UNA DOSE DI TROPPO di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella
Le
telecamere di Report sono andate nel Lazio a seguire la campagna di
vaccinazione con gli open day:le sirighe e le dosi di vaccino ci
sono, questa volta, ma a mancare sono i pazienti. A gennaio erano
state inoculate in tutto 2,1 ml di dosi di Pfizer, un vaccino
consigliato soprattutto agli over 60, 18 ml di persone in Italia: a
conti fatti siamo appena al 10% della platea raccomandata, un flop.
Nonostante abbiamo 1 ml di fiale in deposito, i medici hanno avuto
problemi a ricevere le dosi per vaccinare i loro pazienti, come
successo nel Lazio.
Stesso discorso a Rieti, la campagna di
vaccinazione con gli open day non è andata bene: gli ospedali non
hanno dato i numeri a Report, forse per non far sapere che la
campagna è stata un flop, 40-60 vaccinazioni al giorno di fronte ad
una grande disponibilità di vaccini.
190mila
nel Lazio, in tutta Italia in totale sono state iniettate 2,177ml di
dosi, siamo appena al 10% della platea raccomandata.
In alcune
regioni però molti medici di base hanno avuto problemi ad avere le
dosi.
Abbiamo
speso miliardi per comprare le dosi, che sono arrivate per quota
capitarie, ovvero in base alla popolazione.
Report è riuscita
ad entrare in possesso del contratto firmato tra la commissione
europea e la Pfizer: la UE ha ricontrattato con le case farmaceutiche
per diluire le quote fino al 2026, ma non è stato fatto gratis,
continueremo a pagare anche le dosi non comprate, ma con lo
sconto.
C’è sfiducia nelle campagne di vaccinazione: gli
studi di ACDC hanno stabilito che anche se si fanno tante
vaccinazioni, il suo valore di protezione decade in pochi mesi.
Subito
dopo la vaccinazione col richiamo (dopo la quarta dose), la
protezione decade al 33-49% dopo 3 mesi: i vaccini hanno la
protezione corta per diverse cause tra cui le mutazioni dei vaccini,
questo significa che gli anziani e le persone deboli dovranno fare
altre vaccinazioni.
Quando
lo scorso maggio eravamo ormai fuori dalla crisi e centinaia di
milioni di dosi erano inutilizzate la Commissione Europea ha fatto un
nuovo accordo con Pfizer, anche questo rimasto segreto, che doveva
mitigare il salasso dei precedenti.
Il grosso dell’acquisto è
stato spalmato fino al 2026 e la possibilità di rifiutare l’acquisto
di queste ulteriori dosi non era proprio contemplata con Pfizer: gli
accordi coi vaccini erano talmente delicati che oggi scopriamo che i
dirigenti italiani in prima linea al contrasto della pandemia avevano
paura ad aprirli.
Giulio Valesini su questo punto ha intervistato Giovanni Rezza, direttore generale della prevenzione presso il ministero della salute fino al 2023: “ho dato la mia password a chi doveva rivedere i contratti .. volendo avevo la possibilità di rivedere i contratti, ma siccome c’erano stati molti spifferi, queste grandi aziende hanno fior di avvocati. Se la commissione ti dice di stare molto attenti, perché altrimenti ti prendi la responsabilità di quel leaks, allora stai attento”.
Insomma
la paura dei vertici della sanità era l’accusa di essere ritenuti
responsabili di una fuga di notizie, non la gestione della pandemia:
così hanno scelto di non leggerli – spiega il servizio di Report.
Report
è riuscita ad entrare in possesso dei dettagli dell’accordo
secretato firmato lo scorso maggio dalla Commissione Europea: per il
nostro Paese è previsto
l’arrivo di ulteriori 36
milioni di dosi, circa 12 milioni ogni anno fino al 2026. Inoltre
abbiamo ottenuto di cancellare ordini per 24,2 ml di dosi, ma non
gratis: è previsto infatti un indennizzo in favore di Pfizer di
circa 10 euro per ogni
dose cancellata,
la
multinazionale del farmaco incasserà anche su quello che non vende.
