26 agosto 2020

Tre passi per un delitto, di Cristina Cassar Scalia, Giancarlo De Cataldo e Maurizio De Giovanni

In ogni delitto che si rispetti c'è una vittima, non necessariamente un morto, un investigatore chiamato a risolvere il caso, un primo sospettato del reato che poi, grazie al lavoro dell'investigatore, viene scagionato. E poi tutte le persone attorno alla vittima, e magari anche al principale sospettato, tra cui magari si nasconde il vero responsabile del delitto.

Tre, tra i più importanti scrittori di giallo italiani di questo momento, si sono cimentati in un esperimento letterario molto interessante: raccontare un delitto attraverso tre diversi punti di vista.


Quello dell'investigatore, il commissario romano Brandi (dello scrittore Giancarlo De Cataldo), che deve capire chi ha ucciso Giada Colonna, una giovane e bella ragazza, trovata morta nel suo appartamento per un colpo alla testa.
Al centro di una parete spoglia, tinteggiata di un vivido giallo, c'è un grande quadro. Il fondo è di un verte raggrumato, a suggerire l'intenzione di marcio. Sul lato sinistro è raffigurata una bambina che sta per accendere un fiammifero. Indossa una tutina rossa che fa risaltare i corti capelli biondi. [..] All'estremità opposta, sulla destra, una gamba sollevata, come di una figura in movimento. Pantaloni scuri e una scarpa bianca con lacci neri, di foggia antiquata. Incongrua, minacciosa.
Brandi un investigatore in gamba, che sa separare le intuizioni da ciò che viene fuori dall'analisi della scena del crimine.
Ma sa anche che i delitti nascono dalle distorsioni dei sentimenti, “le passioni, dai dolori, dagli interessi e dalle miserie delle migliaia di esseri umani che le percorrerono”.

Che distorsione può aver interrotto la vita di Giada, che nella vita lavorare nel mondo dell'arte, come si evince dalle opere contenute nel suo appartamento (come quel quadro inquietante, che Brandi chiama “della piccola fiammiferaia”)?
Una vita irreprensibile, dicono le persone che l'hanno conosciuta. Nessuna relazione, nessun amante.
Una vita che ora, almeno nelle ultime sue ore, viene vivisezionata dalla squadra di Brandi: le telefonate, gli spostamenti.
Fino a quelle immagini di una telecamera, di un locale gestito da un prestanome di un mezzo mafioso. Che la immortalano vicino ad un signore anziano e poi andare via assieme ad un ragazzo di colore che si scopre poi essere uno spacciatore.

Chi era Giada allora? Brandi inizia a confondere i piani, dell'indagine e della sfera privata, arrivando a sognare questa ragazza. A desiderarla. Ad amarla..
Giada, che non era come veniva descritta.
Ci sono tanti piccoli misteri, come quel messaggio a MV, di cui non si riesce a risalire al numero.

MV come Marco Valerio Guerra, che proprio quel quadro aveva regalato a Giada.
“La stavo aspettando” - dice a Brandi quando questi si presenta alla sua Fondazione.

Marco Valerio Guerra (Maurizio De Giovanni) si presenta in prima persona, sin da subito:
Voi ci credete al destino?
No, non rispondete. È una domanda retorica. Per diversi motivi: il primo, fondamentale, è che quello che credete non importa a niente. Proprio niente.
Capirete che, premesso ciò, le altre ragioni per le quali la vostra risposta non mi interessa perdono di significato; e tuttavia, volendo approfondire ancora, vi direi che il livello medio della gente, quindi il vostro livello medio, è così basso e prevedibile che non serve a nulla fare domande di cui si conoscono già le risposte. Io, vedete, sono assai più intelligente del più intelligente di voi.
Simpatico, vero?
Marco Valerio Guerra si racconta in prima persona: dagli inizi, quando dovette affrontare la povertà dignitosa della sua famiglia, il cui patrimonio era stato dissipato dal nonno.
Un cognome aristocratico e basta: ma a compensare questo una forte ambizione e una grande volontà di conquistare una posizione di potere, manipolando le persone, convincendole a fare le cose che tornano più comode ai suoi interessi.
Per non finire come suo padre, dimesso e debole, “un vaso di fiori in tempo di guerra”, bello ma inutile, che però un giorno lo presentò ad un suo ex compagno di classe per una raccomandazione, Sebastiano Carli di Bosconero.
Di cui Marco Valerio Guerra divenne suo collaboratore fidato, nel mondo dell'edilizia (quello dei palazzinari romani), con un primo obiettivo. Prenderne un giorno il suo posto, sedersi su quella poltrona.

In che modo? Raccogliendo informazioni, trovare la “crepa” negli avversari, non esporsi se non quanto minimamente necessario, nessun vizio, nessuna dipendenza da lussi, droghe, sesso.
Per il suo obiettivo, manca però qualcosa: il capitale con cui poter costruire il suo impero.
Ed ecco allora entrare in scena la moglie, Anna Carla, conosciuta ad un ricevimento di quelli dove si fa dell'ipocrita beneficenza e diventata poi la sua principale alleata, complice, collaboratrice.

Anna Carla Santucci (Cristina Cassar Scalia), dal punto di vista familiare, è completamente complementare a Marco Guerra: figlia di un imprenditore nel ramo dei sanitari (o re dei cessi, come veniva chiamato nell'ambiente) Remo Santucci, non aveva titoli, non aveva discendenza nobili, non era nata nell'ambiente dell'aristocrazia romana. Ma aveva i soldi del padre.
E con i soldi entri in tutti i circoli che contano, puoi pagarti i migliori studi (per non essere più un burino come il padre, il “re dei cessi”).
La incontriamo a Viterbo, alle terme, in compagnie di alcune sue amiche, che rimugina su quella telefonata ricevuta dal marito, la notte precedente.
Non avrei dovuto dirgli che sarei rimasta qui. Avrei dovuto cogliere la sua richiesta d'aiuto e tornare a Roma subito, senza esitazioni. Se l'avessi fatto, non saremmo arrivati a tanto.
Penso e ripenso a quella telefonata. Scompongo il dialogo, lo ricompongo, immagino come sarebbero andate le cose se avessi risposto in modo diverso. Ma la realtà resta uguale, e adesso sembra non esserci più molto da fare. Nonostante l'assurdità della cosa. Nonostante io sia certa che nulla è andato veramente così.
Di cosa sta parlando, Anna Carla?
La notte precedente il marito, Marco Valerio Guerra, l'aveva chiamata confessando la fine della relazione con Giada e chiedendole di ritornare a Roma.
Evento incredibile: Anna Carla era a conoscenza delle sue relazioni extra, sapendo che erano tutte destinate a chiudersi senza lasciare traccia.
Perché Guerra e il suo impero, su cui in tanti hanno cercato di indagare (giornalisti, magistrati, nemici nel mondo della finanza), non ha crepe.
O forse no.

Il delitto di Giada Colonna viene raccontato da tre voci diverse, dei tre protagonisti della storia: l'investigatore che sa che quel delitto è un'arma da maneggiare con cura, perché coinvolge un nome importante della finanza e non sono permessi errori o passi falsi.
L'amante della vittima, Marco Valerio, che nella sua autoconfessione di fronte al lettore non ci nasconde nulla e nulla nasconde di sé.
Infine Anna Carla, fredda, per nulla sorpresa della scoperta di quella relazione extra coniugale del marito.

L'investigatore che deve cercare la verità, una verità che non crei problemi alla procura, ai suoi superiori.
L'uomo abituato a manipolare la verità e le persone, a far sì che questa segua un percorso più congeniale per i propri interessi.
Infine la donna abituata a nasconderla, la verità.

Ciascuno di loro racconta la sua verità, non quella reale, solo un tassello per consentire al lettore di capire cosa è successo, quella notte, a Giada Colonna.

Nel complesso, l'operazione letteraria è riuscita a metà: le tre storie che compongono il racconto non sembrano amalgamarsi bene, una a fianco all'altro. Un po' leggerina la parte di De Cataldo, che apre e chiude il romanzo: il “passo” meglio riuscito è quello di De Giovanni, che da voce al cinico finanziere, quello che cercava le crepe nei suoi avversari, prima di scoprire di averne una dentro di lui
Se volete potete chiamarla fragilità, crepa, fessura, lesione: a voi la scelta.
Ma sono
crepe profonde, che hanno il potere di far implodere, di ridurre in una nuvola di polvere e detriti un edificio maestoso costruito con cura per una vita intera.
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