Fra Diavolo, la banda Giuliano e il neofascismo in Sicilia (1943-47)
Le confidenze di
un patriarca
Intorno alla mezzanotte del 26 giugno 1947 alcuni
uomini salivano, indisturbati e con passo deciso, dalla via dei Mille
di Alcamo. Questa cittadina del trapanese, definita da alcuni come
luogo prediletto dei “santoni” della mafia, aveva il pregio di
portare ancora, nel suo nome, l’etimo delle sue origini arabe, da
cui la stessa parola mafia sembra derivare. Città di frontiera e di
antica resistenza islamica contro gli invasori Normanni, si poteva
dire che aveva segnato, assieme a Jato, la linea di difesa
occidentale di quel popolo conquistatore che per tre secoli aveva
dominato la Sicilia.
Quei cinque uomini
che camminano in quella notte senza luna (particolare non da poco,
come spiegherà in questo saggio lo storico Giuseppe Casarrubea) ancora non lo
sanno, ma stanno per morire: il capomafia di Alcamo, don Vincenzo
Rimi li ha venduti al capitano dei carabinieri Giallombardo i cui
uomini sono appostati lungo quella via per tendere loro una trappola.
I primi quattro moriranno in un conflitto a fuoco, le cui dinamiche
ancora oggi, a distanza di 76 anni sono poco chiare. I rapporti dei
carabinieri, redatti da un ufficiale che nemmeno era presente quella
notte, sono pieni di contraddizioni. Anche il rapporto ufficiale
sulla morte del quinto uomo (e le ricostruzioni dei carabinieri) è
assolutamente poco credibile: si chiama Salvatore Ferreri, alias Fra
Diavolo, ma anche noto come Totò u palermitamu o anche il
Vendicatore per una cerchia ristretta di amici. Si era arreso ai
carabinieri dicendo loro di essere un informatore dell’Ispettorato
di Polizia per la Sicilia, Ettore Messana, ma una volta in caserma,
venne ucciso nel corso di un alterco col capitano Giallombardo.
Ma chi era questo
Salvatore Ferreri, un ragazzo di appena 24 anni, che aveva però
sulle spalle decine di omicidi, specializzato in sequestri di persona
e assalti alle caserme?
Avrebbe dovuto
scontare una lunga detenzione in carcere, invece la sua storia
riguarda anche una latitanza abbastanza lunga e tranquilla, con tanto
di rapporti di confidenza con le forze dell’ordine, conclusasi in
modo cruento nella notte del 27 giugno 1947.
Vi ricorda forse
altre storie di altrettanti latitanti della mafia, come Luciano
Leggio, Riina, Provenzano, che almeno rimasero in vita anche dopo la
cattura?
Bene, perché questo saggio di Giuseppe Casarrubea
ricostruisce tutta la storia di questo strano personaggio, che non
era un boss come Provenzano, un capo dei capi, ma solo un bandito, la
cui breve carriera criminale era iniziata all’inizio del 1944 con
l’omicidio di un autista (similmente alla carriera criminale di
Giuliano che era cominciata col delitto di un carabiniere nel
settembre del 1943). Carriera costellata da tanti, pesanti segreti
sui rapporti tra le istituzioni, i gruppi neofascisti che non si
erano rassegnati alla sconfitta e la mafia che quel conflitto a
fuoco, che forse è stata un’esecuzione, ha cercato di nascondere
nella sua tomba.
In un documento
dell’808° Battaglione per il Controspionaggio del Sim (data: 5
marzo 1945, titolo: “Organizzazione Sabotatori - Attentatori,
Abwher Kommando L90, Milano, Gruppo David”), il maggiore dei
carabinieri Cesare Faccio annota: “[…] Reclutatori: Tommaso
David, alias ‘prof. D’Amato’, alias ‘dott. De Santis’,
tenente colonnello della milizia fascista, squadrista, marcia su
Roma, già capo del suo gruppo a Roma, piazza Colonna. Soprannominato
‘il Nostromo’ da Mussolini, col quale ha frequenti contatti. Età
70 anni, ma non ne dimostra più di 50. Ufficio ed alloggio: villa
Hiche, via Carlo Ravizza 51, Milano. […] Reclutatori degli elementi
maschili: membri dell’esercito repubblicano e della Decima
Flottiglia Mas. […] Enti di provenienza dei reclutati: esercito
repubblicano; Decima Flottiglia Mas; movimento giovanile misto ‘Onore
e combattimento’ […] Missioni per conto del Gruppo David: […]
prendere contatti, presso l’albergo ‘Boston’ in Roma, con certo
Alfonso Fiori (in realtà Alfredo Fiore), capo di una squadra di
agenti al servizio dei tedeschi, provvista di apparecchio radio e che
da tre mesi non dà segni di vita, usando la parola d’ordine ‘LB
3519’. Se rintracciato, attingere dal Fiore notizie di carattere
politico, economico e militare e chiedergli se ha bisogno di denaro.
Il Fiore dovrà inoltre porre l’agente (Vito La ginestra, nda) in
contatto con certo Fra’ Diavolo, capo di una banda di fascisti
operante nella zona di monte Esperia, sita a circa 40 chilometri a
sud di Roma. Fra Diavolo dovrà fornirgli le seguenti informazioni:
progressi della banda, morale degli uomini, provvista di armi,
condizioni finanziarie. Se la banda ha necessità di denaro, indicare
sopra una carta topografica, servendosi della punta di uno spillo, la
località precisa sulla quale dovrà essere effettuato un futuro
lancio di denaro a mezzo di paracadute. […].” Il Fra Diavolo in
questione è Salvatore Ferreri (inteso Fra Diavolo), numero due della
banda Giuliano negli anni 1945 – 1947?
[Dossier
dell’autore sui documenti americani su Salvatore Giuliano, la
Decima Mas e il neofascismo in Sicilia]
Tra questi segreti
che dovevano sparire con lui, il peccato originale della nostra
storia repubblicana: un segreto che lega assieme la rete nazista di
sabotatori che i gerarchi di Salò lasciarono al sud per sabotare
alle spalle l’avanzata alleata, gli specialisti in sabotaggio ed
esplosivi della X Mas di Junio Valerio Borghese, salvato dalla
fucilazione dal James Jesus Angleton, responsabile del
controspionaggio americano, l’OSS in Italia. Angleton mise gli
occhi sin dal 1944 su questa rete di esperti sabotatori (“le uova
del drago”, le chiama l’autore), che aveva usato gente come
Giuliano e Ferreri per le sue azioni criminali, trasformandoli da
banditi in agenti in una struttura segreta che doveva agire dietro le
linee del nemico.
La ricostruzione dello storico Giuseppe
Casarrubea si è basata sui documenti presi dai registri dei servizi
americani e italiani, dagli archivi di Stato italiani, dagli atti
della commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, nonché gli
atti del processo di Viterbo per la strage di Portella. Tutti
documenti pubblici la cui consultazione dovrebbe stimolare oggi, a
distanza di quasi 80 anni, una seria riflessione sulla genesi della
nostra repubblica, tra la fine della seconda guerra mondiale e
l’inizio della guerra fredda.
Secondo la tesi
dell’autore, questa rete di origine fascista sarebbe stata poi
riciclata dall’OSS in funziona anticomunista, mettendo a frutto
l’esperienza da sabotatori (e da criminali) fatta nel biennio
1944-45 contro l’esercito italiano e i carabinieri.
Tra le armi in
dotazione alla Decima Mas nel periodo 1943 - 1945, figurano il fucile
mitragliatore Breda mod. 30, cal. 6,5; il mitra automatico Beretta
mod. 38, cal. 9; il moschetto mod. 1891/38, cal. 6,5 (cfr. il volume
di Raffaele La Serra, Il battaglione guastatori alpini Valanga della
Decima Mas, Monfalcone, 2001, pp. 185 - 187). Secondo i giudici del
processo di Viterbo, tra le armi utilizzate dalla banda di Salvatore
Giuliano a Portella della Ginestra, vi sono il fucile mitragliatore
Breda mod. 30 (cal. 6,5) e il moschetto mod. 1891/38 (cal. 6,5). Il
mitra automatico Beretta mod. 38 (cal. 9) è invece utilizzato da
Salvatore Ferreri e dai fratelli Giuseppe e Fedele Pianello. Tra le
armi della Decima Mas citate da La Serra, troviamo anche la bomba a
mano Srcm (modello 35), il medesimo tipo di ordigno esplosivo
utilizzato per gli assalti alle Camere del Lavoro nella provincia di
Palermo (22 giugno 1947).
[Dossier
dell’autore sui documenti americani su Salvatore Giuliano, la
Decima Mas e il neofascismo in Sicilia]
Sono i mesi in
cui in Sicilia si sperimentano politiche e strategie che poi
rivedremo nel corso della nostra storia: attentati contro
sindacalisti (come Accursio Miraglia) e contro le camere del lavoro e
del partito comunista in un crescendo che è culminato con la strage
di Portella della Ginestra (e le successive stragi a San Giuseppe
Jato e Partinico, meno note): secondo la storiografia che si è
purtroppo consolidata fino a noi, il bandito Giuliano sparò contro i
braccianti radunatisi sulla piana quel 1 maggio per festeggiare la
festività sul lavoro.
Ecco, dice
Casarrubea, si tratta una storia falsa tutta da riscrivere, a sparare
sulla folla fu Ferreri col suo mitra, mentre da un altro punto di
fuoco un reparto di soldati della X Mas lanciarono le granate che
all’inizio furono scambiati per petardi. Giuliano fu soltanto il
“Lee Oswald” siciliano (oppure fu Lee Oswald ad essere il
Giuliano americano): indicato al paese come unico responsabile della
strage, Giuliano fu tenuto in vita finché convenne alla mafia, per
poi essere eliminato anche lui nel luglio del 1950 dopo essere
attirato in un tranello dal compare Gaspare Pisciotta.