È vero che c’è stato un
risparmio rispetto a quanto prevedeva il contratto, ma alla fine si
regalano soldi a Pfizer: “se la vogliamo dire così.. il problema è
che il contratto è stato fatto su quella base” risponde Rezza al
giornalista di Report, di fatto accusando indirettamente la
presidente della Commissione Europea che, ai nostri dirigenti della
sanità nemmeno ha chiesto quante dosi ci sarebbero servite.
“Tutti
i paesi acquistano su base di quota capitarie,
quindi all’Italia spetta il 13,6%, questo tutela il paese,
l’acquisto centralizzato perché non compriamo a maggior prezzo
rispetto ai grandi paesi europei come Francia o Germania”.
Abbiamo
comprato 9,7 ml di dosi da Sanofi, ne sono state iniettate 245.
Abbiamo pagato 221 ml a Johnson e Johnson per il suo vaccino, anche
qui non tutte utilizzate.
Ma
cosa ne facciamo delle dosi eccessive comprate per il 2023 (circa
10ml, con la vaccinazione arriveremo al massimo a 3ml): “una parte
di queste probabilmente le dovremo buttare ..”
Facendo una
stima possiamo prevedere che delle 36ml di dosi acquistate coi nuovi
accordi, circa 30ml saranno le dosi buttate, raggiungeranno in
discarica le milioni di dosi gettate nei due anni scorsi. Un enorme
sperpero di soldi pubblici per l’Italia: se l’Europa ha comprato
4,2 miliardi di dosi, l’Italia calcolando tutti i vari vaccini sul
mercato ne ha acquistati ben 381 ml di cui almeno 150 ml sono in
eccesso. In questo momento nei magazzini abbiamo circa 21ml di dosi,
di queste, 16 ml anche se non sono scadute non sono aggiornate alle
varianti e quindi sono da gettare. Finora il nostro paese ha già
scartato 46,8 ml di dosi scadute.
Un
problema comune a tutti i paesi europei, come ha scoperto il sito
politico.eu: abbiamo pagato 4 miliardi di euro di dosi poi buttate e
non tutti i paesi europei sono stati felici di comunicare i dati
sugli sprechi.
Che fare delle dosi non usate? Non siamo
riusciti nemmeno a regalarle ai paesi del terzo mondo, per problemi
logistici (la catena del gelo, per esempio).
Il
servizio andrà anche a rivedere l’accordo sui
vaccini negoziato da Von der Leyen nel
2021, che non convinceva alcuni importanti dirigenti italiani: nelle
chat raccolte dalla corposa inchiesta della procura di Bergamo sulla
gestione della pandemia emerse che sul contratti per i vaccini Pfizer
si navigava al buio.
Nicola
Magrini, allora
capo dell’Aifa, era
venuto a conoscenza dei
contenuti del contratto firmato solo da giornalisti come Report. Oggi
risponde a Report del contenuto di queste chat: “avevo
estratti di un contratto in
cui si prevedeva perché non si potesse avere a delle informazioni
contenute, come poi è stato, quindi ho espresso un parere
personale”.
Una difesa appassionata del tema della
trasparenza, la definisce oggi davanti alle telecamere di Report, ma
ancora oggi, dalla risposta di Magrini si comprende quanto sia
delicata la materia: “se fossi stato coinvolto, avrei potuto quindi
chiedere di partecipare se non interferire, sarebbe anche diventato
complicato.. i vaccini andavano comprati, velocemente ..”
Non
è paradossale che il capo dell’Aifa scopra il contenuto dei
contratti dai giornali? “è stato il percorso di conduzione di una
emergenza in cui è stata l’Europa a comprare e non le singole
agenzie, era sensato che in un momento di emergenza fossero in pochi
a decidere, ed è andata bene..”
Magrini
dell’Aifa si infuriò su quel contratto perché i dati grezzi non
sarebbero stati disponibili prima del dicembre 2024 e Pfizer non si
accollava nemmeno i rischi legali in caso di eventi avversi. Comprare
a scatola chiusa un medicinale per milioni di persone lo riteneva
assurdo: “io non mi faccio prendere in giro su cose come queste”
– scrive Magrini in chat a Goffredo Zaccardi ex capo di gabinetto
del min. della Salute.
