14 ottobre 2024

Le verità spezzate di Alessandro Robecchi


 

La verità non sembra mai vera.
Georges Simenon

Incipit

«Rivestiti.» Il dottore gli aveva voltato le spalle, aveva percorso con passo pesante i due metri che lo separavano dalla scrivania e si era seduto, come per compilare qualcosa, ma non aveva compilato niente, aveva incrociato le mani sulla scrivania e lo aveva guardato con un misto di amicizia e indolenza, rassegnato.
«Allora?»

«Allora niente, come al solito, le analisi fanno schifo, tu fai schifo, Manlio, diamo colpa all’età e finiamola qui.»
Manlio Parrini aveva fatto una risatina. Carlo Dizzani, il dottore, è suo amico da tempi immemorabili. Da quando lo avevano chiamato d’urgenza sul set per il malore di un attore

A Manlio Parrini, famoso regista, autore del film Le verità spezzate che l’aveva consacrato come maestro del cinema italiano, basterebbe fare un ultimo film: sono passati troppi anni da quell’ultima fatica, che gli aveva dato fama e successo, un ultimo film prima di ritirarsi del tutto.
Il “maestro” Parrini ha un’idea che gli gira in testa: la storia di uno scrittore italiano, autore di opere teatrali, di numerosi romanzi, stiamo parlando di Augusto De Angelis, considerato il padre del giallo italiano col suo commissario De Vincenzi, il poeta del San Fedele, sede della Questura a Milano prima che venisse abbattuta dalle bombe inglesi nel ‘44. Un commissario all’antitesi degli investigatori in voga nei noir pubblicati negli anni ‘30 e ‘40: un investigatore che leggeva Proust e Freud, che sapeva leggere nell’animo delle persone che si trovava davanti.
Un poliziotto all’antitesi anche del modello fascista di poliziotto, quello dell’investigatore costretto ad alzare le mani, perché col crimine ci vuole la mano dura. Era un’altra Milano, quella di De Angelis negli anni ‘30, nei pieni anni ruggenti del regime. Come anche era una città diversa la Milano degli anni 40, con la guerra sempre più vicina, con le bombe, le restrizioni del regime sempre più insopportabili, l’oppressione della polizia fascista e dei tedeschi.

Vede una città senza nessuna frenesia, monumentale e scura, oppressa. “Piazza San Fedele era un lago bituminoso di nebbia, dentro cui le lampade ad arco aprivano aloni rossastri" scriveva Augusto De Angelis nel 1935.

Non sarà la solita biografia, il solito biopic cui siamo abituati nelle serie televisive in Rai: l’idea che ha in mente Parrini è raccontare l’Italia negli anni del regime, per arrivare a parlare di questa Italia di oggi.
Perché quella dello scrittore Augusto De Angelis è una storia da raccontare: morì nel luglio del 1944 a seguito delle percosse subite da un pestaggio di squadristi fascisti, a Bellaggio dove si era rifugiato come tanti altri milanesi.
Ma De Angelis non era un antifascista, non era un pericoloso sovversivo, anzi: veniva da una famiglia borghese, aveva cercato successo nel mondo del teatro, la sua vera passione, senza però riuscire a sfondare. Poi era passato alla scrittura, con l’intuizione felice di portare in Italia il giallo: peccato che nell’Italia fascista fosse sempre più difficile parlare di reati e di crimini, se proprio c’erano dei criminali dovevano essere stranieri, su cui l’azione della polizia doveva essere implacabile.

Eccola la storia con cui il maestro Parrini chiuderà la carriera: quella del padre del giallo italiano e del suo commissario De Vincenzi:

«Cosa sai di Augusto De Angelis?»
«Direi niente.»
«Perfetto.»
«Dammi un titolo per farmi un’idea.»
«Un cold case degli anni Quaranta.»

«Occazzo. Sentiamo.»

Un cold case per quel mistero dell’aggressione a Bellagio che aveva chiuso quella breve carriera di scrittore di gialli: De Angelis in fondo voleva solo scrivere romanzi ambientanti nella borghesia milanese, senza che gli assassini fossero per forza stranieri, ma “De Angelis aveva dovuto adeguarsi, ma si vedeva la forzatura, i suoi libri erano pieni di signorine O’Brian, di mister Bolton..”

Man mano che il film va avanti, Parrini si rende conto di come, in fondo, i tempi non siano poi così cambiati. Nonostante lui sia “il maestro”, arrivano pressioni da parte del produttore su chi scegliere come protagonista (un mascellone americano), un aiutino per la storia da quella sceneggiatrice che ha lavorato tanto bene in Rai..

Le censure e le autocensure dell’inizio degli anni Quaranta non somigliavano in modo cristallino, quasi grottesco, a quelle di oggi?
Di là Pavolini, ottuso burocrate di quel che si può dire e non dire, di qua la macchina produttiva: qualcuno da affiancare a Sara De Viesti per renderla digeribile, l’attore di moda per attrarre i soldi…
Al giallo, “freddo”, si affianca poi un altro delitto, la morte della vicina di casa di Parrini, vedova del proprietario della depandance dentro cui il regista vive in perfetta solitudine che poi era stato il suo produttore. Uno strano delitto: una donna strangolata dentro casa senza che siano presenti registrazioni di telecamere o di intercettazioni per inquirenti. Sembra proprio una di quelle indagini che avrebbe fatto il commissario De Angelis, col suo fido aiutante Cruni.
Anche questo giallo, la vecchia vedova strangolata in casa, ha qualcosa di particolare: ci sono dei dettagli che non tornano, strane pressioni sulla magistrata che segue il caso, un indiziato con buoni avvocati alle spalle e un altro che sarebbe poi il colpevole perfetto.

Un giallo nel passato e un giallo nel mondo di oggi: tutte e due storie di meriterebbero giustizia, meriterebbero che si arrivasse ad una verità? Ma ne esiste veramente una?

E il problema vero, il problema di sempre e di tutti, pensa ora Manlio Parrini, non è che le verità si spezzano, ma che le verità non ci sono, non esistono, semplicemente. Sono fatte di una sostanza ambigua e molle, inconsistente. Le verità che conosciamo sono solo quelle che noi decidiamo siano verità.

La verità si deve plasmare col corso della storia, forse. A seconda delle convenienze del potere. Come anche la libertà, quella che pensiamo di avere noi tutti i giorni e che invece è fatta anche di tante rinunce.
Perché anche oggi esiste un potere che ci dice cosa deve andare in onda in televisione e cosa è meglio tenere nascosto. Un potere che decide cosa è satira e cosa no. Di cosa ridere e di cosa non si deve ridere.
Un potere che ha deciso di egemonizzare la cultura pretendendo perfino di riscrivere la storia. A loro uso e consumo. Basta con questa satira, basta con questo giornalismo di inchiesta che parla di corruzione. Basta con questo disfattismo contro il governo che rappresenta gli italiani..

Tutto ridicolo (perché la storia la seconda volta si ripete in farsa)? Forse.

Chi ha detto che il ridicolo non può essere pericoloso?

Attenzione, allora, ci dice Robecchi, a cosa rinunciamo ogni giorni, sull'informazione, sul diritto alla trasparenza, all'essere informati su chi ha un ruolo pubblico. Quando vediamo l'ennesima lottizzazione in Rai, l'ennesima querela per una vignetta o per un articolo. Per conformismo, per ignavia.
Un giorno non avremo più voglia di riderci sopra perché sarà troppo tardi.

La scheda del libro sul sito di Rizzoli, il pdf del primo capitolo.
Il blog di Alessandro Robecchi dove potete trovare altri articoli su questo libro.
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