Se per la morte di
Giuliano vale il titolo de l’Europeo “L’unica cosa che è certa
è che è morto”, perché tutta la ricostruzione dei carabinieri
del colonnello Luca faceva acqua, per le vicende avvenute in Sicilia
tra il 1943 e il 1947 l’unica cosa certa è che non solo solo
storie di banditi e di siciliani che si sparavano tra di loro (come
dichiarò in Parlamento Mario Scelba, negando la presenza di mandanti
sopra la banda Giuliano).
Dall'estate del
1944, Venezia ospita infatti un importante centro nazifascista di
addestramento al sabotaggio e allo spionaggio presso l’isola di
Sant’Andrea, in collegamento con i centri di Montorfano (Golf Club
Villa d’Este, Como) e di Villa Grezzana di Campalto (Verona). Nella
città lagunare, ai primi di maggio del 1945, si arrendono agli
Alleati Nino Buttazzoni e Rodolfo Ceccacci (Decima Mas). Nel luglio
1945, ai militi della ex Decima dell'isola viene clamorosamente
concessa dagli angloamericani e dal Sim “la totale immunità” per
i misfatti compiuti nei venti mesi della repubblica di Salò. Da quel
momento, a Venezia, decine di ex marò di Junio Valerio Borghese si
mettono segretamente al servizio dell'Oss [cfr. Nicola Tranfaglia,
Come nasce la repubblica, cit., pp. 60 – 62]. Le affermazioni di
Paolantonio ci portano a ipotizzare che Salvatore Ferreri/Fra’
Diavolo entra nell'Evis di Giuliano (nella tarda estate del 1945),
dopo aver trascorso un periodo “al servizio degli Alleati a
Venezia” all'indomani della Liberazione.
[Dossier
dell’autore sui documenti americani su Salvatore Giuliano, la
Decima Mas e il neofascismo in Sicilia]
In Sicilia in
quegli anni che vanno dal 1943 al 1947 si costruì un’alleanza
eversiva che vedeva dentro separatisti, vecchi latifondisti che non
volevano perdere i privilegi che le sinistre avrebbero loro tolti,
vecchi esponenti del fascismo (come i due ispettori generali della
polizia in Sicilia, Messana e Verdiani, che avevano operato sotto il
fascismo nella Slovenia) riciclati per la nuova causa anticomunista,
personaggi come Borghese (comandante del reparto X Mas) che non
accettavano l’arrivo della Repubblica. Tutti alleati assieme agli
ex nemici di poco prima, i servizi americani che qui in Sicilia
sperimentarono quello che poi avremmo visto verificare poi a Milano,
a Brescia durante la strategia della tensione.
Portella della
Ginestra fu l’atto più cruento di una guerra di altra natura
inflitto a tradimento sulla pelle della democrazia che così nasceva
malata, come la mela col verme dentro.
E anche, qui, come a
Marzabotto, furono lavoratori indifesi, bambini, donne e adolescenti
a pagare le spese della follia umana. Il piano era partito da
lontano, si era geneticamente conformato agli eventi storici o,
meglio, erano stati i fatti a generarlo per avere finalmente un banco
di prova. Portella della Ginestra doveva essere come un vetrino sotto
la lente di un microscopio geopolitico. Un laboratorio che usava, per
la prima volta, una strage per provocare una reazione a catena.
Furono tutti delusi.
Questo
libro (come anche i precedenti scritti di Giuseppe Casarrubea) non
dovrebbero costituire una clamorosa novità: nel 1981 l’ex capo
della CIA William Colby potè scrivere nelle sue memorie senza essere
smentito: “L’Italia è stato il più grande laboratorio
di manipolazione politica clandestina. Molte operazioni organizzate
dalla Cia si sono ispirate all’esperienza accumulata, in questo
paese, e sono state utilizzate anche per l’intervento in Cile.”
La
storia italiana, il tradimento degli italiani che hanno combattuto
per la liberazione dal nazifascismo, dei siciliani che nel 1947 hanno
votato in regione per il blocco delle sinistre è passato anche
attraverso personaggi oggi sconosciuti come Salvatore Ferreri, legato
dai rapporti dei servizi americani al gruppo di Nuotatori
paracadutisti di Nino Buttazzoni, addestrato dalla rete clandestina
fascista per operazioni di sabotaggio dietro le linee del fronte
alleato.
Proprio oggi che forze politiche eredi del Movimento
sociale, partito fondato da reduci, gerarchi, ex esponenti del
partito fascista, sono al governo e tentato di riscrivere la storia,
diventa importante fare luce su queste pagine cupe del nostro
passato, sul nostro non aver fatto i conti col passato fascista,
sulla nostra politica a sovranità limitata e sugli input che
arrivano da oltre oceano. Da Portella fino ad arrivare alla strage di
Bologna.
La scheda del libro
sul sito dello storico
Giuseppe Casarrubea
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