Magrini: “Ritieni che sia normale che i contratti che abbiamo firmato [..] nessuno li abbia letti?”
Zaccardi: “No il ministro ha voluto fare tutto da solo ”
Magrini:“Grazie, capisco meglio ora. No non vi sono tipologie tipo contratti ma manco sto capestro che sembra scritto come una presa in giro per analfabeti con l’anello al naso. . . E sapere chi se ne occupa e come sarebbe il minimo tra di noi del gabinetto ristretto.”
Oggi
Magrini getta acqua sul fuoco oggi: ma rimane la verità che i
vaccini non sono stati efficati al 95%, come raccontato.
Spenderemo
soldi pubblici per qualcosa di cui non abbiamo bisogno: abbiamo
relegato tutto alla commissione europea, alla Von Der Leyen, che ha
portato avanti la contrattazione da sola via whatsapp, suscitando
tanti sospetti di non regolarità.
A questo si deve aggiungere il fatto che il marito della presidente della commissione europea è un importante dirigente di una multinazionale del farmaco.
Oggi i cittadini europei non possono sapere perché il costo delle dosi è cresciuto da 15 a 19 euro, del fatto che abbiamo comprato più dose di quelle che ne avremmo bisogno.
I
messaggi tra Von der Leyen e l’AD di Pfizer non sono stati resi
pubblici: la trasparenza non è di casa nella commissione europea.
Tra
le carte dell’inchiesta di Bergamo si scoprì che anche il ministro
Speranza cercò di mettere le mani avanti, per inserire una clausola
nel contratto Pfizer, in cui si sottraesse la multinazionale dalle
leggi ordinarie in caso di problemi.
Abbiamo
pagato 4,4 miliardi di euro per tutti i vaccini acquistati: il
fatturato di Pfizer è quadruplicato col covid, i maggiori profitti
sono finiti in dividendi e non in ricerca. Alberto Bourla,
AD di Pfizer, ha venduto le sue azioni dopo aver saputo dell’accordo
in Europa ha venduto le sue azioni, con un guadagno in un giorno di
5,6ml.
Tanti profitti provati e tanti soldi pubblici sprecati:
in mezzo rimane un rischio sanitario, perché non siamo riusciti a
vaccinare tutto il mondo, non possiamo escludere che da qualche parte
venga fuori una variante non coperta da questa vaccini.
ASTRAZENECA, UN CASO APERTO – il vaccino scomparso di Claudia Di Pasquale
I
vaccini Astrazeneca sono stati donati anche ai paesi europei: in
Nigeria sono stati interrati dai buldozzer in una discarica a cielo
aperto, perché erano arrivati quasi scaduti.
Al Ruanda abbiamo
venduto dosi, che in buona parte scadevano dopo 27 giorni.
Prima
di inviare delle dosi a paesi a basso reddito, serviva l’ok scritto
di Astrazeneca, e questo ha causato i ritardi per l’invio.
Tra l’altro in questi paesi a cui abbiamo donato i vaccini hanno fatto poca farmaco vigilanza, ovvero non hanno tracciato gli effetti negativi: di fatto abbiamo inviato un vaccino che in Europa non voleva essere usato più, per colpa degli effetti avversi sulle persone giovani.
Astrazeneca
era il vaccino su cui l’Italia e l’Europa aveva puntato: era
stato inoculato inizialmente al personale delle forze dell’ordine e
agli insegnanti.
Report ha raccontato le storie di persone che
hanno avito questi effetti, come Davide Villa, morto il 6 marzo del
2021 dopo una prima dose di AZ (come ha stabilito la procura, che
però ha poi archiviato il caso, fermandosi nel cercare i
responsabili).
Altro
caso è quello del sottufficiale Paternò: anche qui è stata
stabilita la correlazione ma la procura ha archiviato. Così nel 2021
iniziano gli stop all’uso di AstraZeneca: ma dura solo 3 giorni,
Aifa in un comunicato cita fa ripartire le vaccinazioni, citando un
documento di Ema che non escludeva le correlazioni tra questo vaccino
e le morti per trombosi.
