14 gennaio 2022

Sconfitti, di Corrado Stajano

 


Chissà chi è la donna alta, secca, con indosso una tunica nera lunga fino ai piedi che cammina a passi cadenzati sotto l'ombrello protettore di un antico tasso. Ha il viso bianco come fosse impastato di calce, di biacca, di gesso o soltanto comparso di latte, tiene la testa ritta, gli occhi fissi dinanzi a sé, trascina un carretto di legno, vuoto. Un tragico mimo, un fantasma.

Come siamo arrivato a questa Italia, un paese colpito duramente dalla pandemia, nel corpo (per le migliaia di morti) e nell'anima (per le paure, per le persone lasciate a casa, per la perdita della socialità)?

Un paese dove ancora si discute se il fascismo sia reato, se sia giusto o meno dargli libertà di espressione, di manifestazione (proprio loro, i figli di quella dittatura che quelle libertà le aveva proibite)?

Nei decenni a venire il fascismo – i fascismi - seguita a far capolino con altre vesti, altri travestimenti, mascherato anche da sovranismi impudichi. Non si è mai sentito sconfitto. Una risorsa, non un ripiego. Maestra, sempre, la violenza.

Un paese dove, governo dopo governo, la democrazia è stata svuotata dal suo interno, portando alla crescita dei populismi da una parte e ad una crescita dell'astensionismo, il disinteresse della politica, dall'altra, perché a cosa serve votare? Tanto arriva sempre l'uomo della provvidenza a salvare il paese dai suoi stessi mali

Gli italiani hanno sempre avuto bisogno di piazze e di Cesari vestiti in ogni foggia da applaudire festanti, vogliosi di essere rassicurati e possibilmente esauditi dei loro desideri. Con un duce che pensa a tutto e a tutti ed è in grado di risolvere anche i problemi di ognuno togliendosi il fastidio di pensare e di fare.

Un paese dove la parola mafia è sparita dall'agenda politica, sopita, nonostante gli allarmi di parti della società civile e di alcuni magistrati, che ogni volta debbono constatare quanto più a fondo sia penetrato questo tumore nel corpo dello Stato (della finanza, dell'imprenditoria, nel mondo dei professionisti), quanto poche siano le denunce da parte degli imprenditori minacciati, dei politici avvicinati..

Non sono più solo gli alberghi e i ristoranti il miraggio degli affari di mafia, a differenza di un tempo, ma tutta ma mappa economica delle grandi città, interi isolati di case, gli ospedali, le cliniche, le autorimesse, i costosi strumenti sanitari. I capi della mafia i loro consulenti e complici – uomini politici, commercialisti, notai, avvocati, funzionari e dirigenti dei ministeri, degli enti locali – seguono occhiuti le mode del vivere, i nuovi gusti e i consumi. Il problema degli investimenti è nodale per le mafie, mutevole nel tempo, come il riciclaggio della gran quantità di denaro sporco in denaro pulito.

La pandemia, questi due anni di lockdown (per una breve parentesi), di chiusure, di regioni a colori variabili (come un ritorno ai regni pre unitari), ha fatto esplodere tutte le contraddizioni e i problemi di un paese che stenta ad uscire dalla crisi, si rallegra di una crescita del PIL (dopo il tonfo del 2020) che si basa sul lavoro precario, dove aumentano le disuguaglianze, le sacche di povertà, con una classe politica in cui sono spariti i partiti, sminuito il ruolo del Parlamento, dove il bene comune è sacrifica all'interesse privato di una classe dirigente interessata all'arricchimento, senza alcuna visione a lungo termine..

Ad inizio pandemia si trovavano, appesi ai balconi, striscioni o teli con su scritti, “andrà tutto bene”. Non è stato così: in questo saggio lo scrittore Corrado Stajano ripercorre alcuni episodi della nostra storia contemporanea, dalla guerra al giorno d'oggi, andando a raccontare le vite degli “sconfitti”.

Nei libri di storia di insegna ai ragazzi della vita dei vincitori? Stajano racconta un'altra storia, che poi è la stessa storia ma vista da un'altra angolazione.

Da quelle persone, uomini, donne, ragazzi e ragazze che hanno lottato per un'Italia migliore, più libera e più uguale.

Come Giordano Cavestro, 18 anni, studente a Parma, fucilato dai fascisti, così scrisse ai compagni (in una lettera che trovate nella raccolta “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”)

Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile. Se vivrete tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.

Sconfitti come tutti i soldati - tra cui il padre di Stajano - mandati in guerra dal duce, l'uomo della provvidenza, poi morti nelle sabbie del deserto, nel ghiaccio della Russia. Quei soldati abbandonati a sé stessi, dopo l'8 settembre quando le istituzioni si sbriciolarono, il re scappò nelle braccia dei nuovi alleati e gli italiani dovettero scegliere, se stare a guardare, schierarsi coi tedeschi o combattere per un'Italia libera, democratica, senza dittatori.

Uomini come Nuto Revelli, il più giovane maggiore dell'esercito italiano, scampato all'accerchiamento dei russi, riuscì a salvarsi e a salvare anche parte dei suoi soldati: i suoi diari scritti durante la guerra, scritti per sentirsi vivo, furono la base per i suoi libri, una volta tornato a casa e smessi i passi grigioverdi del militare.

Libri che tramando a noi la memoria di cosa è stato il regime, l'assurdità di una guerra, la disfatta della ritirata, la difficoltà del ritorno a casa, in una provincia “bianca” (in mano ai preti) come era Cuneo.

Da qui parte la dolente storia di questo paese che Corrado Stajano ci racconta: la fine della guerra, il paese da ricostruire, le elezioni del 1948 (e le divisioni del papa che si mobilitarono per la DC contro il fronte popolare, usando le stesse metafore lugubri del regime passato), la mancata pulizia dai fascisti all'interno delle istituzioni, dentro le Questure, le Procure e i Tribunali, i funzionari dei ministeri.

Lo avevano capito bene quei contadino e quegli operai che si scontrarono con la polizia di Scelba a Genova, a Reggio Emilia, a Battipaglia e che di fronte alle loro proteste su salari, condizioni di lavoro, trovarono in risposta dallo stato i colpi di fucile.

Sono gli anni che portano al “boom”, alla trasformazione dell'Italia dove l'economia non si appoggia al mondo agricolo ma all'industria, portando migliaia di italiani ad emigrare dalle province del sud dimenticato verso le città del nord, con la speranza di una vita migliore, uno stipendio sicuro. Incontrando però anche lo sfruttamento, il razzismo, quello che oggi noi riserviamo ad altre persone che arrivano dal sud del mondo.

E' la fine dell'Italia dell'albero degli zoccoli, quella dei braccianti che erano proprietà del padrone, verso un'Italia che si illude, anche giustamente di essere potenzia industriale, per le scoperte scientifiche e tecnologiche che si stavano facendo (nella chimica, nel settore dell'auto, nel mondo dei calcolatori all'Olivetti).

Ma è un finto boom: non saranno solo i “braccianti” gli sconfitti di questa storia di un'Italia nelle mani di una “classe padronale” arroccata sui propri interessi che sa difendere, bloccando ogni tentativo di riforma. L'Italia degli anni sessanta si risveglia dal sogno di potenzia mondiale col botto di Piazza Fontana, a cui l'autore dedica un intero capitolo.

La strage fascista segue, di pochi anni, il tentativo di golpe del generale De Lorenzo su input del presidente della repubblica Segni (nel 1964, il Piano Solo) e apre la stagione degli anni di piombo: altri tentativi di golpe, altre bombe, altro sangue.

Come il sangue di Pino Pinelli, l'anarchico morto in Questura a Milano, quando era sottoposto ad un regime di fermo che era già scaduto. Morto per un malore, si è stabilito, con una sentenza che non ha convinto tutto.

Ma anche lui è una vittima della strage fascista, organizzata dai fascisti di ordine nuovo con protezione se non complicità di uomini dello stato, come i funzionari dell'Ufficio Affari Riservati del Viminale (Catenacci, Russomanno, ..) alcuni dei quali anche ex repubblichini.

Si sentì allora, acutamente, che non esisteva soltanto il conflitto di classe, ma anche il conflitto tra le due facce della borghesia, mai sanato: la borghesia fedele alla Costituzione e la borghesia infedele anche ai propri principi, disponibile all'illegalità in nome dell'interesse privato.

Un altro sconfitto di questa storia è il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale dei carabinieri mandato a Palermo come prefetto per combattere la mafia senza garantirgli quei pieni poteri per poterla fare veramente quella guerra.

Arrivato a Palermo dopo l'omicidio del segretario PCI Pio La Torre, Dalla Chiesa viene accolto da una parte con tante speranze dai palermitani, ma anche con grande scetticismo dalla borghesia isolana, con ostilità da quel mondo che con la mafia conviveva e traeva beneficio dal suo potere.

Dura cento giorni a Palermo, il generale, ucciso in un agguato il 3 settembre 1982 da killer poi dileguati senza che nessuno vedesse o sentisse qualcosa.

Così paura faceva, Dalla Chiesa, alla mafia? Oppure dava fastidio anche per la sua lotta al terrorismo, perché voleva entrare dentro le banche, attaccare i patrimoni dei mafiosi senza guardare in faccia anche ai politici collusi, come i referenti siciliani della corrente andreottiana?

Anche Giovanni Falcone fa parte della lista degli sconfitti eccellenti della storia di questo paese, tanto bisognoso di eroi da celebrare, ma solo dopo che sono morti. Perché da vivo, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rocco Chinnici, gli altri giudici del pool di Palermo, erano poco amati: poco amati dalla stampa, poco amati dalla politica, poco amati da loro stessi colleghiper cui la mafia non esisteva. Non esisteva dopo che, caso unico in una città europea, cosa nostra aveva ucciso tutti i rappresentanti dello Stato in regione, dal prefetto di Palermo, al presidente della regione Mattarella, al capo ufficio istruzione Terranova al procuratore capo Costa. Fino ad arrivare al capo della Mobile Giuliano e al giornalista Mario Francese (uno dei pochi giornalisti che aveva compreso la pericolosità della mafia e dei corleonesi in particolare). Ma la mafia non esisteva e i giudici non dovevano occuparsi delle banche che custodivano i beni dei boss, degli imprenditori che facevano da faccia pulita per i mafiosi, di gente come i Costanzo a Catania o i cugini Salvo a Palermo.

Ci ha lasciato un regalo, Falcone, il suo libro sulla mafia scritto assieme alla giornalista francese Marcelle Padovani, Cose di cosa nostra

Si muore perché generalmente si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.

Ancora oggi non sappiamo tutto del mancato attentato all'Addaura, delle menti raffinatissime dietro quella bomba, dietro le lettere del corvo. Dietro la strategia delle bombe della stagione 1992 – 1993 che ha portato l'Italia dalla prima alla seconda repubblica, con l'arrivo di un nuovo uomo della provvidenza.

Il cavaliere dalle origini (finanziarie) misteriose, l'uomo del mattone, che si portò ad Arcore a Villa San Martino Vittorio Mangano, un mafioso su cui aveva indagato anche Falcone e che Borsellino riteneva la testa di ponte della mafia al nord.

Piduista, vicino a Craxi, Berlusconi “scende in campo” nel 1994 per salvare le proprie aziende quando non ha più uno scudo politico, inaugurando un nuovo corso della politica italiana, quello delle grandi promesse, dello sdoganamento dei fascisti, del conflitto di interessi che diventa lecito, delle leggi ad personam. L'Italia della repubblica delle banane

Le famose leggi ad personam, una vergogna nazionale, capaci di imbrigliare le norme dannose per il suo interesse privato, cancellandole, vanificandole. La democrazia, in Italia, ai tempi dei governi Berlusconi, dal 1994, è morta, è davvero morta. Una repubblica delle banane.

Torniamo a noi, al nostro presente, all'Italia di oggi che, non a caso, paga tutte le malefatte, tutti i disastri di una classe dirigente e imprenditoriale miope, arraffona, egoista, preoccupata del solo interesse personale e nel breve periodo.

Scontiamo i danni di una sanità lottizzata e vittima dei tagli, per risparmiare.

Scontiamo il problema di aver abbandonato il sud, dove lo Stato spende meno e peggio rispetto alle regioni del nord.

Scontiamo i mancati investimenti in scuola, università, ricerca: non avevamo aziende che producevano mascherine, quando ne avevamo bisogno, nessun vaccino contro il covid ha qualcosa di italiano, se non in parte Astra Zeneca.

Non è solo dalla pandemia del covid che dobbiamo guarire, ma dalle tante malattie che non abbiamo curato e con cui si sono scontrati gli sconfitti di cui parla Stajano in questo lungo racconto.

Forse è anche peggio della peste del Manzoni perché, ad oggi, non si vede futuro da questa notte che ci ha inghiottito.

Solo la memoria ci può salvare.

La scheda sul sito di Saggiatore edizioni

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