La notizia dell'ultimo minuto è che Di
Maio è disposto a fare un passo indietro pur di arrivare ad un nuovo
governo politico con Salvini.
Governo politico al posto del governo
tecnico, il governo del presidente che è dietro l'angolo, se non si
dovesse arrivare ad un accordo.
Ci sarà un governo ma sarà comunque
chiamato a muoversi entro i limiti posti dai vincoli europei che noi
stessi, coi precedenti governi, abbiamo firmato.
Ovvero il fiscal compact che si traduce
nel trovare quei 12,5 miliardi per non far scattare le clausole di
salvaguardia.
Un governo tecnico si occuperebbe di
questo: un governo politico potrebbe cercare di opporsi o rimandare
l'applicazione di questi vincoli, ma solo se fosse forte
politicamente.
Un governo politicamente forte dovrebbe
occuparsi dell'allarme giustizia lanciato dal magistrato Alfredo Robledo, per una magistratura non più indipendente ma
condizionata da correnti e incline a chinare il capo alle varie
sensibilità politiche.
Un governo forte dovrebbe occuparsi
degli accordi con la Libia, che hanno ridotto gli sbarchi a
costo dei respingimenti da parte della guardia costiera libica, che
l'Europa non vuole.
L'Europa che ci aveva chiesto un giro
di vite sui requisiti etici dei nostri banchieri, per evitare quei
gravi episodi di mala gestio di cui parlava il governatore Visco.
Regole rimaste nel limbo per quei 36
mesi necessari a Padoan per presentare quei decreti attuativi che –
lo dice The European House Ambrosetti – manderebbero a casa un
quarto dei consiglieri delle 19 grandi banche quotate in borsa (ne
parla Giorgio Meletti oggi sul Fatto Quotidiano).
Servirebbe un governo serio, capace. In
tanti oggi pensano a un Gentiloni bis, che nei sondaggi sta
prendendo punti pure a Renzi.
Uno guarda il PIL, i dati dell'Istat,
gli sbarchi.
E poi pensa che i numeri vanno
ponderati, per gli sbarchi si veda quanto succede davanti le coste
libiche.
E quello che viene percepito non è
quello che poi è nella realtà dei fatto: il governo Gentolini, a
dieci giorni dal voto, ha prodotto un decreto sul Bio che, di fatto,
è un regalo ai produttori del settore agricolo, perché sancisce il
conflitto di interesse dei controllati che controllano i controllori.
Ne parla, quasi in solitudine,
Millenium, il mensile de Il fatto Quotidiano:
“La truffa del BIO” di L. Gaita e P. G. Cardone
Le falle nel sistema e chi ne approfittaPerché a spianare la strada a chi vuole guadagnarci su, vendendo come biologico un prodotto in realtà coltivato con metodi convenzionali, c’è un sistema che fa acqua da tutte le parti. Poca trasparenza su produzione e importazioni del bio, verifiche nei campi rare e superficiali, organi di controllo pagati dagli stessi produttori che devono controllare e, come ultimo atto, un decreto ministeriale che doveva risolvere il problema del conflitto di interessi ma che, annacquato in fase di approvazione finale, scatta solo una fotografia della situazione attuale. Un quadro pieno di ombre che rischia di togliere credibilità a un metodo che, se fatto bene, porta indubbi vantaggi all’ambiente e alla salute. In Italia se un’azienda vuole produrre o vendere biologico ha l’obbligo di farsi certificare da un organismo autorizzato da Accredia, ente unico designato dal governo. Questi organismi (che si fanno pagare il servizio) sono una ventina e i loro rapporti con gli operatori del bio sono regolati da un conflitto di interessi stabilito dal decreto approvato dal governo Gentiloni il 22 febbraio, a dieci giorni esatti dalle ultime elezioni politiche.
La promessa mancata del ministro MartinaIl testo, promesso dall’ex ministro (e attuale reggente del Pd) Maurizio Martina dopo una serie di scandali e di inchieste giornalistiche, prima di arrivare all’approvazione definitiva è passato attraverso pressioni e attività di lobby. Il 16 giugno 2017, il ministero delle Politiche agricole aveva pubblicato una bozza di decreto in cui dichiarava guerra alla mancanza di trasparenza: “Gli operatori del biologico non possono detenere partecipazioni societarie degli organismi di controllo; gli organismi di controllo non possono controllare per più di cinque anni lo stesso operatore”. Dopo otto mesi, il 22 febbraio, il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva il testo, ma alcuni passaggi cruciali sono stati stravolti. Risultato: i controllati possono detenere fino al 50% del capitale sociale dei controllori (norma che non vale per i consorzi senza fini di lucro). Il problema dei controlli, però, non si limita solo al conflitto di interessi degli organismi di certificazione.
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