18 luglio 2017

L'ultimo discorso di Paolo Borsellino


In occasione dell'anniversario della strage in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino, Il Fatto Quotidiano pubblica l'ultimo suo discorso pubblico tenuto, a Palermo, il 25 giugno 1992.
Un omaggio all'amico Falcone.
Una denuncia ai troppi giuda presenti nella magistratura e nelle istituzioni.

Paolo Borsellino: “Quando denunciai i Giuda di Falcone e volevano farmela pagare”L’ultimo discorso - Alla vigilia dell’anniversario dell’attentato di via D’Amelio, ecco le parole del giudice all’incontro che celebrava l’amico
di Paolo Borsellino | 18 luglio 2017
 
In occasione del 25° anniversario della strage di via D’Amelio pubblichiamo l’ultimo discorso pubblico che Borsellino tenne il 25 giugno 1992 durante un dibattito organizzato dalla rivista Micromega nell’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo
 
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte.
 
Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi ci accorgiamo come lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell’antimafia.
Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a Palermo. Ma (poi) si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
 
Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni (…) cominciò a lavorare con Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Csm, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io (…) mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. (…) Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Csm immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, il pool antimafia non deve morire in silenzio. (…) Giovanni Falcone, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. 
Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne (…) di non poter più continuare ad operare al meglio. Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti e di Claudio Martelli, ma perché ritenne di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. (…) Una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa (…).
E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, per ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Csm, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
 
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Falcone in questa sua brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.

Nessun commento: