25 febbraio 2024

Indovina chi viene a cena – la sostenibilità dell’ecobonus e della moda

La sostenibilità dell’ecobonus.

Avremo tonnellate di polistirolo da smaltire, al prossimo ecobonus: il bonus doveva rilanciare il settore delle costruzioni per rifare le case degli italiani, ma ha in parte fallito nel suo scopo.

Sabrina Giannini ha mostrato come si potevano costruire i cappotti con la canapa: ma i produttori dei cappotti con questo materiale naturale sono stati tagliati fuori dalle leggi fatte per il bonus.

Esistevano altre opzioni al polistirolo, al poliuretano, meno costosi per i produttori, ma più inquinanti: la canapa o anche gli scarti del riso, che potevano essere usati nell’edilizia, ma forse era troppo bello per essere vero.

E pensare che una volta eravamo grandi produttori di canapa, poi l’ideologia contro questo prodotto ha rovinato un settore, costringendoci ad importarla dalla Francia.

Anche il riso ha una storia antica: le cascine in Piemonte venivano fatte una volta con gli scarti di riso.
Potevamo fare come la Francia, che ha imposto per i prossimi anni che il 50% degli edifici pubblici sia fatto con materiali naturali, come il riso appunto.

Se avessimo usato per il bonus casa il riso, avremmo evitato di buttarlo via, come scarto.

Ma resti della pula di riso sono state trovate dentro la grande muraglia cinese: la guerra tra i partiti fatta sul superbonus è stata tutta una truffa, ci si doveva concentrare sui materiali naturali per la bioedilizia.

La sostenibilità della moda

Che fine fanno gli abiti usati? Quanto è sostenibile la moda e il settore del fast fashion? È un tema importante nei giorni della moda a Milano.

Le influencer intervistate dalla trasmissione non ne sapevano nulla: ci riempiamo la bocca di sostenibilità ambientale, di green, ma spesso è greenwashing.

Nemmeno la celebre influencer Ferragni ha voluto rilasciare una intervista a Sabrina Giannini, meglio far finta di rivolgersi ai suoi follower in modo unidirezionale: il messaggio è sempre lo stesso, desidera, compra e consuma. E poi getta via.

Le influencer da milioni di follower non conoscono la tracciabilità della pelle dei cavalli, si spaventano di fronte a queste domande: “oddio non sono preparata” “magari facciamo dopo”..

Eppure potrebbero lanciare messaggi importanti, sulla vera sostenibilità, sull’origine della pelle usata per le borsette, queste influencer.

Ma a parlare di queste cose, a fare domande scomode, si rischia di rimanere fuori dagli spazi dove si mostrano i nuovi capi delle collezioni.


Collezioni che sono prodotte sempre più fuori dall’Italia, come ha fatto Rosso con la sua Diesel, che ha delocalizzato in Marocco. Si sposta la produzione fuori ma poi si continua a chiamare made in Italy. In che modo si produce all’estero? È una produzione rispettosa dei diritti dei lavoratori? È una produzione sostenibile?

Quante domande scomode, mentre è così comodo produrre in Marocco.

Una camicia costa 2,5 euro, in Italia si vende a 65 euro: nell’etichetta c’è scritto che dentro il prezzo c’è un contributo per mantenere il “green” nel pianeta.

I capi di diversi marchi italiano sono prodotti in capannoni dove si lavora in scantinati senza finestre, dove le donne lavorano per nove ore al giorno.
La metà dei lavoratori tessili lavora in nero in Marocco, per uno stipendio inferiore a quello minimo: anche i sindacati fanno fatica ad esporsi, hanno paura del datore del lavoro, per la possibilità di essere licenziati.

Signori, il greenwashing è servito: in questi scantinati si usano prodotti chimici senza porsi troppi problemi, con trattamenti che in Italia non sarebbero usati o proibiti.

Come il permanganato di potassio spruzzato sui pantaloni per scolorirli: servirebbero le protezioni dentro i laboratori che producono i jeans, ma in quello visitato dalla giornalista, non si usano particolari precauzioni.

Poi sull’etichetta del capo basta scrivere “basso impatto ambientale” e la coscienza è a posto.

La ricerca del maggior profitto porta i grandi brand a trovare paese dove il costo del lavoro è più basso: dal Marocco, alla Turchia, al Bangladesh, perché quando un capo piace al consumatore, viene prodotto in milioni di capi e allora serve la produzione di massa.

Sabrina Giannini ha ricordato il crollo di un’azienda tessile in Bangladesh in cui morirono tante lavoratrici: producevano capi per marchi italiani che poi fanno campagne contro il razzismo, per l’ambiente.

Come ha stabilito uno studio dell’Unione Europea, il 50% delle etichette dei capi è fuorviante o falsa: le aziende stesse si sono create delle regole – l’indice di sostenibilità ambientale - per potersi poi dare il marchio di green, di sostenibile, in mancanza di un regolamento mondiale.

Esiste il cotone veramente Green, come quello della Puredenim, a Inveruno: il cotone naturale ha un colore bianco, il problema è quando lo devi colorare. Alla Puredenim usano coloranti ottenuti dalla elettrolisi (e non dalla chimica), una tecnica svizzera adattata da Luigi Caccia nella sua tessitura.

Una tecnica molto innovativa che fa a meno dei metalli pesanti, come l’idrosolfito (lo stesso usato nei vini).

L’Europa lascia che siano gli imprenditori a scegliere il sistema di tintura, quello meno inquinante: non tutti faranno come il signor Caccia, che per la sua scelta è stato penalizzato, perché i suoi jeans sono solo in color indaco, non hanno altri colori, per evitare l’uso della chimica.

Non basta etichettare il pantalone come cotone organico o cotone biologico: se poi usi la chimica per colorare i pantaloni. Non c’è molta etica in questo settore, né ambientale né sociale – racconta a Sabrina Giannini Luigi Caccia, è solo greenwashing, una bella narrazione che dietro non ha niente.

L’innovazione della sua industria non è stata finanziata da nessuno, in Italia o in Europa e nemmeno dai grandi brand.

Ma non è il caso della Dondup a Fossombrone, azienda che produce capi con tessuti che non usano la chimica: essere un’azienda sostenibile, per davvero, è stato un minus nei primi anni dell’attività, hanno dovuto tenere un basso profilo sul marketing, ma investendo molto nella manodopera.

Perché i grandi brand delocalizzano allora, visto che le competenze non le abbiamo ancora perse in Italia?

Ma forse conviene investire nel mercato delle influencer, spingere sul modello fast fashion, sul modello usa e getta, tanto alla peggio il capo si butta.

I capi non venduti dal marchio Shein, cinese, vengono gettati: anche i capi sintetici, prodotti dal petrolio, con grandi problemi ambientali.

Eppure, come testimonia il caso dell’azienda LSJH in Finlandia, riciclare i capi può essere anche un business: si possono creare nuovi tessuti per nuovi vestiti, ma anche pannelli isolanti.

È un settore promettente, che consente di arrivare preparati per la regolamentazione europea sul riciclo dei vestiti.

Ma anche in Italia abbiamo il più grande distretto del riciclo dei capi, a Prato: si cerca di non usare la chimica, di riciclare quanto più possibile, anche la lana che viene riciclata per 5 ml di kg ogni anno.

In Italia non sappiamo quanti capi sono gettati in discarica, si stima che solo l’1% dei capi in Italia venga riciclato: un problema che diventerà sempre più importante in un settore, quello del tessile, che è tra i più inquinanti.

Ecco perché è importante il lavoro di Caterina Grieco che, con la sua Catheclisma, produce le sue collezioni partendo da tessuti invenduti: coi suoi capi si ha veramente un guardaroba sostenibile.

Alla Appleskin producono una “pelle” a partire dalla buccia della pelle: purtroppo si deve ancora fare uso della chimica, per il 70%, per un prodotto che ha comunque un costo di produzione importante.

Altre aziende usano il cactus e il mais, oltre alla mela, per produrre prodotti in pelle: si riesce ad arrivare ad un prodotto naturale fino al 60%, il 40% ancora deriva dalla chimica.

Nessun commento: