L’accordo (spot) con l’Albania – l’intervista con Edi Rama
Il presidente
albanese aveva definito il servizio di Report sull’accordo tra
Italia e Albania per la gestione dei migranti come uno
schifo.
Giudizio a parte, aveva cercato di mettersi in contatto
coi vertici Rai per lamentarsi dell’immagine data da Report: così
alla fine si è arrivati a questo nuovo servizio che forse nelle
intenzioni del presidente albanese dovrebbe essere riparatorio.
Forse
per qualcuno quell’accordo, quei contratti, quegli appalti in
Albania non sono uno schifo, ma un buon affare, coi soldi
pubblici.
Chiacchiere e propaganda a parte, i fatti non possono
essere nascosti: i lavori che sono indietro, l’enorme costo per il
nostro paese (fino ad 1 miliardo nei 5 anni, col rischio che con una
maggioranza diversa si blocchi tutto) e l’inutilità del tutto per
snellire il carico in Italia dei migranti (che andranno avanti e
indietro verso il nostro paese).
“Invece di ringraziarlo per
avere agito in nome della solidarietà europea lo hanno linciato”
urlava il presidente Meloni dal palco della conferenza programmatica
di FDI – “addirittura il servizio pubblico italiano, telemeloni,
ha confezionato un servizio sui centri in Albania sui quali in buona
sostanza si dipingeva l’intera Albania come una sorta di
narcostato. Aiutatemi per cortesia a mandare ad Edi Rama e a tutto il
popolo albanese la nostra solidarietà per venire linciati solo per
aver cercato di aiutare la nostra nazione”.
Così Report ha
chiesto nuovamente la disponibilità del presidente Rama per una
intervista, perché in occasione della prima inchiesta non aveva
accettato. Ma stavolta Rama ha ricevuto nel palazzo del governo il
giornalista Giorgio Mottola, con tanto di offerta di una tazza di
caffè.
Dopo il siparietto sul caffè rifiutato, Mottola è
tornato sul giudizio dato al passato servizio, “schifoso”: non è
stato un errore di traduzione.
La scorsa settimana Report
è tornato in Albania, nella vecchia base militare di Gjader
costruita negli anni
settanta durante la dittatura comunista: l’area è ancora un
cantiere aperto, di lavoro da fare sembra essercene ancora tanto.
I
giornalisti non sono stati ammessi a visitare il cantiere (anche il
deputato Bonelli
ha avuto difficoltà a visitare l’hot spot di Schengjin): i lavori
finiranno a novembre racconta un operaio, ma intanto i costi
continuano ad aumentare se dai 39 ml di euro previsti inizialmente
siamo passati a 66 ml, con l’ultimo decreto inserito nel pnrr.
A chi andranno questi soldi? Report ha scoperto che in cantiere sono presenti gli uffici temporanei di una azienda italiana che finora non era presente nei documenti resi pubblici dal governo, la Ri Group SPA: l’azienda gestirà i prefabbricati nella struttura.
Questa
ditta leccese è specializzata in prefabbricati e, continua il
servizio, è controllata dall’imprenditore Salvatore Tafuro,
rinviato a giudizio nel 2018 in una indagine per turbativa d’asta e
corruzione di alti ufficiali dell’aeronautica militare per un
appalto da 1,5 ml di euro per il CIE di Foggia. Il ministero della
Difesa ha però assegnato i lavori alla sua azienda per la posa dei
prefabbricati nel centro albanese, per un totale di 6,5 ml di
euro.
Ma tutto questo è
meglio non farlo sapere agli italiani, che devono essere solo
informati dalla propaganda del governo.
E chi gestirà i migranti in questi hotspot? Li seguirà una cooperativa italiana che si è già occupata di migranti nel passato: Medihospes è uno dei principali gestori in Italia, è in questo settore in nove province, ma è a Roma dove diventa il gestore più importante. La sede legale è a Roma ma il suo quartier generale è a Bari in un piccolo fortino protetto da un muretto e vetri oscurati: questa cooperativa nasce dalle ceneri de La Cascina, fondata negli anni 70 da Comunione e Liberazione: era l’avamposto più importante del potere e del cooperativismo di CL, dove si è mossa sempre tenendo saldi rapporti con la politica, per anni ha finanziato economicamente sia il PDL che il PD, con un occhio di riguardo ai ciellini doc come Maurizio Lupi. Poi però nel 2015 è arrivata l’inchiesta mafia capitale che ha svelato le pericolose relazioni tra La Cascina e il mondo di mezzo di Massimo Carminati costringendo i vertici della coop a patteggiare in Tribunale per corruzione.
