Palermo, 23 maggio-29 giugno 1992
I pensieri di un giudice
Ha fretta, e ne aveva già prima che venisse ucciso il suo amico Giovanni. Pochi giorni prima aveva ricevuto due giornalisti francesi, Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo, che stavano girando un film sui «padrini d'Europa». Venivano da Milano, anzi da Arcore dove erano andati a vedere sul posto la storia, allora poco conosciuta, dello stalliere Vittorio Mangano.
Borsellino li aveva visti, quasi per dovere in Procura, ma poi sentito l'argomento, aveva dato loro appuntamento nella sua casa di campagna, a Carini.
Lì aveva portato documenti, atti processuali che aveva piacere fossero conosciuti: la filiera dei soldi di Cosa Nostra, gli investimenti della mafia al nord, il traffico di droga, gli investimenti con Berlusconi, la figura di Dell'Utri, quella di Mangano, le intercettazioni che parlano di «consegna di cavalli» in albergo, tutta materia di cui aveva conoscenza diretta.
Gli sarebbe piaciuto che quell'intervista fosse stata resa pubblica quanto prima. Poi c'erano stati i giorni del lutto. Poi la ripresa del lavoro: gli interessa molto un pentito trafficante di droga, Gaspare Mutolo, che conosce la filiera del Nord; gli interessa il ruolo di Bruno Contrada; Claudio Martelli gli chiede di prendere il posto di Falcone e diventare il responsabile della Direzione Nazionale Antimafia. Gli dicono, quasi fosse una cosa che lui dovrebbe già sapere: «il tritolo per te è già arrivata a Palermo».
Quei due giornalisti francesi sono forse l'ultimo dei suoi problemi, certo che però non si sono fatti più sentire. Nessuno si fa più sentire per altro.
[Patria 1978 - 2008, Enrico Deaglio]
Ci avviciniamo al 25 anniversario della strage di via D'Amelio: la bomba che uccise il giudice Paolo Borsellino mentre andava a visitare la madre. Ucciso assieme a cinque uomini della sua scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina).
Un'altra strage di mafia, un'altra strage contro un giudice che era diventato (ed era stato indicato) simbolo della lotta alla mafia.
Vorrei evitare che, come per il passato anniversario della strage di Capaci, si risolvesse tutto nelle solite frasi: l'eroe Falcone, la vendetta della mafia, la lotta dello stato alla mafia, vinta con la cattura del boss.
Una narrazione della storia che nasconde una parte anche sostanziale dei fatti.
Che non risponde a molte domande, inquietanti, che ad ogni anniversario, tornano.
Perché questa seconda strage dopo solo 55 giorni da quella di Falcone?
Perché, se è stata solo mafia, quel depistaggio portato avanti da uomini dello Stato come Arnaldo La Barbara, per la pista Scarantino?
E, se la pista Scarantino è falsa e dobbiamo credere a quanto racconta il pentito Gaspare Spatuzza, chi erano le persone presenti durante i preparativi della strage, non mafiosi? Erano uomini dei servizi?
Abbiamo letti di cosa si stava occupando Borsellino nelle ultime settimane: l'attentato a Falcone, certo, ma anche l'inchiesta "Sistemi criminali", il rapporto del Ros su mafia e appalti.
Mafia e appalti che portavano molto in alto e lontano dalla Sicilia.
Gli investimenti della mafia al nord, per esempio. Mafia, appalti, politica, Mangano, Dell'Utri e Berlusconi.
Ecco, già questo ci fa capire tante cose: perché quell'intervista ai due giornalisti in Rai non è mai andata in onda, se non per spezzoni in alcune trasmissione che osavano parlare del rapporto politico-mafioso.
Perché ancora oggi è tabù parlare di concorso esterno in mafia, dei miliardi che Berlusconi pagò alla mafia, per tramite Dell'Utri.
Ma noi siamo un paese dalla memoria corta e, anche quest'anno, ci accontenteremo della favoletta del giudice eroe.
Roma,30 giugno-1 luglio 1992
Borsellino, due incontri che inquietano il giudice
martedì 30 giugno. In un luogo protetto e riservato i magistrati Paolo Borsellino e Vittorio Aliquò, con il questore Antonio Manganelli mettono a verbale le dichiarazioni del collaborante Leonardo Messina. Messina parla del ruolo dominante degli appalti e della figura di Angelo Siino che lega intorno a sé politici, mafiosi, industriali. Messina si sofferma sulla Calcestruzzi spa di Raul Gardini, secondo lui il principale riferimento nazionale di Cosa Nostra.
Mercoledì primo luglio. Il giudice Borsellino sta interrogando a Roma il pentito Gaspare Mutolo, quando viene avvisato che il ministro dell'Interno lo cerca. «Starò via mezz'ora, poi continuiamo».
Viene accompagnato nello studio privato del neo ministro dell'Interno, Nicola Mancino. Ma qui non trova il ministro, bensì il capo della polizia Vincenzo Parisi e il dottor Bruno Contrada, numero tre del Sisde. Il colloquio è breve. Borsellino torna da Mutolo che lo vede sconvolto, tanto da tenere in mano due sigarette accese contemporaneamente.
[Patria 1978 - 2008, Enrico Deaglio]
Ecco a cosa stava lavorando nelle sue ultime settimane Borsellino: "Ho fretta, devo fare di fretta", diceva.
Fretta perché sapeva cosa lo aspettava. Perché sapeva che i suoi nemici non erano solo i mafiosi, ma anche dentro le istituzioni.
Vedo la mafia muoversi in diretta - un'altra frase che ripeteva ai collaboratori.
Forse perché aveva incontrato proprio al Viminale il numero tre del Sisde ("u dutturi", di cui avevano già raccontato tutto collaboratori di giustizia come Buscetta) Bruno Contrada che sapeva del suo interrogatorio segreto con Mutolo.
Contrada, il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in mafia, per cui una recente sentenza della Cassazione, leggermente contorta, ha cancellato gli effetti della condanna.
Con grande giubilo dei garantisti all'italiana, quelli pronti a difendere i colletti bianchi sotto indagine.
Che parole useranno il 19 luglio, ricordando Borsellino, i garantisti del Foglio, de Il giornale, de La Stampa?
"L'equivoco su cui spesso si gioca è questo: quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato quindi quel politico è un uomo onesto. E no, questo discorso non va perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire, beh, ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest'uomo è mafioso. Però siccome dalle indagini sono emersi altri fatti del genere altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato quindi è un uomo onesto. Il sospetto dovrebbe indurre soprattutto i partiti politici quantomeno a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche se non costituenti reati". (dalla lezione del 26 gennaio 1989 all'Istituto Tecnico Professionale di Bassano del Grappa)
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