11 febbraio 2024

Report – l’inchiesta sui vaccini, sui fondi sanitari, la sostenibilità della moda

UNA DOSE DI TROPPO di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella

Le telecamere di Report sono andate nel Lazio a seguire la campagna di vaccinazione con gli open day:le sirighe e le dosi di vaccino ci sono, questa volta, ma a mancare sono i pazienti. A gennaio erano state inoculate in tutto 2,1 ml di dosi di Pfizer, un vaccino consigliato soprattutto agli over 60, 18 ml di persone in Italia: a conti fatti siamo appena al 10% della platea raccomandata, un flop. Nonostante abbiamo 1 ml di fiale in deposito, i medici hanno avuto problemi a ricevere le dosi per vaccinare i loro pazienti, come successo nel Lazio.
Stesso discorso a Rieti, la campagna di vaccinazione con gli open day non è andata bene: gli ospedali non hanno dato i numeri a Report, forse per non far sapere che la campagna è stata un flop, 40-60 vaccinazioni al giorno di fronte ad una grande disponibilità di vaccini.

190mila nel Lazio, in tutta Italia in totale sono state iniettate 2,177ml di dosi, siamo appena al 10% della platea raccomandata.
In alcune regioni però molti medici di base hanno avuto problemi ad avere le dosi.

Abbiamo speso miliardi per comprare le dosi, che sono arrivate per quota capitarie, ovvero in base alla popolazione.
Report è riuscita ad entrare in possesso del contratto firmato tra la commissione europea e la Pfizer: la UE ha ricontrattato con le case farmaceutiche per diluire le quote fino al 2026, ma non è stato fatto gratis, continueremo a pagare anche le dosi non comprate, ma con lo sconto.
C’è sfiducia nelle campagne di vaccinazione: gli studi di ACDC hanno stabilito che anche se si fanno tante vaccinazioni, il suo valore di protezione decade in pochi mesi.

Subito dopo la vaccinazione col richiamo (dopo la quarta dose), la protezione decade al 33-49% dopo 3 mesi: i vaccini hanno la protezione corta per diverse cause tra cui le mutazioni dei vaccini, questo significa che gli anziani e le persone deboli dovranno fare altre vaccinazioni.

Quando lo scorso maggio eravamo ormai fuori dalla crisi e centinaia di milioni di dosi erano inutilizzate la Commissione Europea ha fatto un nuovo accordo con Pfizer, anche questo rimasto segreto, che doveva mitigare il salasso dei precedenti.
Il grosso dell’acquisto è stato spalmato fino al 2026 e la possibilità di rifiutare l’acquisto di queste ulteriori dosi non era proprio contemplata con Pfizer: gli accordi coi vaccini erano talmente delicati che oggi scopriamo che i dirigenti italiani in prima linea al contrasto della pandemia avevano paura ad aprirli.

Giulio Valesini su questo punto ha intervistato Giovanni Rezza, direttore generale della prevenzione presso il ministero della salute fino al 2023: “ho dato la mia password a chi doveva rivedere i contratti .. volendo avevo la possibilità di rivedere i contratti, ma siccome c’erano stati molti spifferi, queste grandi aziende hanno fior di avvocati. Se la commissione ti dice di stare molto attenti, perché altrimenti ti prendi la responsabilità di quel leaks, allora stai attento”.

Insomma la paura dei vertici della sanità era l’accusa di essere ritenuti responsabili di una fuga di notizie, non la gestione della pandemia: così hanno scelto di non leggerli – spiega il servizio di Report.

Report è riuscita ad entrare in possesso dei dettagli dell’accordo secretato firmato lo scorso maggio dalla Commissione Europea: per il nostro Paese è previsto l’arrivo di ulteriori 36 milioni di dosi, circa 12 milioni ogni anno fino al 2026. Inoltre abbiamo ottenuto di cancellare ordini per 24,2 ml di dosi, ma non gratis: è previsto infatti un indennizzo in favore di Pfizer di circa 10 euro per ogni dose cancellata, la multinazionale del farmaco incasserà anche su quello che non vende. È vero che c’è stato un risparmio rispetto a quanto prevedeva il contratto, ma alla fine si regalano soldi a Pfizer: “se la vogliamo dire così.. il problema è che il contratto è stato fatto su quella base” risponde Rezza al giornalista di Report, di fatto accusando indirettamente la presidente della Commissione Europea che, ai nostri dirigenti della sanità nemmeno ha chiesto quante dosi ci sarebbero servite.
“Tutti i paesi acquistano su base di quota capitarie, quindi all’Italia spetta il 13,6%, questo tutela il paese, l’acquisto centralizzato perché non compriamo a maggior prezzo rispetto ai grandi paesi europei come Francia o Germania”.

Abbiamo comprato 9,7 ml di dosi da Sanofi, ne sono state iniettate 245. Abbiamo pagato 221 ml a Johnson e Johnson per il suo vaccino, anche qui non tutte utilizzate.

Ma cosa ne facciamo delle dosi eccessive comprate per il 2023 (circa 10ml, con la vaccinazione arriveremo al massimo a 3ml): “una parte di queste probabilmente le dovremo buttare ..”
Facendo una stima possiamo prevedere che delle 36ml di dosi acquistate coi nuovi accordi, circa 30ml saranno le dosi buttate, raggiungeranno in discarica le milioni di dosi gettate nei due anni scorsi. Un enorme sperpero di soldi pubblici per l’Italia: se l’Europa ha comprato 4,2 miliardi di dosi, l’Italia calcolando tutti i vari vaccini sul mercato ne ha acquistati ben 381 ml di cui almeno 150 ml sono in eccesso. In questo momento nei magazzini abbiamo circa 21ml di dosi, di queste, 16 ml anche se non sono scadute non sono aggiornate alle varianti e quindi sono da gettare. Finora il nostro paese ha già scartato 46,8 ml di dosi scadute.
Un problema comune a tutti i paesi europei, come ha scoperto il sito politico.eu: abbiamo pagato 4 miliardi di euro di dosi poi buttate e non tutti i paesi europei sono stati felici di comunicare i dati sugli sprechi.

Che fare delle dosi non usate? Non siamo riusciti nemmeno a regalarle ai paesi del terzo mondo, per problemi logistici (la catena del gelo, per esempio).
Il servizio andrà anche a rivedere l’accordo sui vaccini negoziato da Von der Leyen nel 2021, che non convinceva alcuni importanti dirigenti italiani: nelle chat raccolte dalla corposa inchiesta della procura di Bergamo sulla gestione della pandemia emerse che sul contratti per i vaccini Pfizer si navigava al buio.

Nicola Magrini, allora capo dell’Aifa, era venuto a conoscenza dei contenuti del contratto firmato solo da giornalisti come Report. Oggi risponde a Report del contenuto di queste chat: “avevo estratti di un contratto in cui si prevedeva perché non si potesse avere a delle informazioni contenute, come poi è stato, quindi ho espresso un parere personale”.
Una difesa appassionata del tema della trasparenza, la definisce oggi davanti alle telecamere di Report, ma ancora oggi, dalla risposta di Magrini si comprende quanto sia delicata la materia: “se fossi stato coinvolto, avrei potuto quindi chiedere di partecipare se non interferire, sarebbe anche diventato complicato.. i vaccini andavano comprati, velocemente ..”
Non è paradossale che il capo dell’Aifa scopra il contenuto dei contratti dai giornali? “è stato il percorso di conduzione di una emergenza in cui è stata l’Europa a comprare e non le singole agenzie, era sensato che in un momento di emergenza fossero in pochi a decidere, ed è andata bene..”

Magrini dell’Aifa si infuriò su quel contratto perché i dati grezzi non sarebbero stati disponibili prima del dicembre 2024 e Pfizer non si accollava nemmeno i rischi legali in caso di eventi avversi. Comprare a scatola chiusa un medicinale per milioni di persone lo riteneva assurdo: “io non mi faccio prendere in giro su cose come queste” – scrive Magrini in chat a Goffredo Zaccardi ex capo di gabinetto del min. della Salute.

Magrini: “Ritieni che sia normale che i contratti che abbiamo firmato [..] nessuno li abbia letti?”

Zaccardi: “No il ministro ha voluto fare tutto da solo ”

Magrini:“Grazie, capisco meglio ora. No non vi sono tipologie tipo contratti ma manco sto capestro che sembra scritto come una presa in giro per analfabeti con l’anello al naso. . . E sapere chi se ne occupa e come sarebbe il minimo tra di noi del gabinetto ristretto.”


Oggi Magrini getta acqua sul fuoco oggi: ma rimane la verità che i vaccini non sono stati efficati al 95%, come raccontato.

Spenderemo soldi pubblici per qualcosa di cui non abbiamo bisogno: abbiamo relegato tutto alla commissione europea, alla Von Der Leyen, che ha portato avanti la contrattazione da sola via whatsapp, suscitando tanti sospetti di non regolarità.

A questo si deve aggiungere il fatto che il marito della presidente della commissione europea è un importante dirigente di una multinazionale del farmaco.

Oggi i cittadini europei non possono sapere perché il costo delle dosi è cresciuto da 15 a 19 euro, del fatto che abbiamo comprato più dose di quelle che ne avremmo bisogno.

I messaggi tra Von der Leyen e l’AD di Pfizer non sono stati resi pubblici: la trasparenza non è di casa nella commissione europea.

Tra le carte dell’inchiesta di Bergamo si scoprì che anche il ministro Speranza cercò di mettere le mani avanti, per inserire una clausola nel contratto Pfizer, in cui si sottraesse la multinazionale dalle leggi ordinarie in caso di problemi.

Abbiamo pagato 4,4 miliardi di euro per tutti i vaccini acquistati: il fatturato di Pfizer è quadruplicato col covid, i maggiori profitti sono finiti in dividendi e non in ricerca. Alberto Bourla, AD di Pfizer, ha venduto le sue azioni dopo aver saputo dell’accordo in Europa ha venduto le sue azioni, con un guadagno in un giorno di 5,6ml.
Tanti profitti provati e tanti soldi pubblici sprecati: in mezzo rimane un rischio sanitario, perché non siamo riusciti a vaccinare tutto il mondo, non possiamo escludere che da qualche parte venga fuori una variante non coperta da questa vaccini.

ASTRAZENECA, UN CASO APERTO – il vaccino scomparso di Claudia Di Pasquale

I vaccini Astrazeneca sono stati donati anche ai paesi europei: in Nigeria sono stati interrati dai buldozzer in una discarica a cielo aperto, perché erano arrivati quasi scaduti.
Al Ruanda abbiamo venduto dosi, che in buona parte scadevano dopo 27 giorni.
Prima di inviare delle dosi a paesi a basso reddito, serviva l’ok scritto di Astrazeneca, e questo ha causato i ritardi per l’invio.

Tra l’altro in questi paesi a cui abbiamo donato i vaccini hanno fatto poca farmaco vigilanza, ovvero non hanno tracciato gli effetti negativi: di fatto abbiamo inviato un vaccino che in Europa non voleva essere usato più, per colpa degli effetti avversi sulle persone giovani.

Astrazeneca era il vaccino su cui l’Italia e l’Europa aveva puntato: era stato inoculato inizialmente al personale delle forze dell’ordine e agli insegnanti.
Report ha raccontato le storie di persone che hanno avito questi effetti, come Davide Villa, morto il 6 marzo del 2021 dopo una prima dose di AZ (come ha stabilito la procura, che però ha poi archiviato il caso, fermandosi nel cercare i responsabili).

Altro caso è quello del sottufficiale Paternò: anche qui è stata stabilita la correlazione ma la procura ha archiviato. Così nel 2021 iniziano gli stop all’uso di AstraZeneca: ma dura solo 3 giorni, Aifa in un comunicato cita fa ripartire le vaccinazioni, citando un documento di Ema che non escludeva le correlazioni tra questo vaccino e le morti per trombosi.

Il 25 marzo del 2021 il ministero della salute cambia la formula di consenso: ma il 24 marzo muore a Gela una insegnante, Zelia Guzzo. La procura, dopo aver stabilito anche qui il nesso tra il vaccino AZ e la morte, ha archiviato tutto: i familiari hanno cercato di fare causa alla multinazionale senza successo.

Un’altra morte per AZ è stata quella di Augusta Turiaco, 55 anni: si era vaccinata con Astrazeneca il giorno 11 marzo, morì in ospedale il 31 dello stesso mese.

La procura ha riconosciuto il nesso causale tra la vaccinazione e la morte, ma l’indagine per risalire ai responsabili di questo decesso è stata archiviata: così i parenti hanno dovuto fare da soli causa ad Astrazeneca, che però si rifiuta di riconoscere questo nesso.

Non è stato responsabile l’ente regolatore che si è fidata dei dati di AZ, e non è responsabile AZ perché il suo vaccino è stato approvato dall’ente regolatore.
La materia è complessa eppure molti scienziati avevano già analizzato le correlazioni tra Adenovirus e le trombosi.

L’Inghilterra ha iniziato a vaccinare con AZ nel gennaio del 2021: i primi casi di morte, legati al vaccino, si sono verificati sin da gennaio e conteggiati nei report della farmaco vigilanza da febbraio. L’agenzia di farmaco vigilanza non ha fatto niente – racconta alla giornalista l’avvocata Sara Moore che sta seguendo questi casi come legale.

Il governo ha riconosciuto degli indennizzi per queste morti, circa 120mila sterline, che di fatto corrispondono a due anni di reddito.
Ma ci sono persone che non hanno preso indennizzi perché la % di invalidità era inferiore al 60%, come stabilisce una vecchia legge di fine anni 70.

A questo si deve aggiungere che Astra Zeneca non sta pagando niente alle vittime: negli ultimi tre anni i suoi ricavi sono esplosi, è una delle aziende più ricche nel Regno Unito, se dovesse perdere la causa legale pagherà il governo inglese, i cittadini. Questo a causa della manleva inserita nei contratti.

In Italia, nel 2021, quando Ema raccomandava questo vaccino solo agli over 60, si organizzavano nelle regioni gli open day anche per gli over 18. Ma il parere del CTS non era vincolante, era solo un parere – risponde Rezza oggi a Claudia Di Pasquale: difficile spiegarlo alle persone giovani che hanno preso questo vaccino, con tanto di nota integrativa, e che hanno subito degli importanti effetti collaterali. Come Irene Cervelli, rimasta invalida dopo la vaccinazione.

Fino all’11 giugno quando si decise di bloccare AZ per le persone sotto i 60 anni: c’è stata una cattiva comunicazione sui casi avversi, senza distinguere donne e maschi e l’età.
Nessuno ha responsabilità in questa storia.

SANITÀ A FONDO di Marco Maisano

La fine della sanità pubblica è un attacco ai diritti della persona e ai suoi redditi: la nuova frontiera dell’erosione del servizio sanitario nazionale si chiama fondi integrativi. Grazie alla forza dei fondi versati da 15 ml di lavoratori e ai contributi dello stato (5 miliardi) i fondi sanitari integrativi sono diventati appetibili alle assicurazioni.

Nella legge del 1992 dovevano essere funzioni integrative (come le cure per i denti): in realtà si tratta di funzioni sostitutive, i fondi si stanno sostituendo alla sanità nazionale.
Così i cittadini pagano due volte, con le tasse e coi fondi integrativi: sono lavoratori che pagano obbligatoriamente questi fondi perché legati al contratto nazionale.

Come avviene per l’industria metalmeccanica, legata al fondo Metasalute (controllata da Intesa San Paolo), o come Sanilog per i lavoratori della logistica, controllato da Unisalute.

Il presidente di Metasalute è anche un sindacalista CISL: a Report racconta che si sono affidati ad una assicurazione (come quella di Intesa) per non finire gambe all’aria.
Le assicurazioni sono attratte dai fondi: i fondi garantiscono dei benefici fiscali, anche i lavoratori hanno dei benefici, ma i dati non sono facilmente ricavabili, come decontribuzione.