Filippo Miraglia è il responsabile di ARCI immigrazione e conosce
bene questa storia: con la condanna non finisce l’esperienza de La
Cascina perché compare spesso assieme a Medihospes nelle gare in
giro per l’ITalia (per gli appalti nella gestione dei migranti),
“di fatto è una derivazione, anche se adesso Medihospes è
diventata una organizzazione molto più grossa nella gestione
dell’accoglienza.”
Così, se l’immagine de La Cascina è
stata bruciata dall’inchiesta Mafia Capitale, le attività del
gruppo continuano sotto le insegne di altre aziende satellite, come
Medihospes appunto, presieduta da Camillo Aceto, dirigente ciellino.
Sotto la sua direzione è diventata un colosso nell’accoglienza dei
migranti: secondo il rapporto di Open Polis, Medihospes gestisce
circa l’80% delle strutture ricettive destinate ai richiedenti
asilo. Così se nel 2015 fatturava 26 ml di euro, nel 2022 grazie
soprattutto ai finanziamenti statali è arrivata ad incassare 127 ml
di euro.
C’è un rapporto stretto tra prefettura di Roma e
Medihospes? Sicuramente è il principale gestore sul territorio
romano, e la gara d’appalto per la gestione dei centri in Albania è
stata gestita proprio dalla prefettura capitolina.
Grazie
a questo appalto nei prossimi cinque anni il bilancio di Medihospes
crescerà di altri 133ml di euro. Il segreto del successo di questa
cooperativa lo può spiegare il presidente: alla richiesta di una
intervista da parte del giornalista ha risposto che è meglio di no,
“essendoci una procedura di gara in corso”.
Non accettano, dentro questo governo, di passare per quelli cinici, che godono dopo un naufragio. Se i barconi si rovesciano è colpa dei criminali senza scrupoli che il governo Meloni vuole, almeno a parole, combattere. Ne è così convinta, la presidente, da ripetere ogni volta che in Europa in tanti stanno copiando gli accordi coi paesi del nordafrica o come l’accordo Italia Albania. Quello dei cantieri ancora aperti. Dove tanti imprenditori hanno trovato un eldorado.
"Mandiamo un abbraccio al primo ministro socialista albanese che
stanno massacrando solo perché ha tentato di dare una mano
all'Italia".
Chi sono questi imprenditori che stanno
portando avanti affari in Albania: oltre a D’Alema, anche il
ministro per le imprese Urso qualche anno fa è sbarcato a Tirana.
Nel 2015, come aveva rivelato Report, l’attuale ministro faceva
consulenza per le aziende dell’imprenditore Becchetti, il
proprietario della TV albanese Agon Channel. Dopo essere caduto in
disgrazia in Albania Francesco Becchetti sostiene di aver perso non
solo l’appoggio professionale ma anche l’amicizia di Adolfo Urso
che proprio in quel periodo avrebbe instaurato un rapporto di grande
cordialità e intesa col primo ministro albanese. Ad un commento su
questa vicenda il ministro se l’è cavata rispondendo “io sto
sempre dalla parte dell’Italia”.
Fino a tre giorni prima del
giuramento da ministro, Adolfo Urso era proprietario della Italian
World Services, poi ceduta al figlio Pietro: si tratta di una società
che effettua operazioni di lobbying per le aziende. Becchetti a
Report racconta dell’idea che si è fatta, su quello che chiama
abbandono di Urso: “se lei prende e valuta gli interessi che ci
sono state in campo, le imprese italiane che sono state accompagnate
da Rama..” ovvero la mission della società della famiglia
Urso.
Sul
Fatto Quotidiano potete leggere una anticipazione del servizio e
dell’intervista a Edi Rama, che respinge le accuse di corruzione
sollevate dal servizio di Report
L’Albania dei narcos e gli affari di Urso jr. con gli amici di Rama
STASERA SU RAI 3 - Viaggio al di là dell’Adriatico, a pochi giorni dal (finto) spot di Meloni sui migranti
Stasera Report torna in Albania a pochi giorni dallo spot di Giorgia Meloni sui centri di detenzione per migranti. Sarà uno spot dimezzato, quello del 5 giugno. I centri delocalizzati nell’ex colonia, che il governo prometteva di aprire il 20 maggio, come sappiamo non ci sono ancora. “I lavori finiranno a novembre”, ha detto il guardiano del cantiere a Giorgio Mottola di Report. Però c’è Edi Rama, il primo ministro albanese che ha fatto l’accordo con la presidente del Consiglio italiana e ha definito “schifosa” la prima puntata della trasmissione di Sigfrido Ranucci: in una gustosa intervista, quasi un corpo a corpo, Rama respinge con sdegno l’accusa di guidare uno Stato inquinato dai denari del narcotraffico. Meloni, invece, non ha accettato di parlare con Report. O Telemeloni o niente. Intanto, ancora ieri, mandava “un abbraccio” a Rama e ricordava che altri 14 Paesi dell’Unione europea sono pronti a seguire l’Italia nella delocalizzazione dei migranti.
Ma l’Albania parla da sola. Nella Tirana dei grattacieli, dove Rama era sindaco prima di essere premier, ogni tre torri ce n’è una sotto inchiesta per corruzione o presunti legami col narcotraffico. E il 60% dei 3,7 miliardi di euro di investimenti immobiliari del 2023, spiega Report con l’aiuto di Ola Xama che è una giornalista economica albanese, non proviene dal circuito bancario e non è, quindi, tracciato. Quanto ai centri di detenzione italiana, i costi sono passati da 39 a oltre 65 milioni: uno sproposito per 3.000 posti. L’appalto per il posizionamento dei prefabbricati a Gajder l’ha vinto Ri Group Spa, ditta leccese che fa riferimento a Salvatore Tafuro, rinviato a giudizio nel 2018 e poi prescritto nel 2019 per turbativa d’asta e corruzione di alti ufficiali dell’aeronautica militare in relazione al centro di identificazione di di Foggia. L’appalto per la gestione, con un ribasso del 4,9% che lo porta a 134 milioni di euro in 4 anni, è andato a Medihospes. È un colosso del settore, legato a La Cascina, la storica cooperativa di Comunione e Liberazione che ha prosperato per decenni finché i suoi dirigenti non hanno patteggiato per corruzione nell’inchiesta nota come Mafia capitale anche se poi non era mafia. Medihospes è il principale gestore di centri per migranti a Roma, ne gestisce anche altrove e le condizioni disumane in cui vivevano gli stranieri nel suo centro di Foggia furono documentate da Fabrizio Gatti sull’Espresso.
La scheda del servizio: LA CAMPAGNA D’ALBANIA
Di Giorgio Mottola
Consulenza Thimi Samarxhiu
Collaborazione Greta Orsi
Dopo la precedente inchiesta sull’accordo tra Italia e Albania sui migranti, Report e’ stata fortemente criticata da due presidenti del Consiglio: quello italiano, Giorgia Meloni, e quello albanese, Edi Rama. Nonostante ciò, prosegue il nostro viaggio sull’altra sponda dell’Adriatico dove abbiamo raccolto nuove prove e testimonianze dell’ingerenza nella politica e nell’economia albanese delle organizzazioni mafiose, arrivate a condizionare le più alte sfere istituzionali. L’Albania negli ultimi anni è diventata terreno di conquista anche di politici ed ex politici italiani a caccia di affari. Report rivela come un ex presidente del consiglio italiano e un attuale ministro hanno messo in piedi a Tirana proprie attività nel settore della consulenza istituzionale e del lobbismo, conseguendo ottimi risultati. Risultati che finora non può invece vantare la missione italiana sbarcata in Albania per la costruzione dei centri che ospiteranno i migranti. L’inizio delle attività era previsto per il 20 maggio, ma, da quello che abbiamo scoperto visitando i cantieri, non se ne parlerà prima di novembre. Intanto le spese continuano ad aumentare e quasi tutti gli appalti sono stati già assegnati. Cominciano così a spuntare fuori i nomi di aziende coinvolte in indagini per corruzione e turbative d’asta o legate all’inchiesta Mafia capitale. Sulla questione dell’accordo con l’Italia, la forte pressione mafiosa e gli interessi dei politici italiani in Albania, il primo ministro albanese Edi Rama ha rilasciato per la prima volta un’intervista a Report.
