Introduzione
Questo saggio prende in esame la dialettica tra magistratura servizi segreti e potere esecutivo (in particolare la presidenza del Consiglio l'autorità politica a cui risponde l'intelligence) in relazione alle inchieste e ai processi per le stragi terroristiche avvenute tra il 1969 del 1980. La ricerca si concentra sul periodo compreso tra la riforma dei servizi segreti del 1977 e la metà degli anni novanta, quando l'Italia comincia a riassestarsi dopo i terremoti politici seguiti alla fine della guerra fredda e si vale di documentazione di intelligence inedita declassificata a partire dal 2014 [la direttiva Renzi].
A partire da questa prospettiva il saggio affronta due questioni più ampie che attraversano tutte le grandi democrazie contemporanee, connesse al problema della trasparenza (disclosure) e al diritto di sapere (right to know). Da una parte, le possibilità e limiti di un controllo politico, pubblico e democratico sui servizi segreti; in particolare se come si possa esercitarlo ex post, a tempo debito, attraverso la documentazione d'archivio anche al di fuori dell'ambito della giustizia penale. Dall'altra, più in generale ancora, come i limiti della trasparenza e le vaste lacune documentarie condizionino la ricostruzione storica di vicende, nel nostro caso dell'Italia repubblicana, in cui la dimensione politica si intreccia o collide con quella criminale, per riflettere su presupposti di una metodologia di ricerca che affronti in modo rigoroso anche la dimensione occulta della vita politica di un paese.
Arrivati alla fine di questo - ben documentato - saggio sui servizi segreti (in relazione al periodo tra gli anni sessanta – inizio novanta) prevale una sensazione di sconforto: le tante lacune della nostra storia moderna che riguardano in particolar modo le stragi avvenute in Italia negli anni della strategia della tensione potrebbero non venir mai colmate per l’impossibilità ad accedere agli archivi segreti custoditi, possiamo dire gelosamente, dai nostri servizi di sicurezza (e non solo loro se pensiamo agli archivi dell’Arma).
Per usare l’espressione del procuratore di Catanzaro Porcelli, uno dei magistrati del processo per la strage di Piazza Fontana, non sappiamo nemmeno quanti scheletri abbiamo nei nostri armadi.
Non è colpa dei servizi di sicurezza, dell’intelligence in sé: sono apparati dello Stato che, per costituzione (e in rispetto si spera della Costituzione) devono lavorare ai confini della legge, devono muoversi in una zona grigia tra Stato e antistato, raccogliere informazioni su possibili rischi sulla nostra sicurezza. Ma sono servizi che devono anche rispondere al principio di trasparenza, fin dove possibile, nei confronti di noi cittadini, attraverso il Parlamento e nei confronti della magistratura.
La storia recente però ci dice che non è sempre stato così: al centro della ricerca di Benedetta Tobagi ci sono quelli che sono definiti come dei veri arsenali, gli archivi dei servizi dove sono state accumulate, nel corso degli anni, le più svariate informazioni. Non sempre per fini previsti dalla loro funzione e non sempre nel rispetto dei principi della Costituzione.
Stiamo parlando dei segreti di Stato che i servizi, con l’avvallo della presidenza del Consiglio, hanno opposto nei confronti della magistratura quando quest’ultima chiedeva informazioni che potessero far luce su stragi, attentati, i tanti episodi che hanno costellato il periodo della strategia della tensione che hanno causato – tra il 1969 e il 1984 – 135 morti.
Stiamo parlando dei depistaggi, attuati da esponenti dei servizi, per bloccare, intralciare l’azione della magistratura che, ad eccezione di pochi casi, non è stata in grado di arrivare ad una sentenza di condanna sui responsabili e sui mandanti.
Stiamo parlando di
episodi specifici come la velina del SID del dicembre 1969 inviata ai magistrati
milanesi grazie a cui, assieme all’azione depistante dell’Ufficio
Affari Riservati del Viminale, fu creata la falsa pista rossa sugli
Anarchici responsabili della bomba di Piazza Fontana.
Stiamo
parlando del depistaggio messo in atto dal Sismi (controllato dalla
P2) per indirizzare i magistrati bolognesi verso la fantomatica pista
internazionale dietro la bomba alla stazione del 2 agosto 1980.
Come racconta in modo chiaro l’autrice, ci sono notizie che devono rimanere riservate o segrete, ma il problema di questo paese è che ci sono anche notizie, informazioni “indicibili”, che non possono in alcun modo essere divulgate al paese.
Pensiamo alle protezione di cui hanno di fatto goduto gli stragisti neri grazie a pezzi dello Stato mentre altri pezzi dello stesso Stato cercavano le prove degli attentati.
Pensiamo anche al rapporto stato – mafia, un tema che è rimasto tabù per anni, al centro del processo passato alla cronaca come processo sulla trattativa (ma che invece parlava d’altro).
Ma oltre alle
informazioni riservate e indicibili, esiste anche un altro genere di
informazione raccolta e gestita in modo “sporco” dai servizi: si
tratta dei dossier, legali o molto spesso illegali, su personaggi
ostili alla maggioranza del momento, contro i magistrati che si
permettevano di indagare (e magari di portare a processo i vertici
delle istituzioni, come successo a Catanzaro).
Che fine hanno
fatto questi dossier, queste notizie, spesso scandalistiche, spesso
legate alla sfera intima dei vari personaggi “attenzionati”: non
lo sappiamo.
Non sappiamo che fine abbiano fatto i dossier del Sifar raccolti all’indomani del piano Solo, non sappiamo che fine abbiano fatto i fascicoli dell’Ufficio Affari Riservati. La pratica dei dossier non è solo memoria del passato, visto quello che si è scoperto sul Sismi di Pollari e dell’ufficio di Pio Pompa.
Come mai in Italia è successo tutto questo? I depistaggi, i comportamenti fuori dalla Costituzione e non solo fuori dalla legge benché legittimi per la difesa delle istituzioni come uno ci si aspetterebbe? I dossier con cui portare avanti le azioni di ricatto che sono state alla base della prima e della seconda repubblica?
Nonostante questo volume non abbia l’ambizione di raccontare la storia dei servizi, Benedetta Tobagi affronta il cuore oscuro di questo paese, intrecciato alla genesi della repubblica nata dai panni del regime (i vertici di magistratura, esercito, pezzi dei servizi erano in servizio sotto il fascismo) e in un mondo diviso in blocchi secondo gli accordi di Yalta.
I nostri servizi dovevano essere obbedienti alla Repubblica ma dovevano essere fedeli anche a quanto deciso oltreoceano, a Washington. E spesso tra queste due fedeltà a prevalere era la seconda.
I nostri servizi, nati come servizi militari, sono rimasti per anni senza una vera regolamentazione, sul segreto di stato, sulla trasparenza degli atti. C’è voluta la riforma del 1977 per iniziare a costituzionalizzare il mondo dell’intelligence italiana, iniziando a creare una struttura di controllo democratico, il Cesis, organo parlamentare, per togliere parte della discrezionalità e del controllo che fa capo normalmente alla presidenza del Consiglio.
Ma anche la riforma del 1977, come racconta ampiamente Benedetta Tobagi, ha mancato i suoi obiettivi: i tempi non erano maturi, la presenza del mondo in blocchi, l’ostilità della politica e quella degli “spioni”. C’è voluta una seconda riforma, quella del 2007 che ha portato alla nascita di Aise e Aisi, per formalizzare la durata del segreto di Stato.
Nonostante tutte le riforme, tutti i passi in avanti, molto rimane da fare: negli ultimi due capitoli del saggio si parla degli archivi dei servizi, al plurale, perché nemmeno sappiamo quanti siano in Italia. E nemmeno sappiamo come attingere alle informazioni in esso contenuti, nemmeno sappiamo se ancora contengono tutte le informazioni che vi erano contenute.
Esiste l’archivio
Russomanno, dal nome del dirigente dell’Ufficio Affari Riservati,
legato al prefetto Umberto D’Amato, dominus dei servizi del
Viminale, ma non abbiamo le “chiavi” per accedere ai contenuti,
perché le cartelle seguono una classificazione singolare.
Lo
stesso vale per l’archivio di Gladio, la struttura italiana della
rete Stay Behind, resa pubblica con una mossa a sorpresa da Andreotti
nel 1990: ma è un archivio parziale, mancano molti documenti, come
manca probabilmente l’elenco completo dei “gladiatori”.
L’accesso parziale, impedito dalle leggi, dalla burocrazia di Stato, dalla scomparsa colpevole di documenti importanti, rende la conoscenza della nostra storia solo parziale. Tutto questo fa gioco di quanti, potendo nascondere il passato, soprattutto le pagine più imbarazzanti, possono permettersi oggi continuare ad avere un ruolo politico. Gli eredi dei politici di ieri, dei partiti di ieri, responsabili almeno politicamente di quanto successo in Italia.
Sono gli eredi di quella “destra profonda” che, come racconta Aldo Giannuli “comprende settori della classe dirigente, del mondo economico, dalle banche all’industria e degli ambienti militari; una ‘destra profonda’ ben più estesa della sua espressione parlamentare che, come denuncia più volte Aldo Moro a partire dal 1962, una componente conservatrice e reazionaria che ha tentato di sfruttare a fondo la guerra fredda per bloccare o comunque ostacolare una più profonda democratizzazione della società”.
Ecco il perché delle bombe, dei depistaggi per addossare le colpe alla sinistra, dei dossier per ricattare politici o esponenti pubblici. Ecco il perché dei legami con la destra estrema, da Ordine Nuovo ad Avanguardia Nazionale, utili idioti della strategia della tensione.
La politica, sempre, non solo negli anni della strategia della tensione, ha usato i servizi come fosse una sua ditta privata (uso l’espressione che il direttore del Sid Miceli rivolse al ministro Tanassi a Catanzaro, riferendosi al caso Giannettini).
Chi controlla il passato controlla il futuro – sta scritto così nel romanzo di George Orwell, 1984: purtroppo in Italia rischiamo questo, in assenza di una verità storica, riconosciuta, condivisa da tutti, che il nostro passato risulti incompleto e dunque manipolabile. E che questa assenza di memoria storica condizioni ancora il nostro futuro come Repubblica democratica fondata sull’antifascismo (valore, quest’ultimo, nemmeno riconosciuto dall’attuale maggioranza di governo).
Servirebbe un ulteriore sforzo da parte della politica e una maggiore pressione dell’opinione pubblica, che non può essere più trattata come un bambino che non è in grado di comprendere. Gli archivi sono un’importante arma di potere, di condizionamento e di potenziale ricatto. Devono essere gestiti da un ente terzo, non possono essere lasciati nella discrezionalità di pochi pezzi delle istituzioni “senza un vero controllo”.
L'atteggiamento ingannevole dei servizi che abbiamo incontrato innumerevoli volte, quando ripetevano alle autorità giudiziaria di aver consegnato tutto il materiale di interesse - per essere poi regolarmente smentiti - si ripropone ora a fronte della pressione dell'opinione pubblica per i versamenti e la declassifica. Finché l'ente produttore [i servizi] mantiene pieno controllo e accesso esclusivo al proprio archivio e seleziona in autonomia cosa eventualmente versare all’Archivio Centrale dello Stato, questo vanifica ogni speranza di controllo democratico ex post da parte delle istituzioni preposte, del giornalismo investigativo e della ricerca storica.
Non
saremo mai una vera Repubblica democratica e antifascista finché non
riusciremo a rendere effettivo questo controllo democratico, che non
ci riporti indietro ai tempi della P2, dove il potere, le nomiche,
erano altrove rispetto al Parlamento.
A questo va aggiunta
un’altra considerazione: oggi al governo abbiamo una destra che non
solo non si dichiara antifascista ma nemmeno ha reciso del tutto i
legami con la destra degli anni Settanta (a prescindere dalle
sentenze della magistratura), ma che sta usando tutto il suo potere
per riscrivere la storia recente del nostro paese e cancellare colpe
e sentenze già passate in giudicato (come la strage alla stazione di
Bologna).
Non è solo un problema degli storici, ma della nostra vita di cittadini.
Il video della presentazione del libro fatta da Claudia Moroni della Fondazione Flamigni
La scheda del libro sul sito di Einaudi
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