Il verme della mela si chiama carpocapsa. E' un bozzolo che vive incistato sotto la corteccia dell'albero e sfarfalla ai primi tepori. Le larve penetrano nei frutti, scavano gallerie nella polpa, che marcisce. La mela all'apparenza non ne soffre. Attaccata al ramo, si dondola sul suo picciolo, compiacendosi della buccia rossa, mentre il silenzioso ospite la divora dall'interno.
Giulia Vella, profiler, specializzata nella ricerca di serial killer, assomigliava ad una di quelle mele.
È bello, per un lettore come me, scoprire nuovi scrittori che ti sanno convincere delle loro capacità anche con romanzi come questo “Stivali di velluto” che con le sue 156 pagine è poco più di un racconto.
Al
centro della storia l’ispettrice Giulia Vella: è una che ha
studiato per fare il suo lavoro, alle spalle ha un’esperienza di
formazione in America per diventare profiler e analizzare i crimini
commessi dai serial killer. Non di certo per riscaldare la sedia come
sta facendo adesso a Palermo, aggregata alla sezione Udi, ufficio
delitti irrisolti della Mobile.
“La milanesa”, così la
chiama il suo antipatico superiore, che non nasconde in alcun modo la
disistima che prova nei suoi confronti anche per la nomea di
raccomandata che l’ha accompagnata fin da Milano. Nomea nemmeno
troppo lontana dalla realtà, essendo figlia del Questore.
A
proposito, come mai questa scelta di trasferirsi da Milano fino a
Palermo, dove non conosce nessuno? E qual è quella malattia che la
sta divorando da dentro, come il verme della mela che si mangia la
polpa dall’interno?
Non è una metafora molto lontana
dalla realtà: perché Giulia ha veramente un dolore che si porta
dentro, legato al suo passato, alla sua vera identità e la cui
scoperta sarà una sorta di mistero nel mistero dell’indagine che
dovrà affrontare.
Infatti, più per metterla in difficoltà che
per aiutarla veramente, il suo dirigente le affida un vecchio caso,
oggi lo chiameremmo un “cold case”, scelto col metodo del
bussolotto tra i tanti casi irrisolti
L'omicidio era avvenuto il 17 maggio 1977. La vittima, il direttore di un ufficio postale periferico, era stata trovata riversa in una pozza di sangue da un'impiegata appena tornata dalla pausa pranzo.
L’omicidio
era avvenuto nel quartiere di Pallavicino, fuori Palermo: ad
accompagnarla sul luogo del crimine è l’agente Paola Arena, “cuor
contento” è il nomignolo che Giulia le ha affibbiato per il suo
carattere remissivo, sempre col sorriso in faccia.
Per la prima
volta la “milanesa” scopre la Palermo fuori Palermo, sente
parlare del “sacco”, la speculazione edilizia dell’imprenditoria
mafiosa che cambiò la faccia della città, condannandola al cemento
e alla siccità:
Tutti pensano che in Sicilia manca l'acqua, qui passavano veri e propri fiumi. Il sacco di Palermo ha cancellato giardini, vigneti, vivai, alberi d'alto fusto e le tracce di un glorioso passato..
Chi
aveva seguito le indagini aveva archiviato tutto come un delitto
avvenuto a seguito di un tentativo di furto ma, leggendo le carte,
quel delitto tutto sembra meno che un furto.
Perché il presunto
ladro è entrato senza nessuna effrazione, probabilmente è stato il
signor Mazza, il direttore ad aprirgli, forse lo conosceva anche.
Poi, nell’ufficio tutto era in ordine, nessun segno come
quelli lasciati dai ladri mentre frugano alla ricerca di beni di
valore.
.. c'era un'annotazione del medico legale che parlava di un colpo inferto dal basso verso l'alto. Che l'assassino fosse seduto o in ginocchio?
Bisogna andare a rileggersi le carte ma, soprattutto, andare a sentire tutti i possibili testimoni dell’epoca, sempre che siano ancora vivi. Uno di questi è l’ispettore Panseca, un poliziotto che ha ancora un buona memoria:
Gli informatori avevano la bocca cucita.
C'era qualcosa di segreto dietro al delitto. Io comunque alla rapina non ci ho mai creduto.
Le
indagini furono chiuse per le pressioni dall'alto: il morto era il
genero del capomafia della zona, Don Tano Genco, che probabilmente
aveva usato l’ufficio postale per il riciclaggio di soldi
sporchi.
Un delitto di mafia?
Anche
questa ricostruzione non torna molto.
Panseca però, di fronte
alla freddezza di Giulia, da vecchio gentiluomo, la invita a
lasciarsi andare:
Ti piacerà vivere qui, dottoressa, c’è il sole che scalda e il mare è respiro vitale. Qui non si muore, al massimo si passeggia in un’altra dimensione. Noi siciliani siamo eterni.
L’indagine
diventa un modo per scacciare via tutto il malessere per quel dolore
che si porta dentro, legato al suo passato, a quella sua ricerca di
identità.
Paradossalmente, anche dentro quel delitto, una volta
scoperto il nome dell’assassino, o dell’assassino e il perché,
si troverà di fronte ad una questione di identità.
È come se
la poliziotta e l’assassino (o assassina) si fossero trovati di
fronte allo specchio, ciascuno in grado di vedere il dolore e
l’infelicità nell’altro.
Lei è nata infelice. L'ho sentita compagna nel dolore, perciò mi sono fidata di lei.
Forse
è arrivato il momento di cacciar via quel verme che ti sta mangiando
da dentro e lasciarsi andare di fronte alle bellezze di quella città,
il mare, i colori, perfino la bellezza di uno dei mercati rionali
“Il mercato era un concentrato di colori. Il rosso delle fragole e dei pomodori, il verde delle fave, dei piselli, della lattuga; l’arancio per la papaya, il viola per le melanzane”.
Pur cadendo un po' in qualche cliché (quando la bella poliziotta scopre l'amore..), rimane una lettura piacevole e interessante, in particolare sul tema dell'identità, sullo scoprire chi siamo veramente (e nell'accettare chi siamo veramente).
La
scheda del libro sul sito di Rizzoli
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