Il 25 marzo del 2021 il
ministero della salute cambia la formula di consenso: ma il 24 marzo
muore a Gela una insegnante, Zelia Guzzo. La procura, dopo aver
stabilito anche qui il nesso tra il vaccino AZ e la morte, ha
archiviato tutto: i familiari hanno cercato di fare causa alla
multinazionale senza successo.
Un’altra morte per AZ è stata quella di Augusta Turiaco, 55 anni: si era vaccinata con Astrazeneca il giorno 11 marzo, morì in ospedale il 31 dello stesso mese.
La procura ha riconosciuto il nesso causale tra la vaccinazione e la morte, ma l’indagine per risalire ai responsabili di questo decesso è stata archiviata: così i parenti hanno dovuto fare da soli causa ad Astrazeneca, che però si rifiuta di riconoscere questo nesso.
Non
è stato responsabile l’ente regolatore che si è fidata dei dati
di AZ, e non è responsabile AZ perché il suo vaccino è stato
approvato dall’ente regolatore.
La materia è complessa eppure
molti scienziati avevano già analizzato le correlazioni tra
Adenovirus e le trombosi.
L’Inghilterra ha iniziato a
vaccinare con AZ nel gennaio del 2021: i primi casi di morte, legati
al vaccino, si sono verificati sin da gennaio e conteggiati nei
report della farmaco vigilanza da febbraio. L’agenzia di farmaco
vigilanza non ha fatto niente – racconta alla giornalista
l’avvocata Sara Moore che sta seguendo questi casi come legale.
Il
governo ha riconosciuto degli indennizzi per queste morti, circa
120mila sterline, che di fatto corrispondono a due anni di
reddito.
Ma ci sono persone che non hanno preso indennizzi
perché la % di invalidità era inferiore al 60%, come stabilisce una
vecchia legge di fine anni 70.
A questo si deve aggiungere che Astra Zeneca non sta pagando niente alle vittime: negli ultimi tre anni i suoi ricavi sono esplosi, è una delle aziende più ricche nel Regno Unito, se dovesse perdere la causa legale pagherà il governo inglese, i cittadini. Questo a causa della manleva inserita nei contratti.
In Italia, nel 2021, quando Ema raccomandava questo vaccino solo agli over 60, si organizzavano nelle regioni gli open day anche per gli over 18. Ma il parere del CTS non era vincolante, era solo un parere – risponde Rezza oggi a Claudia Di Pasquale: difficile spiegarlo alle persone giovani che hanno preso questo vaccino, con tanto di nota integrativa, e che hanno subito degli importanti effetti collaterali. Come Irene Cervelli, rimasta invalida dopo la vaccinazione.
Fino
all’11 giugno quando si decise di bloccare AZ per le persone sotto
i 60 anni: c’è stata una cattiva comunicazione sui casi avversi,
senza distinguere donne e maschi e l’età.
Nessuno ha
responsabilità in questa storia.
SANITÀ A FONDO di Marco Maisano
La fine della sanità pubblica è un attacco ai diritti della persona e ai suoi redditi: la nuova frontiera dell’erosione del servizio sanitario nazionale si chiama fondi integrativi. Grazie alla forza dei fondi versati da 15 ml di lavoratori e ai contributi dello stato (5 miliardi) i fondi sanitari integrativi sono diventati appetibili alle assicurazioni.
Nella
legge del 1992 dovevano essere funzioni integrative (come le cure per
i denti): in realtà si tratta di funzioni sostitutive, i fondi si
stanno sostituendo alla sanità nazionale.
Così i cittadini
pagano due volte, con le tasse e coi fondi integrativi: sono
lavoratori che pagano obbligatoriamente questi fondi perché legati
al contratto nazionale.
Come avviene per l’industria metalmeccanica, legata al fondo Metasalute (controllata da Intesa San Paolo), o come Sanilog per i lavoratori della logistica, controllato da Unisalute.
Il
presidente di Metasalute è anche un sindacalista CISL: a Report
racconta che si sono affidati ad una assicurazione (come quella di
Intesa) per non finire gambe all’aria.
Le assicurazioni sono
attratte dai fondi: i fondi garantiscono dei benefici fiscali, anche
i lavoratori hanno dei benefici, ma i dati non sono facilmente
ricavabili, come decontribuzione.
