Il difficile viene adesso.
Il nome ufficiale era Stay behind, che letteralmente significa «stare dietro»; sottinteso: le linee dell'ipotetico invasore dell'Est comunista, da scompaginare attraverso la rete clandestina di patrioti addestrati a sabotare e resistere. Un'operazione imbastita dall'Alleanza atlantica a metà degli anni cinquanta, ma in Italia nessuno ne ha saputo niente- tranne pochi governanti e ufficiali del servizio segreto militare – finché il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti l'ha resa pubblica, a ottobre 1990. Chiamandola col nome «Gladio», dal simbolo della piccola spada a doppia lama contornata dal motto Silendo libertatem servo, «in silenzio servo la libertà».Da quel momento cominciarono ad inseguirsi interrogativi e polemiche, come sempre quando si intrecciano politica e trame occulte, nel paese a «sovranità limitata» imposta dagli americani. Stavolta c'era di mezzo anche la Cia e i depositi nascosti di armi ed esplosivi, quanto bastava per alimentare dubbi su possibili collegamenti con le bombe che hanno condizionato la vita pubblica dal dopoguerra in avanti.[..]Oggi però, Falcone è concentrato su altro.
Fine
gennaio 1992: il libro di Giovanni Bianconi parte da
questa data, fondamentale per la storia della lotta alla mafia. La
data in cui la Suprema corte di Cassazione confermò le condanne in
primo grado del maxi processo di Palermo.
Il
processo istruito dal pool di Palermo, Caponnetto, Falcone,
Borsellino, Di Lello che per la prima volta mandava alla sbarra i
capi mafia e non solo i gregari, accusandoli non di singoli reati, ma
di far parte di una struttura criminale unitaria e verticistica che
aveva coordinato i reati loro imputati.
A 25
anni dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992, che segnò
l'inizio della guerra dei corleonesi allo Stato, una sfida alle
condanne del maxi, il giornalista del Corriere ricostruisce gli
ultimi anni del giudice Giovanni
Falcone, in un racconto che segue due binari.
Da una
parte il commando di mafiosi che su ordine di Totò Riina, in
un clan ristretto, organizzano la vendetta contro Falcone
inseguendolo fino a Roma. Dove Falcone andò a lavorare, al ministero
della Giustizia, lasciata la procura di Palermo nel 1991, continuando
la sua battaglia alla mafia su un altro fronte.
L'altro
binario è la storia, amara, di un giudice troppo bravo e preparato
per essere premiato in un incarico direttivo.
Pochi
altri magistrati come Falcone (e Borsellino) sono stati così
attaccati, vittime di invidie e ingiurie da vivi, quanto idolatrati
come eroi da morti.
Il
libro di Bianconi non è solo una storia di un giudice, infatti: è
un nodo al fazzoletto, per ricordare a tutti noi tutte le sconfitte,
i bocconi amari da digerire, gli attacchi sui giornali da politici e
dagli stessi colleghi delle altre procure o del CSM (il parlamentino
dei giudici).
La
sentenza della Cassazione del 2004, sulla strage di Capaci, li
mette nero su bianco questi attacchi, questo assedio in cui Falcone
fu costretto, stretto da una parte dalla mafia, che lo considerava un
morto che cammina e dall'altra parte i politici che lo considerarono
prima comunista, poi democristiano, poi socialista...
“Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone - certamente il piú capace magistrato italiano - fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia (anche all'interno delle stesse istituzioni), tendenti a impedirgli che assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il piú meritevole, sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi era indiscutibilmente il piú bravo e il piú preparato, e offriva le maggiori garanzie - anche di assoluta indipendenza e di coraggio - nel contrastare, con efficienza e in profondità, l'associazione criminale”.
Non aveva contro solo la
mafia, che lo considerava come il suo principale nemico: contro
Falcone si schierò un fronte ampio che partiva dal CSM, che bocciò
la sua domanda per prendere il posto di Caponnetto, come capo
dell'Ufficio Istruzione, per proseguire il lavoro contro cosa nostra,
perché era un giudice troppo famoso,
troppo “protagonista” per le sue apparizioni in tv e sui
giornali.