I fondi sanitari non sono nemmeno obbligati a pubblicare un bilancio.

Nel 2021 il totale delle deduzione assomma a 4 miliardi, una somma quasi pari a quella che questo governo ha messo sulla salute.

Rosi Bindi da ministra aveva cercato di mettere un argine ai fondi privati e alla decontribuzione, ma la sua legge è stata poi bloccata: Stiamo andando verso un finanziamento della sanità basato su due pilastri, il pilastro della fiscalità generale con il quale si sostiene tutto il servizio sanitario nazionale, compresi gli stipendi del personale ma compresi anche i trapianti, i grandi interventi chirurgici, l’organizzazione degli ospedali, dei distretti. E poi con un finanziamento che non è meno incisivo per le casse dello Stato, con cui stiamo finanziando le prestazioni private erogate ad una parte di cittadini.
Una privatizzazione del servizio sanitario, un passo alla volta.
Di parere opposto i manager della sanità privata e dei fondi privati, come Massimiliano Nobis presidente di Metasalute: “il paese ha un bisogno, c’è gente che non si cura perché non c’è la risposta del sistema sanitario nazionale” allora siccome il sistema sanitario non da risposte li facciamo curare dalle assicurazioni private?

I fondi non garantiscono un accesso universale alle cure sanitarie: non tutti i dipendenti hanno gli stessi servizi, si sta legando la sanità allo stipendio delle persone.

Forse non sarà la fine della sanità pubblica, ma rischiamo di tornare al sistema delle mutue, dove i libretti sanitari avevano un colore diverso a seconda del lavoro delle persone - come spiega ancora Rosi Bindi - “il pacchetto di prestazioni legato a quel colore [del padre di Rosi Bindi] era inferiore a quello di un dirigente, ma in questo modo si tradisce la Costituzione, perché l’articolo 32 della Costituzione dice chiaramente che la salute è un diritto fondamentale dell’individuo, neanche del cittadino, neanche del lavoratore..”

Qui invece la salute è legata alla retribuzione dell’individuo: una vergogna, oltre che un attacco ai nostri diritti.

Tutta colpa dei tagli al finanziamento della sanità, ogni governo da la colpa ai precedenti.

Oggi i fondi integrativi, con le assicurazioni (che si prendono parte dei soldi dai fondi), si stanno prendendo pezzi del sistema pubblico.

Al sistema pubblico rimangono quelle prestazioni ad alto rischio e a bassa redditività, come i pronto soccorso.


GIRALAMODA di Lucina Paternesi

Fast Fashion, ovvero quella moda dove in pochi giorni si passa dal bozzetto all’esposizione del capo nei negozi: questo significa tanti capi di abbigliamento prodotti ogni anno, tante esposizioni, anche perché i capi prodotti nell’est asiatico costano meno (si rispettano meno le norme ambientali). Lo shop online ha fatto schizzare le vendite, anche per le vari influencer che spingono ad acquistare in modo compulsivo, tanto poi i capi si possono restituire.

Ma in realtà anche rendere i capi ha un costo: costa produrre i capi tessili, costa smaltirli, si stima che il mondo dell’industria tessile sia responsabile del 10% delle emissioni dei gas serra.

Ci sono anche stiliste che propongono capi riciclati, come Orsola De Castro: a Report parla di fashion revolution, il movimento per spingere le aziende a rivelare le condizioni in cui si producono i capi, l’impatto energetico e ambientale e i costi di produzione.

I marchi di fast fashion sanno di essere parte del problema ambientale, così oggi iniziano a raccogliere i capi usati, in cambio di buoni: lo fa H&M, un colosso da 20 miliardi di fatturato l’anno. I colossi non vogliono far sapere i dati del loro fatturato: colossi come i cinesi di Shein, che non hanno negozi, vendono solo online, tanto da essere chiamati ultra fast fashion.

