29 aprile 2013

Una storia semplice, di Leonardo Sciascia

Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia.
Durrenmat, Giustizia
Una storia semplice può essere considerato, come la favole di Esopo o Fedro, un apologo dove però protagonisti della storia non sono animali o cose, ma uomini dello Stato, i tutori dell'ordine. Un apologo che non ha fini educativi, ma l'obiettivo di voler raccontare la mala sicilianità delle istituzioni locali, intesa come sistema di potere, di omertà, di interessi. Sicilianità che, col salire della linea della palma, è diventata la malattia di tutto il paese.

La storia è per l'appunto, semplice: un diplomatico, Giorgio Roccella, dopo essere mancato dal suo paese per diversi anni, torna alla sua masseria che credeva chiusa, per recuperare delle vecchie lettere di Pirandello e Garibaldi. Sorpreso da una scoperta, telefona alla polizia: il brigadiere raccoglie la chiamata e avverte il commissario suo superiore che lo invita ad occuparsene con calma il giorno dopo.

Assieme ad altri agenti, il brigadiere entra nella masseria e scopre un uomo con la testa appoggiata al tavolo:
“Ma l’uomo era morto, e non per sincope o infarto; nella testa, che poggiava sulla scrivania, tra la mandibola e la tempia, era un grumo nerastro”.
Il diplomatico si è sparato con una vecchia pistola, residuo bellico, lasciando una lettera forse incompiuta:
«Ho trovato.». Quel punto dopo la parola «trovato» nella mente del brigadiere si accese come un flash, svolse, rapida e sfuggente, la scena di un omicidio.
Nella testa del brigadiere, persona abituata a fare una selezione significativa dei dettagli che si presentano su una scena del crimine, si costruisce l'ipotesi di un omicidio, dove l'assassino, presentatosi in casa del diplomatico, l'ha sparato e poi ha messo un punto dopo le parole “Ho trovato”.

Di diverso avviso il superiore, il Questore che, per l'assenza del commissario, di presenta sul luogo del crimine: «Suicidio» disse solennemente il questore
Suicidio che non convince non solo il brigadiere, ma nemmeno i vertici dell'Arma dei Carabinieri.

In Questura si presenta il professor Franzò, amico del morto, che racconta ai poliziotti alcuni particolari della vicenda che ritiene significativi: Roccella l'aveva telefonata il giorno precedente (stupendosi che qualcuno avesse installato una linea telefonica nella masseria), raccontandogli della scoperta di un quadro, mentre ricercava le lettere famose, in casa.
L’aveva invece molto sorpreso, forse impaurito, lo scoprire, nel solaio dove era andato a cercare le lettere, quel quadro. La telefonata all’amico, dunque, la telefonata alla polizia. E poiché la polizia tardava ad arrivare, aveva cominciato a scrivere: «Ho trovato...».
Nel frattempo, il treno locale per Monterosso si trova fermo sui binari per un semaforo rosso: un autista fermo al passaggio a livello, viene mandato sulla sua Volvo, in stazione a chiedere ragioni al capostazione.
L'uomo, dopo aver avvisato le persone presenti in stazione, prosegue per la sua strada.