I fondi sanitari non sono nemmeno obbligati a pubblicare un bilancio.
Nel 2021 il totale delle deduzione assomma a 4 miliardi, una somma quasi pari a quella che questo governo ha messo sulla salute.
Rosi
Bindi da ministra aveva cercato di mettere un argine ai fondi privati
e alla decontribuzione, ma la sua legge è stata poi bloccata: Stiamo
andando verso un finanziamento della sanità basato su due pilastri,
il pilastro della fiscalità generale con il quale si sostiene tutto
il servizio sanitario nazionale, compresi gli stipendi del personale
ma compresi anche i trapianti, i grandi interventi chirurgici,
l’organizzazione degli ospedali, dei distretti. E poi con un
finanziamento che non è meno incisivo per le casse dello Stato, con
cui stiamo finanziando le prestazioni private erogate ad una parte di
cittadini.
Una privatizzazione del servizio sanitario, un passo
alla volta.
Di parere opposto i manager della sanità privata e
dei fondi privati, come Massimiliano Nobis presidente di Metasalute:
“il paese ha un bisogno, c’è gente che non si cura perché non
c’è la risposta del sistema sanitario nazionale” allora siccome
il sistema sanitario non da risposte li facciamo curare dalle
assicurazioni private?
I fondi non garantiscono un accesso universale alle cure sanitarie: non tutti i dipendenti hanno gli stessi servizi, si sta legando la sanità allo stipendio delle persone.
Forse non sarà la fine della sanità pubblica, ma rischiamo di tornare al sistema delle mutue, dove i libretti sanitari avevano un colore diverso a seconda del lavoro delle persone - come spiega ancora Rosi Bindi - “il pacchetto di prestazioni legato a quel colore [del padre di Rosi Bindi] era inferiore a quello di un dirigente, ma in questo modo si tradisce la Costituzione, perché l’articolo 32 della Costituzione dice chiaramente che la salute è un diritto fondamentale dell’individuo, neanche del cittadino, neanche del lavoratore..”
Qui invece la salute è legata alla retribuzione dell’individuo: una vergogna, oltre che un attacco ai nostri diritti.
Tutta
colpa dei tagli al finanziamento della sanità, ogni governo da la
colpa ai precedenti.
Oggi i fondi integrativi, con le assicurazioni (che si prendono parte dei soldi dai fondi), si stanno prendendo pezzi del sistema pubblico.
Al sistema pubblico rimangono quelle prestazioni ad alto rischio e a bassa redditività, come i pronto soccorso.
GIRALAMODA di Lucina Paternesi
Fast Fashion, ovvero quella moda dove in pochi giorni si passa dal bozzetto all’esposizione del capo nei negozi: questo significa tanti capi di abbigliamento prodotti ogni anno, tante esposizioni, anche perché i capi prodotti nell’est asiatico costano meno (si rispettano meno le norme ambientali). Lo shop online ha fatto schizzare le vendite, anche per le vari influencer che spingono ad acquistare in modo compulsivo, tanto poi i capi si possono restituire.
Ma in realtà anche rendere i capi ha un costo: costa produrre i capi tessili, costa smaltirli, si stima che il mondo dell’industria tessile sia responsabile del 10% delle emissioni dei gas serra.
Ci sono anche stiliste che propongono capi riciclati, come Orsola De Castro: a Report parla di fashion revolution, il movimento per spingere le aziende a rivelare le condizioni in cui si producono i capi, l’impatto energetico e ambientale e i costi di produzione.
I
marchi di fast fashion sanno di essere parte del problema ambientale,
così oggi iniziano a raccogliere i capi usati, in cambio di buoni:
lo fa H&M, un colosso da 20 miliardi di fatturato l’anno. I
colossi non vogliono far sapere i dati del loro fatturato: colossi
come i cinesi di Shein, che non hanno negozi, vendono solo online,
tanto da essere chiamati ultra fast fashion.
Che
fine fanno i capi quando li rispediamo al mittente come resi? Report
si è fatta aiutare da Greenpeace per tracciare i resti di capi
acquistati da diversi marchi, come Ovs, Amazon e Zara.