Che fine fanno i capi quando li rispediamo al mittente come resi? Report si è fatta aiutare da Greenpeace per tracciare i resti di capi acquistati da diversi marchi, come Ovs, Amazon e Zara.
I capi sono arrivati in pochi giorni, quelli cinesi hanno impiegato anche 7 giorni: per tracciare il percorso dei resi, nei capi sono stati messi dei geolocalizzatori.

Una volta fatti i pacchi per i resi, è stato possibile così tracciarli: i pacchi hanno girato l’Europa, dall’Italia fino all’Islanda, poi Germania, Polonia..
I pacchi dalla Cina hanno viaggiato per 30mila km, quelli di Asos hanno girato per 8mila km, senza trova un proprietario che li indossasse. Alcuni capi di Zara sono rimasti in un deposito di capi invenduti a Piacenza.
Report è andata fino in Spagna per recuperare uno di questi capi della H&M, a Malaga: un pacco reso in Italia non è finito in un centro commerciale qui da noi ma ha fatto un viaggio per essere poi rivenduto.

Capi che viaggiano via mare, via gomma e via aereo: l’algoritmo predittivo decide dove spostare il capo, anche in base alle previsioni meteo.

Tutto questo è un grande impatto sulla CO2 emessa: 2,8kg di co2 equivalente, su 2000 capi è come la co2 assorbita da un bosco grande come un campo di calcio.

È una pratica pessima che non responsabilizza nemmeno i consumatori: la politica dovrebbe tassare questi resi e noi consumatori dovremmo consegnarli nei negozi.
Così succede che in Cile c’è un deserto di vestiti usati. E un Ghana i vestiti si pescano nel lago.

Le aziende dovrebbero poi comunicare quanti capi sono stati invenduti ogni anno, ma tendono a nascondere queste informazioni.

SECONDA MANO di Valerio Cataldi e Alessandro Spinnato

In Ghana finiscono i nostri rifiuti, stracci, vestiti, che intasano le reti dei pescatori, rovinano le spiagge.
Mentre sulle nostre spiagge approdano i migranti, che noi consideriamo una invasione, sulle loro spiagge arrivano invece 15 ml di capi, che stanno causando una incredibile catastrofe ambientale ad Accra.
Pensiamo di fare opera meritoria nell’inviare abiti usati in Africa, in Ghana: i vestiti di seconda mano ricoprono le spiagge di fronte al mare, rendendo la vita difficile ai pescatori.
Sono capi che arrivano qui in Ghana in grandi balle dall’Italia o da altri paesi europei, passando per dei grossisti: vengono venduti nei mercati e nei negozi di capi usati.
Quello che viene buttato in Italia, in Germania, qui viene riusato, per aiutare l’economia del paese: non tutti i capi presi dalle balle vanno bene, alcuno sono così logori da essere messi in un mucchio di rifiuti.
Questi rifiuti finiscono nell’enorme discarica di Accra: questa ha preso un posto predominante nel paesaggio, la laguna è morta. Qui le persone vivono tra i rifiuti, cercando la plastica, soprattutto bottiglie, la raccolgono e la vendono alle aziende di riciclaggio. Altri cercano indumenti e rifiuti tessili che possono ancora essere recuperati e venduti in altri villaggi: “sono proprio i rifiuti tessili il vero problema, la montagna più alta è quella dei vestiti usati, ci pascolano anche le mucche perché l’erba cresce anche lassù.”
Di fronte c’è l’ospedale più grande della nazione e quando bruciano i rifiuti si alza un fumo che copre tutto e tutti:
nessuno qui è al sicuro.

Non tutti i paesi hanno accettato questo mercato: il Ruanda ha detto no, quando era sull’orlo di una sua catastrofe ambientale e per non danneggiare l’industria locale.

Ma in Ghana ci sono anche realtà diverse: nei laboratori della Fondazione OR analizzano l’acqua attorno alla discarica, scoprendo che sono piene di fibre di plastica. Tutta colpa della fast fashion che, in assenza di regolamentazione, continuerà a produrre capi con sempre più plastica.
I marchi devono farsi carico dei loro rifiuti, spiegano dalla fondazione OR: quello della fast fashion è un modello fondato sull’avidità, sulla poca lungimiranza, non è sostenibile.

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