Cosa non è stato fatto in Italia nei giorni del rapimento di Giulio Regeni
Report, leggendo i messaggi scambiati tra Il Cairo e Roma, nei
giorni del rapimento Regeni, aveva scoperto che l’allora presidente
Renzi era stato informato di quanto era successo ben prima del 31
gennaio, il 28 gennaio tramite una comunicazione criptata inviata in
Italia dall’ambasciatore a Il Cairo Maurizio Massari.
Il nuovo
servizio di Daniele Autieri cercherà di ricostruire nuovamente
quanto successo in quei giorni di fine febbraio 2016, per capire se
si è veramente fatto tutto per salve il ricercatore italiano.
Una cosa è certa: sul corpo di Giulio Regeni sono stati trovati i
segni di torture riconducibili ai servizi egiziani, la firma è loro,
lo sostiene anche la donna individuata dall’American University per
sostenere Giulio nelle sue ricerche. È la stessa donna che lo
presenta ad Abdallah, il sindacalista che lo avrebbe tradito
indossando una telecamera nascosta su richiesta dei servizi.
Hoda
Kamel, il nome di questa donna che lavora per un centro di diritti
civili, in un video inedito racconta ai genitori di Giulio di come la
verità la conosce solo il circolo ristretto del potere, attorno al
regime, “perché è stato torturato in modo professionale, è la
tecnica della polizia e dell’intelligence, non c’è nessuno fuori
dalla polizia che può fare quello che han fatto a Giulio. Ancora
adesso la società civile in Egitto ha un enorme problema. Ieri hanno
arrestato una donna a capo di una organizzazione e l’hanno accusata
di tre reati gravi. Queste accuse potrebbero portarla a una condanna
a vita..”
Accuse indiscriminate, violenza politica, torture
sembrano ancora all’ordine del giorno e portano la firma della
polizia e della National Security la longa manus del presidente Al
Sisi negli appartati di sicurezza che controllano il paese.
La scheda del servizio: VERITÀ NASCOSTE PER GIULIO REGENI
Di Daniele Autieri
Collaborazione Federico Marconi
Nei giorni in cui il mondo si chiedeva dove fosse Giulio Regeni, qualcuno – ai più alti livelli delle istituzioni – sapeva. È questa la verità che emerge da alcuni documenti inediti e dal racconto di un super testimone che per la prima volta dopo otto anni ha deciso di parlare e lo fa a Report.
Dalla scomparsa di Giulio Regeni, il 25 gennaio del 2016, al ritrovamento del suo corpo senza vita passano dieci giorni. Dieci giorni nel corso dei quali le istituzioni italiane si muovono ai livelli più alti, dal Presidente del Consiglio al direttore dell’Aise, il nostro servizio segreto estero, senza però riuscire a salvare il ragazzo. Negli stessi giorni, mentre il ricercatore italiano viene torturato, il governo egiziano nega ogni responsabilità e in più occasioni ripete di non sapere che fine abbia fatto Giulio Regeni. Lo ribadisce ad esempio al Ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni e all’Ambasciatore d’Italia al Cairo Maurizio Massari.
Questa è la verità sostenuta fino a oggi, la stessa verità incardinata nel processo che si sta celebrando a Roma nei confronti dei quattro ufficiali della National Security, il servizio segreto militare egiziano, accusati a vario titolo di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni. Ma il racconto ufficiale corrisponde davvero a quanto accaduto in quei giorni?
La tragedia di Cutro e le responsabilità italiane
Cosa
è successo quella notte del 25 febbraio 2023 di fronte alla coste
italiane a Cutro? Report ricostruisce la catena di eventi che hanno
portato al mancato soccorso in mare della barca dove erano stipati
profughi afgani.
Come mai non è uscita la capitaneria di Porto,
che poteva andare a soccorrerli prima che la nave sbattesse sulla
secca sfasciandosi? Era sempre uscita dal porto di Crotone per
salvare i migranti in qualsiasi condizione di mare e a qualsiasi
distanza, spiega a Report il giornalista Bruno Palermo, “ma
qualcuno quella notte doveva chiamare la capitaneria di porto e non
l’ha chiamata”.
Se quei migranti avessero avuto la pelle di
un altro colore – aggiunge l’avvocato Bertone, legale delle
vittime del naufragio – “se fossero stati duecento canadesi,
duecento americani, avrebbero fatto la stessa scelta”.
Report
ha ascoltato Manuelita Scigliano che a Crotone, assieme ad altri
volontari, accorre immediatamente al palazzetto dello sport per dare
sostegno alle famiglie delle vittime del naufragio di Cutro: “erano
famiglie che scappavano la maggior parte dell’Afghanistan, quindi
erano passati dai campi profughi in Pakistan, Turchia. Già in tarda
notte vedevano le coste italiane, quindi hanno iniziato a chiamare, a
mandare foto, mandare video ai familiari.. erano pronti a scendere”.
Ma
quella barca è stata vista dagli aerei di Frontex , è stata vista
anche da personale italiano che, dentro questa struttura, si occupa
dei rapporti con gli stati membri tra cui l’Italia. Frontex sapeva
che stava per arrivare cattivo tempo, come lo sapeva la capitaneria
di porto: lo spiega bene a Report la mediatrice UE Emily O’Reilly
che ha indagato il ruolo di Frontex nel caso del naufragio della nave
Adriana, avvenuto in Grecia 4 mesi dopo il quello di Cutro. In quel
caso l’aereo di Frontex ha chiesto alla guardia costiera greca se
potessero intervenire, quando è tornata sul mare, dopo un
rifornimento, la barca non c’era più perché affondata e 600
persone erano annegate.
Frontex non può intervenire, ma può
mandare un segnale di soccorso e nel caso della nave Adriana in
Grecia, come nel caso di Crotone non lo ha fatto: la barca non era
immediatamente in pericolo, eppure sapevano che il tempo stava per
peggiorare: “ancora una volta, tutta questa storia, è una storia
politica”.
Il
portavoce di Frontex conferma a Report di aver comunicato all’Italia
le condizioni meteo della sera del 25 febbraio, erano tutti
consapevoli di quello che stava succedendo, anche gli operatori
italiani che lavorano nella sala di monitoraggio, uno della Guardia
di Finanza e uno della Guardia Costiera, i cui nomi non sono stati
comunicati ai giornalisti per privacy.
Queste
due persone sono un canale di collegamento con le autorità italiane
con cui condividono tutte le informazioni di cui Frontex è in
possesso: “spetta alle autorità italiane decidere come agire se
considerare l’operazione come una operazione di ricerca e
salvataggio o una operazione di polizia.”
Una questione
politica dunque: eppure nella conferenza stampa a Cutro il presidente
Meloni aveva detto chiaramente “Qualcuno qui ritiene che le
autorità italiane non abbiano fatto qualcosa che potevano fare? ”
riferendosi alla scelta di non far intervenire la guardia costiera ma
classificare l’intervento come operazione di polizia.
La
giornalista di Report
che ha curato il servizio, Rosamaria Aquino, è andata fino in
Belgio a sentire un sopravvissuto della tragedia, per capire quali
fossero le condizioni della barca quella notte. Mohamed è un ragazzo
palestinese, nel 2021 è partito da Gaza attraversando l’Egitto, la
Turchia da cui si è imbarcato per l’Italia: a Report racconta
della situazione a Gaza, senza scuole e ospedali, “volevo una vita
diversa e mi sono messo in viaggio, eravamo in duecento persone tutti
uno sull’altro, persino sedersi era un problema. Ricordo il pianto
dei bambini, costante. Per quattro giorni abbiamo mangiato datteri e
acqua, quello che c’era da mangiare lo davamo soprattutto a loro [i
bambini]”.
Chi li stava aspettando in Italia? “L’accordo
era che dovevano lasciarci in un porto e consegnarci alla polizia per
chiedere l’asilo, eravamo tutti stipati sotto coperta, ci hanno
fatto uscire solo dopo due giorni e mezzo, e solo per due ore per
prendere aria. Nemmeno l’ultimo giorno ce lo hanno permesso, quando
stavamo arrivando e stavamo festeggiando, poi il tempo è
cambiato.”
Da quando eravate in pericolo?
“L’ultimo
giorno, già dalle 3 del pomeriggio quando abbiamo iniziato ad
avvicinarci è diventato molto pericoloso, entrava acqua dalla
finestra della barca, perché le onde erano molto alte, faceva molto
freddo, sono state ore di terrore..”
In queste ore le autorità
italiane avrebbero potuto gestire la situazione in modo
diverso?
Torna sul
punto il giornalista Bruno Palermo: dopo Cutro la guardia costiera è
sempre intervenuta per operazioni di search and rescue (non di
polizia) per portare a terra persone che rischiavano di affogare. Ma
allora cosa ha portato a quella decisione nel pomeriggio sera del 25
febbraio 2023?
Bisogna tornare a 8 mesi prima, il 27 giugno
2022, dalla centrale operativa della guardia costiera parte una mail
a quella di Crotone dove è scritto che “a seguito di tavoli
tecnici interministeriali il livello politico ha impartito nuove
disposizioni tattiche ..”, la guardia costiera avrebbe potuto
uscire in mare per un intervento diretto solo in caso di evento SAR
(search and rescue): prima di quella mail si pensava a salvarli e poi
se c’erano degli scafisti, ad arrestarli – commenta sempre
Palermo – con questa mail si invertono queste due cose, li andiamo
a prendere per arrestare e poi vediamo se li possiamo salvare. La
mail è firmata dal capocentro di Roma Gianluca D’Agostino e fa
riferimento ad un accordo tecnico del 2003 che spiega quando
interviene la guardia di finanza e quando la guardia costiera. Ma
perché c’è bisogno di ribadirlo?
In quella mail D’Agostino
ribadiva che prima di fare un intervento di salvataggio occorreva che
vi fosse stata la dichiarazione dell’evento SAR , lasciando
intendere che questa dichiarazione dovesse venire dalla centrale
operativa di Roma – spiega a Report una fonte anonima dentro la
guardia costiera – “quella mail è una vera e propria
abdicazione, se la politica ingerisce nel livello tattico crea un
corto circuito di responsabilità, per cui rimane responsabile il
livello tattico, ma le decisioni sono prese da un’altra parte.”
E’ stata una scelta politica – come faceva intendere la
mediatrice in UE di Frontex?
“Io voglio sapere da Roma chi non
ha dato l’ordine o chi ha dato l’ordine di rientro, il problema è
a Roma non è a Crotone” è la richiesta dell’ex dirigente medico
della polizia di Stato Orlando Amodeo.
La scheda del servizio: GLI IRRESPONSABILI DEL NAUFRAGIO
Di Rosamaria Aquino
Collaborazione Chiara D’Ambros, Alessia Marzi
Il naufragio a largo della spiaggia di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone, ha sconvolto l'opinione pubblica mondiale. Novantaquattro morti, tra cui donne e tantissimi bambini, hanno perso la vita nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023 dopo uno schianto su una secca. Su quella spiaggia però, nonostante il caicco proveniente dalla Turchia fosse stato avvistato molte ore prima, c'erano solo tre ignari pescatori che si sono trovati di fronte a un'immane tragedia, dovendo recuperare i vivi e i morti con le sole proprie forze. Da quante ore le istituzioni europee e quelle italiane, presenti nel quartier generale di Frontex a Varsavia, avevano visto la barca? Chi doveva dare l'allarme e chi materialmente intervenire tra Guardia di finanza e Guardia costiera? Report ripercorre le ore precedenti al naufragio e, tramite interviste ai protagonisti, ricostruisce la catena di decisioni che sono state prese quella notte a tutti i livelli.
Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.
Nessun commento:
Posta un commento