville, centri commerciali, un porto e un palazzetto dello sport, per una operazione da 1,3 miliardi di euro.

Se il sindaco avesse trattato la vendita dei terreni ci sarebbe stato un conflitto di interesse: quei terreni erano inquinati dagli scarichi del porto di Marghera, ma la bonifica non si fece perché il sindaco propose di mettere sopra i rifiuti tossici un sarcofago di cemento. E il blind trust?
Ma Brugnaro si incontrò con Kwong e col suo rappresentante in Italia Lotti, nel 2016, al casinò di Venezia dove il sindaco spiega come sviluppare i suoi terreni al cinese, comprati a prezzi stracciati. E che avrebbe garantito tutte le autorizzazioni edili. Era un incontro col Brugnaro sindaco o col Brugnaro imprenditore?

Vanin racconta di altri incontri tra il sindaco e Kwong, dove si modificavano la disposizione delle costruzioni, nei primi mesi del 2018: Kwong fu spiazzato dalla richiesta di pagare subito 10 milioni a Brugnaro, a prescindere dalla realizzazione del progetto, così l’affare de I Pili saltò.

Ma altre partite andarono meglio: Kwong comprò dei palazzi del comune, palazzo Donà e palazzo Papadopoli, per venderli era necessaria una procedura pubblica, ma Report è in possesso di una mail in cui Lotti scrive che avrebbe incontrato il braccio destro del sindaco, nessun problema sull’acquisto del palazzo. Palazzo Donà venne dato in gestione all’assessore della regione Veneto, pur avendo ricevuto Kwong offerte migliori da altre società alberghiere nella regione.
Palazzo Papadopoli era stato valutato 14 ml, la giunta Brugnaro decide di venderlo a Kwong, unico a partecipare alla gara, per 10 ml: anche qui, diverse mail raccontano di trattative tra Lotti e il comune.
L’assessore del comune Boraso ha presentato in giunta la valutazione al ribasso del palazzo: tutto fatto rispettando la legge risponde oggi. Sono emerse poi delle fatture (emesse da una società a cui dentro era presente Vanin) a società riconducibili all’ex assessore Boraso, per attività di consulenza sul territorio veneto, per immobili privati.
Tutto questo avviene mentre è in corso la trattativa per l’acquisto di palazzo Papadopoli – racconta Vanin, che lancia una accusa pesante, facendo supporre la presenza di una tangente.

L’ex assessore risponde a Report che la vendita dei due palazzi è stata fatta tramite procedura pubblica e che quella consulenza non aveva niente a che fare con l’imprenditore cinese: “dica a Ranucci di occuparsi di cose più serie”.

La tela di Vittorio di Manuele Bonaccorsi in collaborazione di Thomas Mackinson

Nell’esposizione organizzata dal sottosegretario Sgarbi a Lucca era presente anche un suo quadro, attribuito a Rutilio Manetti: un dipinto identico ad un secondo, un’opera rubata in Piemonte. Nell’opera di Sgarbi è presente una fiaccola che nella scheda dell’interpol manca: i giornalisti Bonaccorsi e Mackinson si sono recati a Lucca a chiedere conto a Sgarbi di questi due quadri.

Secondo Sgarbi l’opera è stata trovata in una villa da lui acquistata nel viterbese nel 2000: si trattava di un immobile vuoto, abbandonato, dentro sarebbe stato trovato questa opera. Un caso fortuito, secondo il sottosegretario che, aggiunge, esiste anche un atto nell’archivio di Stato che parla di quell’opera. Ma nell’atto non si parla di Manetti.

Secondo il servizio di Report il quadro di Sgarbi è molto simile ad un altro, rubato nel 2013 dentro un castello a Buriasco: la signora Margherita Buzio ha ricevuto i due giornalisti, mostrando quello che rimane del quadro. I ladri hanno tagliato la tela e lasciato sopra un’immagine appiccicata: l’opera è proprio quella di Rutilio Manetti che rappresenta la cattura di Pietro.

Quel quadro era stato adocchiato da Sgarbi, che aveva visitato il castello più volte, nelle settimane precedenti al furto un certo Paolo Bocedi si era presentato dalla signora Buzio per l’acquisto del quadro. Si tratta del presidente dell’associazione Italia Libera,referente della commissione anti usura della regione Lombardia, grande amico del critico d’arte.
Bocedi ricorda di essere stato a Buriasco con l’autista di Sgarbi, per informarsi sul quadro.

Nel giugno 2013 l’opera di Manetti riappare: Gianfranco Mingardi è un importante restauratore di opere d’arte, per vent’anni uno dei preferiti di Vittorio Sgarbi: il deputato lo chiama perché deve portargli un quadro, era una tela arrotolata “io non avrei mai pensato una cosa del genere” spiega a Report, “che facesse grattare le opere d’arte, lo vedi no? Lo vedi che è tagliata, no?”.
Bocedi consegnò il quadro a Mingardi: oggi, di fronte a questa storia si dimostra preoccupato, da presidente di una associazione anti racket, “sarebbe una bella figura di m..”

Mingardi
una volta ricevuta la tela si preoccupa, teme che se il quadro risultasse rubato potrebbe finirci di mezzo lui e allora chiama al telefono Sgarbi, chiedendo un documento che certifichi la proprietà: “Vittorio ascoltami, mi mandi la carta per cui il dipinto è tuo, così io sono tranquillo, te lo faccio e basta. E lui mi ha narrato la storia del dipinto che stava a villa Maidalchina ..”.

Sgarbi ai due giornalisti ha risposto che si tratta di due quadri diversi, c’è una luce che nell’altro quadro non c’è, è solo una storia di strane coincidenze, cerca di giustificarsi.

Ci sarà una perizia sul quadro, fatta su un pezzo di tela rimasto attaccato alla cornice: speriamo che questa perizia faccia luce su tutte queste coincidenze. Anche per il buon nome delle nostre istituzioni.

Vino connection di Emanuele Bellano

Il servizio di Report ha raccontato che l’immagine del viticultore che fa il vino pigiando l’uva nei tini è quanto mai falsa: il viticultore, in alcuni casi, non sempre, è più un lavoro da chimico.

Eppure sui vini, specie quelli DOCG, sono regolari da precisi disciplinari e questo giustifica il loro prezzo, superiore a quello di un vino “normale”.

È possibile, come racconta a Report Francesco Grossi esperto di vini, che è possibile lavorare l’uva con processi chimici per cambiare le qualità del vino: Grossi produce un vino senza trattazione chimica, esattamente l’opposto di quello che avviene nell’industria.

Basta scrivere imbottigliato da e non imbottigliato e prodotto da, per far credere al consumatore che quel vino derivi da un certo territorio: Sassicaia, Barolo, Amarone sono prodotti anche da uve che arrivano da altri territori, diversamente da quello che uno pensa comprando un vino DOCG.

Report, assieme all’esperto Grossi, spiega come si possa modificare il tenore zuccherino inserendo del mosto concentrato rettificato, inodore: tutto questo per non scartare l’uva di bassa qualità e continuare ad produrre lo stesso numero di bottiglie. Lo fanno in Toscana, dove sarebbe possibile solo in condizioni particolari, perché ci sono state troppe piogge..
Quando ci sono grandi produzioni si autorizzano sempre gli arricchimenti, spiega a Report Grossi: si sono realizzati vitigni su tanti terreni che nel passato erano stati dedicati ad altro.
Per il Brunello di Montalcino si deve stare attenti se sull’etichetta è indicato il nome della vigna, altrimenti il vino potrebbe essere stato addolcito dal mosto.

Ma in etichetta non sono indicate nemmeno altre sostanze, aggiunte per rendere appetibili vini: sono sostanze messe anche in vini DOC e DOCG, come quelle per correggere l’acidità o il colore trasparente (che acchiappa molto i clienti) o chiarificatori.

I chiarificatori derivano dagli scarti degli allevamenti dei suini, testa o piedi: ma il cliente vegano lo sa che nel vino che consuma potrebbe esserci gelatina derivante da pesce o suino?

La legge non impone di indicare che si sia usata la gelatina animale, o l’albumina che deriva dall’uovo perfino la Bentonite (un’argilla).

Si può correggere il colore rosso del vino o anche aggiungere degli aromi, come lampone o mora: si tratta di lieviti usati per fermentare il mosto.

Per dare l’impressione che il vino sia stato tenuto per anni in botti di rovere, si usano delle chips di rovere, che danno quel sentore di botte.

Tutto legale, le cantine le possono usare: ci sono poi gli aromi artificiali o gli aromi estratti, che si possono aggiungere al vino per dare un sentore di frutta, ma questo è illegale.

La Peronospera è un batterio che attacca i vitigni: la vendemmia del 2023 dovrebbe avere meno resa, i disciplinare costringono i produttori a non poter importare vino da altre zone. Ma Report ha raccolto testimonianze di viticoltori che parlano di traffici di uva, di uva comperata in nero, di uva da tavola fatta passare per uva da vino.
Uva che viene inviata dai produttori del sud verso il nord, anche per vitigni prestigiosi: l’uva comprata in Puglia costa anche un terzo rispetto a quella coltivata in Veneto ad esempio.
Servono certificati, creati ad hoc da viticoltori compiacenti, per spostare il vino (e non l’uva) tra cantine diverse, dal sud al nord.

Ad Adelfia, racconta Report in provincia di Bari, c’è un bar dove si tiene la borsa dell’uva da tavola da usare per vinificare: qui un mediatore porta il giornalista da un’altra azienda che spreme l’uva, da usare nei gelati ad esempio. Ma questa uva si usa anche per la vinificazione, venduta tra i 20 e i 30 centesimi al kg. Basta avere la licenza per vendere succhi di frutta..
Ma chi co
ntrolla il vino prodotto in Italia? Ci sono i controlli anche in capo al ministero dell’Agricoltura ma, come racconta l’inchiesta Pinocchio, anche sui controlli ci sono delle zone opache.

Ci sono produttori di Glera che hanno vitigni in Puglia (e non può essere usato per fare Prosecco in Veneto). Che chi ha condotto l’operazione Pinocchio per conto dell’ufficio repressione frodi in Veneto che poi è andato a lavorare presso un altro produttore.