20 maggio 2012

Uomini soli , Carlo Alberto Dalla Chiesa


Secondo capitolo del libro di Attilio Bolzoni: Carlo Alberto Dalla Chiesa, Il generale che non piace al potere.

E mentre a Roma si pensa sul da fare, Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera la nostra Palermo”
grida nella sua omelia il cardinale Pappalardo al funerale del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ucciso dopo 100 giorni a Palermo, il 3 settembre 1982.

Dopo l'omicidio dell'onorevole comunista Pio La Torre, lo stato nomina prefetto di Palermo il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa: una nomina che dovrebbe essere la risposta autorevole dello stato che manda in Sicilia l'uomo che a capo della brigata antiterrorismo ha saputo combattere e sconfiggere le Brigate Rosse.
Ma è solo apparenza: anche Dalla Chiesa è solo, nella sua lotta. Solo, e sa di esserlo anche in quella prefettura, dove viene spiati, ascoltato.
Solo in quella città che non approva questo nuovo sceriffo venuto dal Piemonte a scomodare certi equilibri: nel tribunale, nella prefettura, nella questura, nella Palermo bene.

In un'intervista con Giorgio Bocca che è diventata celebre, Dalla Chiesa, in attesa dei superpoteri che non arriveranno mai, parla dei cavalieri di Catania, “che con il consenso della mafia palermitana oggi lavorano a Palermo”. 
Il prefetto “denuncia la connivenza delle banche che proteggono i loro clienti in combutta con la criminalità organizzata. E poi dice che
«l'Italia perbene sbaglia a disinteressarsi» di quello che sta accadendo in Sicilia. È un messaggio che lancia a tutta la nazione. Perchè la mafia ormi non è solo in Sicilia. È dappertutto. A Bocca dice anche: «Credo di aver capito la nuova regola del gioco. Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può uccidere perchè isolato»”.
Pagina 94.

Isolato come Dalla Chiesa appunto: della sua storia, Bolzoni  ricorda gli anni in Sicilia di Dalla Chiesa. La prima volta che si scontrò con la mafia, proprio a Corleone quando operava col Corpo Forze Repressione Banditismo, e si occupò della morte del sindacalista Placido Rizzotto. E arrivò ad individuare come responsabile di questa Luciano Liggio, il malacarne del dottor Navarra, il mafioso locale, chiamato Patri Nostro, elettore della democrazia cristiana dunque intoccabile.
Forse per questo suo zelo contro la mafia, il trasferimento d'urgenza a Firenze, e gli anni in giro per le caserme del nord: Como, Firenze, Torino. Le umiliazioni subite dai vertici dell'arma, per i continui cambiamenti di sede.
Poi nel 1966 il ritorno in Sicilia a comando della Legione di Palermo: qui, il generale, applica il suo metodo: la schedatura di tutte le famiglie mafiose della città e dell'isola per arrivare ad avere un quadro “genealogico” di cosa Nostra. Non un gruppo di bande criminali, separate, ma una entità sola, organica, come sentenzierà la Cassazione troppi anni più tardi.
Gli anni 60 sono quelli della prima guerra di mafia, per gli appalti della regione e dell'a città: sono gli anni dove gli amici di Lima, Ciancimino, Gioia, amici mafiosi, vincono appalti miliardari per rendere Palermo più bella. Dove questi miliardi portano anche al sangue: la strage di viale Lazio, dove i corleonesi uccidono i vertici del clan Cavataio, è l'episodio più eclatante (assieme alla strage di Ciaculli).
Nel 1973, alla brigata Torino, per la lotta al terrorismo rosso: qui applica i metodo imparati sul campo sull'isola, Schedature dei sospettati, specializzazione degli investigatori, la creazione di una mappa di relazioni.
I nuclei di Dalla Chiesa furono sciolti nel 1976. Dalla Chiesa fu spettatore degli eventi sul rapimento Moro: Andreotti li ricostituì solo nel 1978 e con essi, Dalla Chiesa ottenne la carta bianca.
Sono gli anni della scoperta del covo di via Montenevoso, del memoriale di Moro (e delle polemiche fatte nascere sulle pagine mancanti), dell'irruzione nel covo di via Fracchia.
Questa sua disinvoltura a qualcuno, nell'arma, nelle istituzioni non piace. Non tutti approvano i suoi metodi che scavalcano le burocrazie e le regole.

Dalla Chiesa non era iscritto nella P2, ma aveva fatto domanda per entrarvi (per poi ritornare indietro su questa scelta) per sbloccare la sua promozione. Quando nel 1981 il suo nome esce, per lo scandalo esploso a Milano, su Licio Gelli e sulla P2, teme nuovamente di essere messo da parte.
Fino alla chiamata di Spadolini, che gli chiede di tornare in Sicilia.
A combattere la mafia, i suoi legami con le istituzioni locali, con i vertici della DC siciliana per arrivare fino a Roma.

La Dc a Palermo vive con l'espressione peggiore del suo attivismo mafioso, oltre che politico [...]. Lo Stato affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa, ma allo sfruttamento del mio nome per tacitare l'irritazione dei partiti [...] pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compresi. (dal diario privato del Generale Dalla Chiesa, 30 aprile 1982; citato in Peter GomezMarco TravaglioOnorevoli Wanted, p. 647) 
In molti temono il generale. Il prefetto di Catania di allora si lamenta per le sue parole contro i cavalieri del lavoro di Catania (i Costanzo, i Finocchiaro). Quello di Napoli per i poteri che richiede allo stato.
Ne hanno paura i Salvo, dopo la perquisizione alla Satris (ente riscossione dei tributi), ne hanno paura i banchieri, che per decenni hanno vissuto in una sorta di zona di zona d'impunità.

Il 3 settembre, la mafia fisicamente ma non solo la mafia, mette fine a questi timori.
Come per La Torre, anche qui ci sono dei “Pezzi mancanti”: qualcuno (servizi, carabinieri) entra nella sua mano e trafuga i suoi documenti dalla cassaforte.
Dopo Dalla Chiesa, lo stato manda a Palermo il prefetto De Francesco, dal Sisde, cui invece concede pieni poteri, che verranno usati in special modo per attaccare l'ufficio istruzione di Chinnici, Falcone e Borsellino.

Uomini soli – Pio La Torre.

"I pezzi mancanti" di Salvo Palazzolo.
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