Ma il capotreno, spazientito dalla lunga attesa, decide di raggiungere a piedi la stazione e qui scopre
con raccapriccio che capostazione e manovale dormivano sì, ma di eterno sonno. Erano stati ammazzati.”
L'uomo con la Volvo, seppure con qualche fastidio, decide di presentarsi in questura per raccontare cosa ha visto.
“Ho appena guardato dentro l’ufficio: c’erano altri due uomini, e stavano arrotolando un tappeto... Me ne sono andato”
«Il quadro» scappò di dire al brigadiere. Il commissario lo fulminò di un’occhiata: «Ti ringrazio, ma ci sarei arrivato senza il tuo aiuto». «Ma per carità,» disse il brigadiere «non mi permetterei...». E con ingenuità, confuso, balbettante, aggiunse: «Lei è laureato».
Il commissario, quasi per una ripicca personale, ma soprattutto il procuratore, dall'alto della sua supponenza, lo considerano il colpevole:
«È un personaggio, questo della Volvo, per cui mi è venuta una immediata affezione. Difficilmente sbaglio, nelle mie intuizioni. Tenetemelo bene al fresco».
Il dialogo tra il professor Franzò (chiamato in procura come testimone per il suicidio del dottor Roccella) e il procuratore è rivelatore dell'arroganza di quest'ultimo. Ex allievo del professore, rappresenta il classico uomo dello stato per cui “lei non sa chi sono io”:
Nei componimenti d’italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?».
«Perché aveva copiato da un autore più intelligente».
«L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica...».
«L’italiano non è l’italiano: è il ragionare» disse il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto». La battuta era feroce.
In Questura si presentano anche l'ex moglie e il figlio di Roccella:
la moglie, evidentemente, era venuta per arraffare del patrimonio quel che poteva; il figlio per impedirglielo”.
Il figlio racconta di un amministratore dei beni del padre, un prete, un certo padre Cricco.

Brigadiere e commissario decidono di fare un secondo sopralluogo nella masseria: qui succede una cosa strana che la mentalità analitica del brigadiere registra subito: di fronte alla scala buia che portava al solaio
“il commissario si fece avanti, salì agile e sicuro la scaletta di legno: e arrivato lassù inondò di luce il solaio”.
In che modo sapeva dell'esistenza di un interruttore, che gli agenti non avevano visto la prima volta?

Una brutta sensazione inizia a girare per la testa del brigadiere: decide allora di parlarne col professor Franzò. Che, come lui, arriva alle medesime conclusioni:
«Incredibile errore, da parte sua» disse il professore. «Ma come ha potuto farlo, che cosa gli è accaduto in quel momento?». «Forse un fenomeno di improvviso sdoppiamento: in quel momento è diventato il poliziotto che dava la caccia a se stesso». Ed enigmaticamente, come parlando tra sé, aggiunse: «Pirandello».
Il giorno successivo, commissario e brigadiere si ritrovano nella stessa stanza, entrambi sanno che anche l'altro sa. Il primo tenta di ucciderlo, ma la diffidenza da contadino nel secondo che lo portano “a diffidare, a vigilare, a sospettare, a prevedere il peggio e a riconoscerlo” fa si che riesca a schivare il colpo ed ucciderlo.

Viene fuori alla fine la vera storia: i traffici dentro la masseria, il ruolo del commissario, ma ora si presenta ai vertici di polizia e carabinieri la difficoltà di doverla raccontare fuori dalle stanze dello stato.
«Incidente» disse il magistrato. «Incidente» disse il questore. «Incidente» disse il colonnello. E perciò sui giornali: Brigadiere uccide incidentalmente, mentre pulisce la pistola, il commissario capo della polizia giudiziaria.
L'apologo ha un finale ancora, se possibile, più drammatico: l'autista della Volvo, finalmente restituito alla libertà, riconosce nel finto capostazione, padre Cricco mentre lo incrocia in questura (mentre si allestiscono i funerali solenni del funzionario di polizia morto per incidente ..).
Padre Cricco lo fermò di un gesto. Disse: «Mi pare di conoscerla: lei è della mia parrocchia?». «Ma che parrocchia? Io non ho parrocchia» disse l’uomo.
Che fare? Fermarsi e denunciare tutto? Si, ma a chi? Al magistrato tanto arrogante quanto stupido? Alla polizia che ha coperto tutto?
«quel prete... L’avrei riconosciuto subito, se non fosse stato vestito da prete: era il capostazione, quello che avevo creduto fosse il capostazione». Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: «E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?».
Il link per ordinare il libro su ibs e l'ebook su Amazon.
La scheda del libro su Adelphi.
Dal libro, il regista Emidio Gredo ha tratto un film, con l'ultima interpretazione in un film italiano, del grandissimo Gian Maria Volontè.

Nessun commento: