12 dicembre 2006

Noi moriamo a Stalingrado di Alfio Caruso

La triste storia di 77 sconosciuti soldati italiani. Finiti dentro la più sanguinosa battaglia della seconda guerra mondiale, la battaglia di Stalingrado.

Morti due volte: prima nei lager sovietici costruiti sulle rive del Volga dove transitavano i prigionieri di guerra prima di essere censiti nei campi di concentramento.

La seconda quando il loro ricordo è morto: della loro sorte, non ne sapeva nulla il regio esercito, le associazioni dei reduci e, ovviamente, l'esercito russo, che aveva tutto l'interesse per mantenere nascosto il massacro (per fame, sfinimento, denutrizione, maltrattamenti, epidemie) dei prigionieri di guerra dell'Asse. Nulla ricorda i 77 di Stalingrado: né un cimitero, né un cippo. Nulla.

Una tragedia che possiamo raccontare prima dai numeri:

1 milione dei morti, durante i combattimenti, da ambo le parti
320000 soldati dell'Asse accerchiati dall'Armata Rossa, nella sacca di Stalingrado
90000 prigionieri; di questi 80000 morirono nei primi mesi
6000 soldati tedeschi tornarono a casa

A Stalingrado, con la qualifica di autieri erano presenti 77 autieri dell'esercito, appartenenti al 127 esimo e del 248 esimo auto-reparto.

Molti erano in Russia per la cartolina precetto; uno era volontario. Uno, infine era un medico oculista che operava con la sanità tedesca al fronte.

Tornarono a casa in due: Walter Poli e Vincenzo Furini.

E gli altri? Di alcuni si ha il certificato di morte (non il corpo o il luogo di sepoltura). Degli altri, la maggioranza, non si è più saputo nulla.

La campagna di Russia è stato anche questo: 100000 soldati scomparsi. Dispersi, svaniti, probabilmente morti.

Il libro è diviso in due parti: nella prima si racconta degli ultimi mesi della battaglia attorno alla città di Stalingrado; i tedeschi, cui iniziavano a scarseggiare le riserve (sia di soldati che di armi e materiali), che cercavano di scacciare i russi dalla riva del Volga.
E questi ultimi che combattevano, casa per casa, per resistere. Una battaglia riflesso della sfida dei due leader di Russia e Germania: sia Hitler che Stalin avevano dato ordine di non indietreggiare. Per questo i soldati russi andavano all'assalto con le mitragliatrici pronte a falciarli in caso avessero ceduto.

Caruso evidenzia le responsabilità militari dell'accerchiamento: dalla cecità di Hitler di fronte alle difficoltà dei suoi generali, che gli chiedevano di compattare il fronte, rispondeva ostinatamente che il sacrificio dei soldati a Stalingrado era il più bel regalo per la gloria millenaria del Reich. Ma i soldati furono anche vittima della incapacità di Von Paulus (comandante della sesta armata) di prendere una sua iniziativa che andasse contro gli ordini del Fuhrer: paralizzato dal concetto di ubbidienza (che sarà usato anche da altri generali tedeschi per giustificare gli atteggiamenti più ingiustificabili durante la guerra), non cercherà mai di ritirarsi dal fronte, nemmeno quando sarà circondato dai sovietici.

Von Paulus è il simbolo di una casta, di una generazione, di un'epoca, che si rifiuta di capire l'eccezionalità del momento e si rifugia nell'accettazione degli ordini, perchè così presuppongono la sua educazione personale e l'addestramento militare.
I soldati a Stalingrado devono morire tutti, nella lotta per la gloria del Fuhrer: nessuno deve sopravvivere per testimoniare il suo errore strategico (la sua cocciutaggine contro Stalingrado).

Intervallate alle vicende belliche dei mesi da novembre 42 (quando si chiude l'accerchiamento intorno alla sesta armata), fino al gennaio 43 (con la resa), ci solo le lettere dei soldati italiani. Lettere dalle quali emerge l'attaccamento alla famiglia (le mogli, i genitori, i figli che spesso non rivedevano da anni) di questi ragazzi: il più giovane aveva vent'anni, il vecchio andava per i trentacinque. Contadini, artigiani, commessi, commercianti, la cui unica colpa era quella di appartenere alla generazione sfortunata. Quella di El Alamein, della Grecia, di Cefalonia ...

Nel freddo delle case dove erano sistemati, con i problemi di procurarsi il cibo (che scarseggiava anche per i tedeschi), e di igiene, il primo pensiero di questi ragazzi era di non far trasparire le proprie pene ai destinatari delle lettere.

Carissimi Ines e Gianni in questo santo giorno in cui per forza mi devo trovare tanto lontano, il mio pensiero è sempre rivolto a voi ed è un po' malinconico perchè è pieno di tanti bellissimi ricordi .. ” (dalla lettere che Gianni Puschiavo scrisse ai genitori il 25 dicembre 1942).

La seconda parte del libro è, per quanto possibile, ancora più dura: racconta della seconda parte dell'assedio, nei gulag allestiti dai sovietici per i prigionieri. Abbandonati alla fame al freddo e la gelo. Umiliati e derisi, come capitò ai reclusi di Oranky e Suzdal, ai quali la moglie di un italiano comunista, la signora La Torre, urlava “Avete battuto le mani a Mussolini, adesso battete i piedi!”.

Scrive Caruso: “a Tambov 1000 sopravvissuti su 20000, a Krinovaja 3000 su 30000, nel campo 127 nessun superstite di 300, altrettanto dicasi del campo 171 a Suslangher: solo che qui i reclusi erano 3000”.

Morirono di stenti, di freddo, di tifo petecchiale, di fame e di sete, i ragazzi dei due autoreparti italiani. L'unico sopravvissuto del 248 esimo, Vincenzo Furini, tornando in Italia volle dimenticare tutto e tutti di quell'inferno. Un giorno, commentando i capricci di un nipote, rivelò l'episodio del compagno morto di stenti, le cui carni furono il cibo della disperazione per i commilitoni che con lui dividevano l'ultima tana. Era la la confessione di un peso insopportabile che si era tenuto dentro. Lo stesso che a Stalingrado aveva sconvolto la vita di molti altri sopravvissuti, dell'una e dell'altra parte, costretti a cibarsi, inorriditi, dei compagni morti.

Un libro che accusa da una parte i sovietici, per che contabilirizzarono i prigionieri solo all'ingresso dei campi di prigionia e non dopo la resa;
contro i comunisti italiani come Edoardo D'Onofrio, che giravano nei gulag a impartire lezioni di “indottrinamento comunista” in cambio di un trattamento migliore; ma che non esitarono a perseguitare chi, non voleva piegarsi alla loro parola.

Il libro termina col ricordo, a volte molto vago, da parte dei parenti che Alfio Caruso è andato a rintracciare e intervistare quasi tutti, dei 77 autieri.
Da tutte le testimonianza emerge la volontà di non averli voluti dimenticare, nonostante tutti questi anni di oblio e di silenzio, da parte anche del nostro stato.
La figlia di uno di questi soldati cancellati dalla Storia ufficiale ha dichiarato: «Prima di morire vorrei andare a Stalingrado. Mio marito mi dice: ma a fare che cosa? Dove andiamo? A vedere un cielo? SÌ, lo so. Ma sarebbe il cielo che ha visto anche mio padre prima di chiudere gli occhi per sempre».

Il sito di Alfio Caruso.
Il libro online su ibs
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5 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho un ricordo.Mio nonno che mi raccontava la sua epopea in africa.
Andò nel 37 e tronò a casa nel 47. Tutta questa roba è figlia di quel signore che qualcuno tenta di riabilitare. Chi lo ha vissuto quel periodo non può dimenticare e conosce nome e cognome dei colpevoli

alduccio ha detto...

Una volta tutti avevamo un parente finito in Russia o in Africa .. oggi nemmeno ci ricordiamo quello che è successo 60 anni fa.
Anche un mio zio finì sul Don e, come tanti, non tornò ..

Anonimo ha detto...

Mio Padre ha fatto tutta la campagna di Russia con il corpo degli autieri ed era a Dnieperpetrovsk, purtroppo non so molto di quello che ha fatto in Russia, a casa non raccontava mai nulla se non piccole cose, tipo il rapporto buono con la popolazione.So che è stato sotto diversi bombardamenti e ogni volta che a casa una porta sbatteva lui faceva un salto e vedevo che era sempre turbato. E' morto a 59 anni anche per cause di guerra "mai riconosciute" e mi dispiace non aver potuto parlare della guerra con lui.Ho letto diversi libri sulla campagna di Russia ma pochi condannano l'operato di Mussolini.
Ora è uscito un nuovo libro (che non ho ancora letto) ma dal titolo dovrebbe essere interessante.
"DUE ANNI AL VOLANTE SU PISTE DI NEVE E FANGO" Diario dell'autiere Lino Sassaro 188 Autoreparto pesante. Edizioni Menin ed Asges di Schio VI.
Un saluto a tutti
Francesco Magro
f.magro@libero.it

Anonimo ha detto...

"Contadini, artigiani, commessi, commercianti, la cui unica colpa era quella di appartenere alla generazione sfortunata. Quella di El Alamein, della Grecia, di Cefalonia ..."

purtroppo la stessa generazione che, volente o nolente, si era scelta benito mussolini come capo e il fascismo come ideologia...

alduccio ha detto...

Mica tutti se lo erano scelti.: i ventenni del 1942 erano appena nati negli anni 20 ...