Gli italiani non esistono
Chi è italiano?
- "Chi abita in Italia!"
In Italia il primo gennaio 2020 risiedono egalmente cinque milioni e quatteocentomila persone che hanno cittadinanza estera, l'8,9% della popolazione.
- "E' italiano chi ha la cittadinanza italiana!"
Oltre cinque milioni e quattrocentomila possessori di cittadinanza italiana vivono stabilmente fuori dai confini del paese.
- "E' italiano chi parla italiano!"
L'italiano è la lingua ufficiale in Svizzera, dove oltre seicentomila persone di madrelingua italiana sono cittadini svizzeri, è la lingua ufficiale pure in Croazia, Slovenia, a città del Vaticano e a San Marino.
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- "E' italiano chi ha origini italiane!"
Secondo le ultime statistiche i discendenti di italiani sparsi nel mondo, i cosiddetti "oriundi", sono tra i sessanta e gli ottanta milioni. Più di chi risiede in Italia.
- "E' italiano chi nasce sul suolo italiano!"
Questa definizione, che peraltro sembra tra le più lineari e semplici da applicarsi, al momento (2021) non è prevista nell'ordinamento giuridico italiano. Essere nato in Italia non basta per essere italiano, secondo la nostra legge, la legge italiana.
Caspita, quanto è difficile definire chi siano gli italiani, quelli a cui dare per primi certi diritti, quelli a cui garantire il welfare pubblico!
Chi sono gli italiani? Sono le persone che vivono all'interno dei confini geografici tracciati dalle Alpi e dal mar Mediterraneo, modificati più volte dall'unità d'Italia nel lontano 1861, l'ultima alla fine della seconda guerra mondiale?
Per definire chi siano gli italiani non vale nemmeno il concetto della cittadinanza italiana perché, come si è visto con la vicenda del calciatore Suarez, stavamo per dare la cittadinanza a persone che nemmeno parlano la nostra lingua.
Nemmeno il concetto di avere nonni o genitori che si potrebbero definire italiani va bene: molti di questi sono oggi cittadini stranieri che dovremmo includere tra i “veri” italiani..
Cosa vuol dire essere italiani, si chiede e ci chiede lo storico Francesco Filippi in questo interessante (e molto attuale) saggio: è una questione di cultura, sociologica, di colore della pelle?
Sono molte le domande che dovrebbero sorgere quando si pone il tema dell'identità nazionale, quella che i nostri sovranisti difendono strenuamente.
Il tema delle identità nazionali, scrive l'autore, nasce tra fine settecento e l'ottocento, un concetto vecchio di secoli, che poco di concilia con questo mondo iper connesso e globalizzato.
Il caso italiano, della sua identità nazionale, non spicca per originalità ed è, rispetto ad altri paesi europei, è anche relativamente recente, avendo la nostra nazione meno di due secoli di vita.
Ed è da due secoli che si combatte per costruire questa identità, all'interno di un territorio che comprende popolazioni che questa identità non la conoscevano o non la sentivano propria, non accettandola proprio.
Dal sito di Micromega:
Termini come “origine”, “territorio” o definizioni legali come “cittadinanza” appaiono solo tentativi, peraltro molto approssimati, di inquadrare un insieme reale assai più vasto e complesso.
Si tratta, secondo la definizione del sociologo Benedict Anderson, di una “comunità immaginata”, vale a dire di un insieme di persone che, pur non conoscendosi e non essendosi mai incontrato, sente di appartenere, tutto, a un gruppo definito che le distingue da altre persone.
Eppure, per quanto fittizio, frammentato e disomogeneo possa essere il racconto che tiene unito questo insieme di persone, esso è tutt’altro che irrilevante: perché nel corso del tempo, rimanendo solo al caso italiano, è riuscito a convincerle che lo hanno fatto proprio per prendere scelte economiche controproducenti, imbarcarsi in avventure dannose per i più, combattere, uccidere e infine morire. È il racconto di una madrepatria in pericolo che ha prodotto le centinaia di migliaia di morti nelle trincee della prima guerra mondiale; è la volontà di dare gambe al racconto della rinascita del Paese ad aver prodotto un miracolo economico sostenuto da salari bassissimi e scarsa sindacalizzazione negli anni Cinquanta e Sessanta; è il racconto della necessità per un “grande Paese” di avere una propria compagnia aerea di bandiera ad aver permesso di buttare miliardi di euro per tenere aperto un vettore senza prospettive economiche. Questo racconto viene definito “pubblico” non solo perché indirizzato a tutto l’insieme degli individui che compongono la possibile comunità, ma perché costruito, approvato e propagato da chi questa comunità la governa, dandone la visione ufficiale.
Nel corso dei vari capitoli Francesco Filippi racconta dello sforzo fatto dalle élite molto combattive riescono a creare una lingua comune (parlata da una minoranza), delle istituzioni (imposte dall'altro che mal si conciliano con i territori locali), sistemi di valore che vengono imposti all'interno dei confini che questo paese si è dato.
Per raccogliere i pezzi di questa identità quanto indietro si deve andare - si chiede l'autore? All'Italia di Roma antica e alla sua gloria, oppure all'Italia di Dante da cui abbiamo preso la lingua che sarebbe diventata l'italiano?
O alle repubbliche marinare che, libri di storia alla mano, erano proiettate verso il Mediterraneo e in guerra tra loro.
Chi siamo noi italiani? Gli eredi dei greci, dei romani, delle città stato rinascimentali?
La realtà è che la definizione di Italiani risale ad una
popolazione che viveva dalle parti di Catanzaro, gli italioti. E i
romani avevano un concetto di cittadinanza molto più esteso del
nostro, usato per unire le varie popolazioni conquistate dando loro
una legge comune da rispettare in cambio dei diritti dell'essere
cittadino romano.
Che cosa unisce quell'insieme di città, territori, geograficamente situato tra le Alpi e i confini dei mari che ha trovato una unione dopo le guerre di indipendenza nel Risorgimento? Molto poco, di fatto: non la lingua, non una visione comune (che la maggior parte degli italiani di allora non aveva), non una visione politica (che non era di certo la stessa dei Savoia).
L'autore racconta gli sforzi fatti, sin dall'unità d'Italia, per costruirla questa definizione di italiani, sfruttando in modo retorico l'epopea risorgimentale e nascondendo tutti gli attriti nati con l'unione: la leva obbligatoria, la piemontesizzazione del paese, la calata da nord di prefetti e forze militari per combattere il fenomeno del brigantaggio.
Problemi che ancora dovevano essere risolti quando, i nostri
governanti, decisero che il destino del regno sabaudo, la nuova
Italia, dovessero realizzarsi andando a conquistarsi lo spazio al
sole in Africa, impegnando in questa guerra coloniale risorse che
avrebbero potuto essere meglio usate per uniformare il paese,
combattere l'analfabetismo, la miseria delle zone rurali del
paese.
Serviva una narrazione, uno storytelling avremmo detto
oggi, per uniformare il paese, un ideale per cui valeva la pena
morire: ecco allora la mitizzazione del Risorgimento, la creazione
dei nemici esterni, l'Austria prima e la Francia, colpevoli di voler
rendere succube l'Italia che invece doveva liberarsi delle sue catene
per essere libera.
Ecco allora il libro Cuore, uscito nel 1886, diventato subito testo di lettura nelle scuole:
il libro di De Amicis parla parla di una società cittadina ad un'Italia ancora fortemente rurale; parla dei valori borghesi a un'Italia contadina; racconta del valore della cultura e dello studio a un'Italia ancora in maggioranza analfabeta. Cuore raccoglie storie di un'Italia totalmente maschile: le pochissime figure femminili sono personaggi di contorno..
Lo scoppio della prima guerra mondiale da, alle èlite e alla macchina della propaganda un altro strumento per dare agli italiani una visione e un ideale comune: la guerra per conquistare i territori irridenti, le zone del sud Tirolo e di Trieste, escluse dagli accordi della terza guerra di indipendenza e che ora reclamavano come parte del nostro territorio, parte della patria comune. Patria, confini sacri, iniziano a circolare queste parole (che sentiamo ancora ai giorni nostri) e che fanno pensare più ad un gergo religioso che non ad una questione di geopolitica.
Poco importa, per la propaganda che gli austriaci fossero nostri
alleati, traditi per allearci a Francia e Inghilterra per sole
questioni politiche, poco importa che fossimo noi gli aggressori nei
confronti dell'Austria.
La prima guerra mondiale, coi suoi
milioni di morti negli insensati attacchi alle trincee nemiche, con
le decimazioni nei confronti di chi si rifiutava di andare
all'attacco, col fango e il terrore delle bombe, per la prima volta
fa scoprire a molti italiani il volto della patria.
Una nazione
impreparata, provinciale, con tante ambizioni da grande potenza, ma
che ha mandato alla morte i propri figli per un bottino ben misero.
Che ha represso con la forza chi scioperava per condizioni migliori,
accusato di antipatriottismo.
Ancora oggi si sente parlare della prima guerra mondiale come
prosecuzione delle guerre risorgimentali, ma non fu così se
consideriamo i lutti e i sacrifici enormi fatti e le promesse fatte
al paese.