Contro aveva anche quanti
pensavano di usare la magistratura per le loro battaglie politiche,
per sbarazzarsi di quegli esponenti della politica troppo
chiacchierati, per i loro legami con la mafia.
Come Salvo Lima, a capo
della corrente andreottiana della DC in Sicilia.
Fu accusato di tenere
certi fascicoli nei cassetti, sui delitti politici avvenuti in
Sicilia: La Torre, Dalla Chiesa, Mattarella, Reina.
Eppure Falcone aveva ben
chiaro quale fosse il discrimine tra comportamenti penalmente
rilevanti e comportamenti poco opportuni per un politico, ma che non
costituiscono necessariamente un reato. Due questioni da tenere ben
distinte: l'avvocato Galasso e l'ex sindaco Leoluca Orlando firmarono
un esposto contro Falcone, accusato di essere un insabbiatore (si
riferivano alle parole del pentito Mannoia, per esempio, dove parlava
dei rapporti di Lima col boss Stefano Bontade): a queste accuse
Falcone dovette rispondere di fronte al CSM: per imbastire un
processo servono prove di reato, non bastano le illazioni o i
presunti rapporti
“Bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo l'Italia, pretesa culla del diritto rischia di diventarne la tomba”
Sono valutazioni che ancora oggi
tornano, quando escono sui giornali notizie di inchieste che
coinvolgono politici: la distinzione tra garantismo e questioni di
opportunità, la distinzione tra reato penale e comportamenti
censurabili come politico:
Analisi e riflessioni che sarebbero tornate da attualità negli anni nei lustri successivi, con Falcone morto, sepolto, onorato e riverito, molte volte senza rammentare ciò che sosteneva in vita. Per esempio che per evitare l'imbarbarimento della Giustizia piegata gli interessi politici, e per evitare di fornire i politici pretesti per le loro frequentazioni sospette attraverso procedimenti penali archiviati o conclusi con inevitabili assoluzioni, fosse meglio tenere distinti due piani: una cosa sono i processi con loro regole e finalità, da rispettare sempre; un'altra le considerazioni sulla liceità o meno di certi comportamenti, che fuori dalle inchieste possono avere un diverso metro di giudizio.
Bianconi cita un episodio
particolare, durante
la trasmissione Maurizio Costanzo Show, in cui Orlando chiede a
Falcone, con una certa malizia, come mai Lima sia ancora libero.
Nonostante le voci.
Nonostante i pentiti come Giuseppe Pellegriti che avevano
accusato Lima di essere il mandante dei delitto politici.
Falcone, che aveva invece
incriminato Pellegriti per calunnia, rispose “Lo sapevano
tutti”:
A che sarebbe servito ribadire che certe conoscenze o frequentazioni, così come affermazioni non supportate da riscontri, non sono sufficienti a imbastire un processo mentre lo sarebbero per un giudizio politico anche molto netto? E che però è magistrati spetta di fare i processi, chiedere o pronunciare condanne o assoluzioni, non elargire giudizi o considerazioni politiche?
A proposito degli ambigui legami di Lima si limitò replicare: «lo sapevano tutti».
Come dire che ce n'era abbastanza, a disposizione di tutti, per trarre conclusioni di convenienza sul piano etico e politico.
Aveva le sue idee Falcone
e non si faceva scrupolo nel raccontarle, sui giornali e negli
incontri pubblici, anche in televisione.
Sul famoso “Terzo
livello”, ovvero la struttura superiore alla cupola, che dava
ordini alla mafia:
Anche davanti al Csm Falcone dovete tornare a spiegare l'inconsistenza delle ipotesi sul cosiddetto «terzo livello»: «non esistono vertici politici che possono in qualche modo orientare la politica di Cosa Nostra.
E' vero esattamente il contrario. Il terzo livello inteso quale direzione strategica formata da politici, capitani di industria eccetera, che orienta Cosa Nostra, esiste solo nella fantasia degli scrittori, non esiste nella pratica. [..]Magari ci fosse un terzo livello! Basterebbe James Bond per toglierci lo di mezzo. Ma purtroppo non è così. Abbiamo rapporti molto intensi molto ramificati e molto complessi».Si riferiva a collusioni, convergenza di interessi, politici a disposizione della mafia.
Ma per imbastire indagini utili a scoperchiare quelle realtà ancora indimostrate sul piano giudiziario, sarebbe servito unità di intenti e un metodo di lavoro che purtroppo si seguitava a non voler applicare.
«La mafia non si può combattere a correnti alternate», ricordò Falcone.
Sul “gioco grande”, inteso
come livello di indagine in cui si arriva a rischiare la vita perché
si sono toccati nodo troppo delicati, per esempio nel rapporto
mafia-politica (e la loro convergenza di interessi, nei voti, negli
appalti) o nel rapporto tra mafia e finanza.
Sul come la mafia (e i colletti bianchi
dentro la zona grigia in “contiguità” con essa) prima tenda a
infangare le sue vittime, per isolarle, per poterle poi colpire.
Lo scrisse nelle
ultime righe del libro “Cose di mafia”, scritto assieme alla
giornalista francese Marcelle Padovani:
«… credo sia incontentabile che Mattarella, Reina, La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui si erano impegnati. Il condizionamento dell'ambiente siciliano, l'atmosfera globale hanno grande rilevanza nei “delitti politici”: certe dichiarazioni, certi comportamenti, valgono individuare la futura vittima senza che la stessa se ne rende nemmeno conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande.
Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si e privi di sostegno».
Giovanni Falcone sapeva bene di essersi infilato in un gioco grande una partita cominciata a Palermo è ancora in corso a Roma ...
Non è un caso se lo stesso capo mafia,
Nino Giuffrè, anni dopo davanti ai giudici, sulla campagna di
delegittimazione di Falcone abbia utilizzato una metafora simile:
“... succede che la mafia piano piano mette in cattiva luce quel personaggio lo isola e quando è solo contro tutti viene ucciso”.Isolato come Falcone, isolato come Libero Grassi, l'imprenditore palermitano che si era rifiutati di pagare il pizzo al “geometra Anzalone” e che era stato lasciato solo. Dai colleghi, dall'associazione di categoria locale, dalla politica regionale.
Soprattutto, dopo anni di esperienza a
Palermo, al pool di Chinnici e Caponnetto, Falcone aveva maturato le
sue idee per contrastare cosa nostra, attraversa la “super procura”
antimafia, la Direzione Nazionale Antimafia, e la Dia, un corpo che
aveva al suo interno polizia carabinieri e Guardia di Finanza
specializzato nella lotta al crimine. A capo della DNA, il Super
procuratore antimafia, posto per cui Falcone si era candidato:
“niente più inchieste parcellizzate sul territorio, quindi, né affidate a strutture inadeguate e senza esperienza, con visioni diverse tra loro, bensì una risposta giudiziaria unitaria e proprio per questo coordinata dalla DNA, incasellata presso la Procura Generale di Cassazione.
Destinata a verificare l'attività delle procure distrettuali, elaborare strategie investigative, raccogliere fornire indicazioni e gli uffici periferici, mantenere un collegamento con Governo e Parlamento per formulare indirizzi di carattere generale.
Destinata a verificare l'attività delle procure distrettuali, elaborare strategie investigative, raccogliere fornire indicazioni e gli uffici periferici, mantenere un collegamento con Governo e Parlamento per formulare indirizzi di carattere generale.
In caso di incompetenza o inerzia delle procure distrettuali, la DNA avrebbe potuto avocare le inchieste e condurle direttamente.
Una piccola rivoluzione nel segno delle esigenze individuate proprio da Falcone durante la sua esperienza investigativa, per evitare le disfunzioni del passato; prima e fare tutte la polverizzazione delle indagini.
Che però comportava un balzo in avanti talmente ampio, soprattutto nei rapporti tra potere giudiziario e potere politico, da infondere non poche preoccupazioni nella grande maggioranza delle toghe.
Queste sue idee, che divennero proposte
di legge del governo Andreotti e del ministro Martelli, suscitarono
enormi polemiche nel mondo delle toghe.
La perdita di indipendenza da parte
della magistratura, per il rischio di controllo da parte
dell'esecutivo sulle inchieste sulla criminalità organizzata.
Il rischio di minare il principio
dell'obbligatorietà dell'azione penale.
La perdita di libertà di
indagine, da parte dei magistrati nelle varie procure nel territorio.
E l'accusa più grave di
tutte: essersi venduto al potere politico, essere diventato uno
strumento nelle mani dei socialisti (i socialisti della Milano da
bere dei Tognoli e Pilliteri, che di lì a poco sarebbe scoppiata
Tangentopoli).
Non essere più un giudice
indipendente.
Va ricordato ancora: Falcone andò a
Roma, a dirigere l'Ufficio Affari Penali del ministero di Giustizia
(a fianco di Liliana Ferraro, Loris D'Ambrosio, Livia Pomodoro e
Piero Grasso) perché aveva capito che a Palermo non avrebbe potuto
più portare avanti il suo lavoro, sebbene la promozione a
procuratore aggiunto.
Dovendo scegliere tra Palermo e la Roma
di Martelli e Andreotti, Falcone decise di provarci: la lotta alla
mafia poteva essere fatta anche incidendo sulle leggi con cui i
magistrati operavano, nel loro lavoro.
Leggi tese alla specializzazione delle
indagini, per cui dovevano esistere magistrati specializzati in
indagini finanziarie e altri in indagini sulla droga. Per cui, entro
certi limiti, è corretto che ci sia una separazione di carriere tra
pm e giudici, per il diverso tipo di lavoro.
Sulla perdita di indipendenza, giova
ricordare che nei corpi di polizia esistevano già reparti
specializzati nel contrasto alla criminalità, come il Ros dei
carabinieri o lo Sco. E carabinieri e polizia erano sottoposti alle
dipendenze di ministri ed esecutivo.
Il problema secondo Falcone, resta la specializzazione e lo sfruttamento razionale delle risorse a disposizione: «Se non si riuscirà a compiere un salto di qualità sul piano organizzativo e della professionalità, imposto dalla gravità e complessità della situazione, sarà vano continuare a parlare di riforme legislative destinate a imboccare la strada delle grida di manzoniana memoria».
Leggendo le pagine de
l'Assedio, sembra di vederlo Falcone, nel suo lavoro di tutti i
giorni, perennemente scortato, e l'amarezza nel leggere gli attacchi
di colleghi. O articoli come quello uscito sull'Unità del giurista
Alessandro Pizzorusso, membro laico del CSM per conto del PDS (e MD,
la corrente di sinistra si dimostrò tra le più ostili per la nomina
di Falcone alla DNA):
“Martelli continua instancabile nel tentativo di svuotare il CSM. Il principale collaboratore del ministro non da più garanzie di indipendenza”.
Comunista quando indagava
sulla DC di Ciancimino e Lima, poi socialista con Martelli. Falcone
troppo legato a Martelli, dunque non più indipendente.
Troppi pregiudizi, troppe
malignità anche gratuite contro un magistrato che aveva già
rischiato la vita dopo il fallito attentato all'Addaura.
Anche da parte dei
magistrati milanesi, ricorda Bianconi, nemmeno loro che stavano
indagando sul psi milanese, si fidavano più di lui.
In questo clima di
ostilità, di quasi solitudine, usato come strumento di battaglie
politiche, Bianconi racconta gli ultimi mesi di vita di Falcone.
Alternando le pagine della
sua vita romana, lo scontro tra ministero e CSM, la fine del governo
Andreotti, le elezioni anticipate e il ciclone di Mani pulite.
I giochi per il Quirinale,
con le ambizioni di Andreotti, per il finale della sua carriera …
Dall'altra parte i mafiosi
di Riina che, anziché Roma, decidono di colpire Falcone in Sicilia:
“Abbiamo trovato cose più grosse giù”, dice Riina ai
suoi.
Uno dei misteri sulla
strage di Capaci, ancora senza risposta.
Come ancora poco chiaro il
contesto di quei mesi in cui i corleonesi, per dimostrare alle altre
famiglie la loro forza, alzano il livello dello scontro.
Tagliando i “rami
secchi”, quei politici che non avevano rispettato i patti,
bloccando il processo in Cassazione e bloccando l'azione di Falcone
al ministero.
Salvo Lima 12 marzo.
E poi il maresciallo
Guazzelli, con cui si era confidato il ministro DC Calogero
Mannino: “il prossimo sono io” gli aveva confidato.
Le rivendicazioni della
Falange Armata, la lettera di Elio Ciolini dal carcere di Bologna in
cui anticipava la stagione di attentati, le connessioni tra logge,
eversione nera e i famigerati “poteri occulti” per
destabilizzare l'Italia, con l'obiettivo di arrivare ad un nuovo
ordine.
Dopo il crollo del muro di
Berlino.
Dopo la fine dei partiti
della Prima Repubblica.
Il 23 maggio 1992, alle
17.56, all'altezza di Capaci, la Croma bianca dove viaggiava Falcone
viene investita dall'esplosione di 200 kg di esplosivo (procurato dalle cave e dalle bombe inesplose della guerra).
L'auto davanti della
scorta salta per aria e verrà ritrovata più tardi, con dentro i tre
corpi carbonizzati di Vito Schifani, Antonio Montinari e Rocco Dicillo.
Il racconto si ferma qui,
con le due stragi che segnano la fine della prima repubblica,
l'inizio della fine del comando di Riina in cosa nostra, la fine di
una stagione della lotta alla mafia.
Un'occasione mancata.
Perché se è vero che gli
esecutori della strage sono stati arrestati e condannati, la guerra
alle mafie non è stata vinta.
Non solo perché la mafia
ha cambiato pelle o perché nel corso degli anni i governi hanno
condotto il contrasto alla criminalità organizzata a “correnti
alternate” (usando le parole
di Falcone).
Molte
delle considerazioni del magistrato sono ancora valide: sulla
separazione dei ruoli tra azione della magistratura e azioni (di
responsabilità, di argine, di prevenzione) della politica e dei
partiti.
Ancora
oggi l'azione dei magistrati viene strumentalizzata per guerre la cui
superficie si intuisce solamente.
Ancora
oggi succede a magistrati, a esponenti politici o della società
civile succede di ritrovarsi improvvisamente soli, nel gioco grande.
A
Falcone la credibilità che i suoi stessi nemici avevano tolto,
paradossalmente è stata a lui restituita dalla stessa mafia:
Nello
studio della trasmissione Babele, dove presentava il suo libro, una
spettatrice in studio citò la frase del suo libro per cui la
solitudine precede la morte per mano mafiosa. E chiese a Falcone:
“Giacché lei è fortunatamente ancora fra noi, chi la protegge?Il giudice riuscì a reprimere un moto di stizza, e replicò con un'altra domanda: - Questo significa che per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo paese?”
Altri post sul libro
Un
vizio si trova: il maxi processo in Cassazione e il giudice
Carnevale
“Lo
sapevano tutti”, la distinzione tra livello politico e livello
giudiziario
L'accordo
politico con cosa nostra raccontato da Mannino
La sentenza della
Cassazione
«Non vi è dubbio che Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio - prolungato nel tempo, proveniente da piú parti, gravemente oltraggioso nei termini, nei modi e nelle forme - diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro professionale del valoroso magistrato. Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone - certamente il piú capace magistrato italiano - fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia (anche all'interno delle stesse istituzioni), tendenti a impedirgli che assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il piú meritevole, sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi era indiscutibilmente il piú bravo e il piú preparato, e offriva le maggiori garanzie - anche di assoluta indipendenza e di coraggio - nel contrastare, con efficienza e in profondità, l'associazione criminale».Dalla sentenza della seconda sezione Penale della Corte di Cassazione. Roma, 6 maggio 2004.
La scheda del libro sul
sito di Einaudi
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