I capi
sono arrivati in pochi giorni, quelli cinesi hanno impiegato anche 7
giorni: per tracciare il percorso dei resi, nei capi sono stati messi
dei geolocalizzatori.
Una
volta fatti i pacchi per i resi, è stato possibile così tracciarli:
i pacchi hanno girato l’Europa, dall’Italia fino all’Islanda,
poi Germania, Polonia..
I pacchi dalla Cina hanno viaggiato per
30mila km, quelli di Asos hanno girato per 8mila km, senza trova un
proprietario che li indossasse. Alcuni capi di Zara sono rimasti in
un deposito di capi invenduti a Piacenza.
Report è andata fino
in Spagna per recuperare uno di questi capi della H&M, a Malaga:
un pacco reso in Italia non è finito in un centro commerciale qui da
noi ma ha fatto un viaggio per essere poi rivenduto.
Capi
che viaggiano via mare, via gomma e via aereo: l’algoritmo
predittivo decide dove spostare il capo, anche in base alle
previsioni meteo.
Tutto questo è un grande impatto sulla CO2 emessa: 2,8kg di co2 equivalente, su 2000 capi è come la co2 assorbita da un bosco grande come un campo di calcio.
È
una pratica pessima che non responsabilizza nemmeno i consumatori: la
politica dovrebbe tassare questi resi e noi consumatori dovremmo
consegnarli nei negozi.
Così succede che in Cile c’è un
deserto di vestiti usati. E un Ghana i vestiti si pescano nel lago.
Le aziende dovrebbero poi comunicare quanti capi sono stati invenduti ogni anno, ma tendono a nascondere queste informazioni.
SECONDA MANO di Valerio Cataldi e Alessandro Spinnato
In
Ghana finiscono i nostri rifiuti, stracci, vestiti, che intasano le
reti dei pescatori, rovinano le spiagge.
Mentre sulle nostre
spiagge approdano i migranti, che noi consideriamo una invasione,
sulle loro spiagge arrivano invece 15 ml di capi, che stanno causando
una incredibile catastrofe ambientale ad Accra.
Pensiamo di fare
opera meritoria nell’inviare abiti usati in Africa, in Ghana: i
vestiti di seconda mano ricoprono le spiagge di fronte al mare,
rendendo la vita difficile ai pescatori.
Sono capi che arrivano
qui in Ghana in grandi balle dall’Italia o da altri paesi europei,
passando per dei grossisti: vengono venduti nei mercati e nei negozi
di capi usati.
Quello che viene buttato in Italia, in Germania,
qui viene riusato, per aiutare l’economia del paese: non tutti i
capi presi dalle balle vanno bene, alcuno sono così logori da essere
messi in un mucchio di rifiuti.
Questi rifiuti finiscono
nell’enorme discarica di Accra: questa ha preso un posto
predominante nel paesaggio, la laguna è morta. Qui
le persone vivono tra i rifiuti, cercando la plastica, soprattutto
bottiglie, la raccolgono e la vendono alle aziende di riciclaggio.
Altri cercano indumenti e rifiuti tessili che possono ancora essere
recuperati e venduti in altri villaggi: “sono proprio i rifiuti
tessili il vero problema, la montagna più alta è quella dei vestiti
usati, ci pascolano anche le mucche perché l’erba cresce anche
lassù.”
Di fronte c’è l’ospedale più grande della
nazione e quando bruciano i rifiuti si alza un fumo che copre tutto e
tutti: nessuno
qui è al sicuro.
Non
tutti i paesi hanno accettato questo mercato: il Ruanda ha detto no,
quando era sull’orlo di una sua catastrofe ambientale e per non
danneggiare l’industria locale.
Ma
in Ghana ci sono anche realtà diverse: nei laboratori della
Fondazione OR analizzano l’acqua attorno alla discarica, scoprendo
che sono piene di fibre di plastica. Tutta colpa della fast fashion
che, in assenza di regolamentazione, continuerà a produrre capi con
sempre più plastica.
I marchi devono farsi carico dei loro
rifiuti, spiegano dalla fondazione OR: quello della fast fashion è
un modello fondato sull’avidità, sulla poca lungimiranza, non è
sostenibile.
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