04 novembre 2021

La sinagoga degli zingari, di Ben Pastor

 


Diario di Martin Bora

Il cielo, le nuvole. C'è un'erba che dopo la pioggia esala un forte odore di canfora. I rossi la chiamano perovskia, e somiglia alla salvia senza esserlo.

D'estate come adesso, dopo la pioggia, nella steppa la natura sembra esplodere. Fiori ovunque, fra i sassi e lungo i dirupi, a perdita d'occhio. Cresceranno sulle nostre ossa? E' una domanda legittima, che in molti ci poniamo senza dirlo ad alta voce. Sono pensieri da invasori, categoria umana un gradino al di sotto dei conquistatori.

Fino ad oggi, nel romanzi della serie dedicata all'ufficiale investigatore dell'Abwher (il servizio segreto tedesco) Martin Bora, i mesi di Stalingrado erano solo evocati, come ricordi custoditi gelosamente dentro la sua mente, come ferite da nascondere, da non esibire.

Leggendo questo romanzo, ultimo della serie, si capisce bene perché: serviva tempo, serviva uno sforzo enorme, sia come scrittrice sia come storica, per ricostruire l'epica battaglia attorno alla città sul Volga, che Ben Pastor ci racconta attraverso gli occhi, le emozioni, i pensieri di questo ufficiale dell'esercito tedesco, attraverso le varie fasi dell'avanzata tedesca.

L'invasione attraverso la steppa, l'ebrezza di attraversare spazi enormi fino allo slancio finale per prendersi la città di Stalingrado, obiettivo strategico sia per le riserve di petrolio del Caucaso sia per il valore politico che avrebbe avuto la conquista della città col nome di Stalin.

Qui non esistono direzioni nonostante le bussole le stelle le cartine ai ponti radio la steppa il luogo della terra in cui tempo e spazio si dilatano fino a perdere significato solo i cavalli sono felici perché come pesci non sanno contare i chilometri.

Ma ad interrompere la cavalcata a capo dell'unità di esploratori, in quel caldo agosto del 1942, arriva per Martin Bora un nuovo incarico dal suo superiore, Lolo Stumbeck: si tratta di recuperare due civili romeni che si sono persi, dopo un atterraggio di fortuna vicino la città di Millerovo, mentre andavano in visita al comando del generale Paulus, comandante della 6a armata.
Nicolae Tincu e Bianca Costin, due scienziati famosi nel loro paese per l'attivismo politico con cui avevano denunciato i crimini di guerra dell'esercito ungherese nel 1940, nella zona della Transilvania. I coniugi erano stati anche in Italia, dove avevano incontrato Majorana e i colleghi di Enrico Fermi. E ora erano dispersi in qualche punto della steppa: cosa dovevano andare a fare dal generale Paulus e come mai ad un comandante di unità viene chiesto di unirsi alle richieste, già in corso dai soldati italiani e dai romeni?

Per quale motivo due accademici romeni erano diventati una questione di massima importanza? Tre eserciti alleati si stavano affannando a trovarli, ma per giustificare questa attivismo non bastava essere amici di Paulus. Enrico Fermi e colleghi avevano lavorato all'atomo e alla radioattività. Tincu li aveva conosciuti e frequentati. I servizi tedeschi lo sapevano..

Bora ha pochi giorni di tempo per risolvere la faccenda, andando ad infilarsi in una questione spinosa tra due degli alleati in questa guerra di Russia, gli italiani e i romeni, che si attaccano a vicenda:

I romeni si vantavano dei loro scienziati e li volevano. Gli italiani desideravano trovarli per primi per evitare una brutta figura e tedeschi, che avevano ben altri obiettivi in mente, si presentavano come arbitri imparziali. In questa storia si disse Bora non torna proprio niente.

Bora si ritrova a fianco del maggiore Galvani, al campo italiano, che lo accompagna nelle ricognizioni della zona di scomparsa, finché in una di queste non si imbattono in una casa di campagna, dentro cui scovano parti del vestiario dei due scienziati. Poco lontano, in fondo ad una spaccatura del terreno, i loro corpi, uccisi, con un colpo alla nuca. Una scena che a Bora ricorda altri morti, durante l'invasione della Polonia: le esecuzioni di civili fatte dalle SS, crimini di guerra a freddo, nemmeno a ridosso dell'invasione, la prima dolorosa scoperta per il giovane Bora di come la guerra non fosse solo una questione di gesta eroiche

I ricordi della Polonia gli balzarono in mente; riconobbe ogni dettaglio dell'accaduto quasi fosse stato lì. E fu come nei boschi a poche ore da Cracovia, quando aveva assistito non visto alle esecuzioni sul ciglio di fosse appositamente scavate, e a cento giorni dall'inizio della guerra aveva capito che la guerra non era o non era più ciò che aveva sperato.

Oltre ai morti e al ricordo delle persone amate, la moglie Dikta, la strega Remedios in Spagna, c'è un'altra immagine che continua ad affollare i sogni del maggiore Bora. Un'immagine che prende la forma di una sinagoga verso cui cerca di avvicinarsi e che continua invece a sfuggirgli. La sinagoga degli zingari:

Ancora non lo sapeva ma nei mesi a venire l'immagine fantasma della sinagoga degli zingari gli sarebbe apparsa di nuovo alta Serena e inaccessibile.

L'indagine sull'omicidio dei due morti non potrà essere terminata, sebbene Bora abbia intuito che attorno ai due coniugi c'erano interessi superiori, per dei segreti che si portavano appresso. Quell'esecuzione può essere opera di un commissario politico, sfuggito dalla prigionia, oppure opera di un professionista, un assassino che li ha seguiti.

Ora è il momento dell'assalto a Stalingrado, la città delle fabbriche e che si affaccia sul Volga, che i tedeschi stanno bombardando da settimane.

Non rendendosi conto che poi loro dovranno farsi un varco, contro i cecchini (e anche delle donne) nascoste pericolosamente in mezzo alle rovine.

A Stalingrado la furia tedesca, lo slancio di mesi al galoppo nella steppa, si scontra con i soldati russi, i quali dall'altra parte del fiume stanno ammassando truppe.

Anche l'entusiasmo di Bora deve adattarsi, il senso di invincibilità, di onnipotenza che aveva contagiato poi i suoi uomini, subisce una mutazione

Dopo un mese a Stalingrado devo modificare la mia affermazione da Sono invincibile a Intendo essere vittorioso. Potrei dire sarò vittorioso ma da comandante addestrato nei servizi, il mio mestiere è valutare le probabilità.

Il racconto di quella battaglia fatta tra quelle rovine, scheletri di fabbriche, dove si poteva morire per lo sparo di un cecchino, per i colpi di mortaio lanciati da lontano, per le malattie, per il freddo, è fatto in modo vivido. Non è più una guerra, almeno non una guerra di quella insegnata sui libri, se mai ne sia esistita una simile. E' una lotta primitiva per la sopravvivenza dell'uomo, costretto a rubare i vestiti ai morti per avere qualcosa di caldo da mettersi addosso. Dove era preferibile il colpo isolato di un cecchino rispetto a quella agonia.

Perché a Stalingrado, la 6a armata si ritrova all'improvviso circondata e isolata: Bora sente arrivare addosso l'onda, come nel quadro del pittore giapponese, “La grande onda”.

Quanti ne sono rimasti vivi di quei 250 mila uomini intrappolati in quella città di distruzione e macerie?

Se lasciamo andare la pietà; no se abbandoniamo la pietà, è tutto finito. È l'unica cosa, ormai, che ci distingue dagli animali. Possiamo cercare di mantenere - penosamente mi sta a cuore - l'aspetto di soldati nonostante il freddo, la paura, le privazioni ma in realtà conduciamo esistenze da bestie che non si allontanano troppo dalla tana, perché i predatori sono un agguato tutt'attorno. Non mi aspetto misericordia dai russi, né per i miei uomini né per me. Ma anche se continueremo a sparare loro addosso finché avremo munizioni, non intendo rinunciare alla pietà.

L'unica è non perdere la pietà, non perdere la lucidità, per sé stessi, per i suoi uomini, per la sua famiglia. Perché la fuori, oltre le linee nemiche, c'è ancora quella Sinagoga da raggiungere..

Per Bora c'è anche quel caso da risolvere, che gli rimane appiccicato addosso nonostante la guerra: l'omicidio dei due scienziati romeni, che alla fine svelerà un intrigo internazionale e una guerra di spie (anche tra alleati) per interessi politici ed economici.

Ma non sarà la soluzione di quel caso a salvare Bora, dentro cui rimarrà un senso di vuoto enorme. E nemmeno l'essersi salvato, in una fuga dalla trappola che ci viene raccontata nelle pagine del suo diario, tra delirio e visioni frutto della stanchezza e della febbre.

No, Bora è morto assieme a migliaia di altri soldati lì, a Stalingrado. Quello che è tornato è un'altra persona.

Mia moglie Benedikta ha ragione, quando dice che non sono mai tornato. Qui, oggi, qualcun altro scrive queste righe per me. Il fanciullo scambiato ha preso il mio posto, mentre io sono per sempre escluso da ciò che ero. Il mio vero sé è rimasto nell'irraggiungibile Sinagoga degli zingari, mentre l'altro Martin Bora, il sostituto che da ora in poi agirà, amerà, ucciderà per me, continua ad avanzare futilmente in questa futile guerra.

Dentro questo romanzo troviamo il racconto della guerra in Russia, gli errori commessi dai generali tedeschi, l'illusione dell'avanzata facile nella primavera estate del 1942. Uno sguardo che si abbassa a quello del soldato di prima linea, in mezzo al gelo, alla paura, lo scoprire di essere diventate prede e non predatori. E ancora l'intrigo per quella indagine su due omicidi nel mezzo del grande massacro di Stalingrado (un milione di morti, da entrambe le parti).

In mezzo, i pensieri, i ricordi di questo soldato tedesco, fedele alla Germania ma non un fanatico nazista, un investigatore-filosofo in cui si mescola il sangue  e la cultura di mezza Europa, quella tedesca e quella inglese (o meglio, scozzese), quella italiana e quella imparata sui campi di battaglia dove Martin Bora ha cercato sé stesso, dalla Spagna alla Polonia.

La scheda del libro sul sito di Sellerio

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