Il prezzo di questa guerra sarà anche il favorire la ricerca di nuovi modelli, l'italiano nuovo che risolve i problemi con la forza, spazzando via gli scioperanti e i governanti inetti.
Peccato che questo italiano nuovo vesta di nero, come la camicia dei
fascisti, e che porterà l'Italia dentro il buio ventennio della
dittatura.
La fine del fascismo mette temporaneamente da parte
termini come patria o confini da difendere: l'identificazione ora
avviene per l'appartenenza ai due partiti di massa e all'appartenenza
alle due aree del blocco, il blocco occidentale e quello comunista.
L'arrivo del boom servirà a costruire una nuova immagine degli italiani desiderosi di comprare quegli elettrodomestici pubblicizzati nella televisione, comprarsi la macchina, secondo il copione della società dei consumi.
Nascondendo però tutto il resto: l'emigrazione di massa dal sud al nord, lo sfruttamento di questa massa di lavoratori con salari bassi, accusati di insidiare le donne, di non volersi adattare ai costumi del nord civilizzato, di rubare il lavoro perché accettavano salari bassi.
Tutte accuse che torneranno quando ad essere incolpati di questo
saranno gli immigrati che arrivano da noi dal sud del mondo.
Rimaniamo comunque un paese pieno di fratture, su cui pesano gli anni
della strategia della tensione fino al culmine del rapimento Moro che
spazzerà via del tutto la possibilità di una conciliazione almeno
politica tra i due grandi partiti di massa. Saranno i mondiali vinti
nell'82 in Spagna a ridare un minimo di unità al paese, col ritorno
del tricolore sventolato per strada e l'orgoglio di appartenere ad
una nazione vincente.
Ma sarà un fuoco di paglia: gli anni
ottanta terminano con i grandi stravolgimenti del secolo passato, la
fine della prima repubblica, le stragi mafiose della mafia e il
ricatto allo Stato, i trattati europei che cedono parte della
sovranità nazionale a strutture superiori.
E poi l'arriva delle ondate migratorie, gli albanesi prima, i nordafricani poi, strumentalizzati da parte della politica per un personale tornaconto.
Altro che italiani popolo accogliente, avendo avuto un passato di emigrazione alle spalle: a partire da fine anni novanta si torna a parlare di confini da difendere anzi, di nuovi confini da tirar su, come la Padania, la strana macro regione del nord che secondo i sogni della Lega di Bossi avrebbe dovuto separarsi dall'Italia di Roma ladrona.
Chi sono gli italiani dei primi anni del duemila? Sono persone scottate dalla crisi, con una forte paura del futuro, precario e con poche speranze di veder migliorare la propria vita. Sono persone a cui i partiti (di destra, ma anche a sinistra) hanno indicato gli immigrati come nemico da cui difendersi.
Ancora una volta, i sacri confini, le donne da difendere, la patria.
Non sorprende a questo punto vedere Giorgia Meloni inginocchiarsi di
fronte al monumento del Milite Ignoto a Roma, uno dei milioni di
soldati uccisi magari nel corso di quegli attacchi scriteriati decisi
dai nostri Stati Maggiori.
Siamo un paese dove la memoria è
stata svuotata, dove si sono persi tanti riferimenti comuni, che
avevamo almeno un tempo, tra cui l'antifascismo come base della
nostra democrazia.
Si dice “prima gli italiani”, “padroni a casa nostra” intendendo il paese come un bene di proprio possesso, perdendo di vista il concetto di beni comuni, perdendo di vista la stessa democrazia.
Si comanda su ciò che si possiede, si ha il diritto di decidere per sé e per gli altri in un determinato ambito, quello di ciò che si sente proprio. In questo contesto si perde di vista anche il senso democratico del bene comune, perché “è mio e ne faccio quello che voglio, giusto o sbagliato che sia.” Un principio di proprietà da difendere anche praticando violenza contro chi pensa di insidiarlo.
Una visione sicuramente minoritaria, quella dei nuovi-vecchi sovranisti che ha dentro componenti xenofobe che intossica il discorso politico ogni giorno.
La difesa della famiglia tradizionale (che secondo i dati Istat del 2018 è solo il 33% delle famiglie italiane), del presepe, del rosario, delle immagini sacre nei luoghi pubblici. Del prima gli italiani, prima noi: senza spiegare cosa siano questi italiani di cui si parla.
La scheda del libro sul sito di
Editori Laterza e qui
il video di presentazione dell'autore.
Su Micromega
è stato pubblicato un estratto del primo capitolo.
I link per
ordinare il libro su Ibs
e Amazon
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