23 settembre 2024

Le furie di Venezia – di Fabiano Massimi


Prologo

Sono anni che aspetta questo momento.

Nella penombra dello studio, seduto dietro la grande scrivania piena di carte che solo a lui è concesso leggere, l’uomo fissa il telefono da chissà quanto, incapace di distrarsi, incapace di pensare. La tensione è una camicia troppo stretta che trasforma ogni respiro in sofferenza. Il tempo è lento e torbido come l’acqua di un rigagnolo.

Quando arriva il primo squillo, l’uomo resta immobile.

Un secondo squillo.

Un terzo.

Un quarto, e lui ancora non reagisce, come fosse paralizzato – perché sono anni che aspetta, ma si può mai essere pronti per un momento come questo?

Alla fine l’uomo si riscuote, afferra la cornetta.

«Quindi?» dice soltanto, la sua voce stentorea ridotta a un sussurro.

«È morto.»

«Sicuri?»

«Sicuri.»

Questo romanzo racconta, usando il meccanismo del giallo, la storia di Ida Dalser, la vittima dimenticata del fascismo, la donna la cui vita doveva essere cancellata per non macchiare l’immagine immacolata del duce del fascismo, Benito Mussolini.

Dio Patria e famiglia: quanto suonano false oggi queste parole (nonostante siano ancora usata da certa propaganda politica), il regime fascista mandò al massacro i suoi soldati, portò il paese alla rovina, mise in catene l’opposizione, tra cui anche alcuni preti che pagarono con la vita il voler mantenere la fede e non voltarsi dall’altra parte di fronte ai soprusi, alle violenze, alla vergogna delle leggi razziali.

Dopo Geli Raubal, l’Angelo di Monaco, Fabiano Massimi ci fa un altro regalo: ne “Le Furie di Venezia” si parla di questa donna, Ida Dalser, che pagò il prezzo di aver amato Mussolini e di avergli dato tutta sé stessa con la vita. La sua e quella del figlio, Benito Albino Dalser, il primogenito di Benito Mussolini che lui stesso riconobbe a Milano.
Un’altra donna, come Geli, finita stritolata da quel meccanismo messo in piedi a difesa del leader, perché nulla possa appannarne la figura immacolata.

VENERDÌ 15 GIUGNO 1934

La luce, pensò Sauer. Era la luce a fare la magia. Come uno sguardo nuovo posato su cose antiche, come una mano sicura che afferrasse il vento e lo tenesse fermo, i gabbiani alti immobili nell’azzurro, l’odore di salmastro che arriva a folate. La luce sembrava di vetro in quel mattino caldo e umido di metà giugno, mentre la folla festante rombava intorno a lui. Eppure Siegfried Sauer – ex soldato sulla Somme, ex commissario di polizia a Monaco, ex guardiano notturno di Vienna, ex tante cose e adesso più nessuna – d’un tratto si sentì solo nella piazza gremita, lambito da un soffio di ricordi che gli scompigliava i capelli ingrigiti e gli arruffava cuore e pensieri, sussurrandogli un nome che era insieme promessa e rimpianto, e che sempre, sempre lo spingeva avanti, anche in un giorno come quello, anche a un passo dalla fine.

Rosa.

Attenzione, questa non è una biografia, per raccontarne la sua storia l’autore ci porta a Venezia, nel 1934, anno decimo dell’era fascista, dove incontriamo nuovamente l’ex commissario Siegfried Sauer e i suoi compagni, Sandor, Mutti e l’antifascista italiano Livio. Hanno deciso di essere loro gli artefici del destino del mondo, dopo aver visto coi loro occhi di cosa è stato capace il partito nazista di Hitler in Germania: l’insabbiamento dell’indagine sulla povera Geli, la nipote del fuhrer, poi l’incendio del Reichstag, nel 1933 (I demoni di Berlino), con la fine della repubblica di Weimar e l’arrivo al potere di Hitler.

Il Duce a Venezia per accogliere Hitler.

La Storia quel giorno passava da lì.

Tutti questi dubbi, tutta l’ansia che ne germinava, invasero l’ex commissario nello spazio di pochi istanti, quanti ne servirono a Livio per ricevere la risposta dalla cupola e girargliela con altri due lampi di luce.

Sauer respirò.

Occorre uccidere i due dittatori quando si sporgeranno assieme dal balcone del museo Correr: è il prezzo da pagare per salvare l’Europa da lutti ben peggiori. Due colpi sparati dal cecchino ungherese Sandor dalla Torre dei Mori e tutto sarà finito. Compresa l’alleanza tra i due condottieri del mondo..
Ma qualcosa nel loro piano non va secondo i piani: l’ego di Mussolini o forse un cambio nel programma, fa saltare tutto, dal balcone esce solo il faccione del duce, che arringa la folla con le solite parole piene di retorica, l’Italia e il fascismo in quel momento la fanno ancora da padroni nei confronti dei nazisti, a Hitler in quella scenografia è dato solo un ruolo da comparsa, ma le cose sarebbero cambiate a breve.
Siegfied, Sandor e Mutti si ritrovano così la sera a discutere del loro fallimento, deciso comunque ad andare avanti: ma se è stato il caso a salvare i due dittatori, è sempre il caso che li mette sulle tracce di una nuova storia.
Una storia che apparentemente sembra l’ennesima invenzione su Mussolini, tanto è incredibile: riguarda le voci su un suo figlio, avuto da un’altra donna, non la brava casalinga Rachele.
Seguendo Mussolini lungo i canali di Venezia, approdano all’isola di San Clemente, dove ha sede un manicomio femminile.
Quella storia, che girava nelle taverne, che veniva sussurrata sottovoce per non finire nelle grinfie della polizia politica del regime è vera: Sigi, Mutti e Sandor riescono ad infiltrarsi nel manicomio, a spulciare gli archivi delle persone in cura e ad arrivare a questa donna, così importante tanto che la sua cartella è stata fatta sparire..
Chi è Ida Dalser e perché deve essere tenuta così nascosta al mondo e agli italiani? Qual è la sua storia? Qual è il suo segreto?

Ce lo racconta lei stessa, nelle trascrizioni dei dialoghi tenuti col suo psichiatra: la storia della sua vita, quella di una donna determinata che riuscì prima della guerra a costruirsi una fortuna col suo salone, a Parigi prima e a Milano poi. Dove conobbe per la prima lui.

D. Che conobbe chi?
R. Ma lui. Chi altri? Benito Mussolini, al tempo direttore dell’Avanti! Era il 24 febbraio del 1914.
Il giorno più felice della mia vita, e insieme il più disgraziato.
Fu Ida Dalser, è questa è la storia non il romanzo, a dare i soldi a Mussolini per fondare Il popolo d’Italia, dopo essere stato cacciato dal partito socialista e da direttore de l’Avanti, per il suo cambio di posizione sull’interventismo.
Mussolini doveva tutto a Ida, ma la nascita
di Vittorio, primo figlio maschio da “donna” Rachele, mise fine ad ogni sua speranza. E decise anche della sua vita e della vita di quel figlio nato nel 1915. Albino Benito Mussolini.

Forse c’è modo di stroncare il fascismo andando a liberare questa donna dalla prigionia, forse se il paese sapesse la sua storia il consenso del fascismo nella popolazione crollerebbe, come tutto il teatro messo in piedi dalla propaganda. Sauer è un idealista, la storia di Geli, l’incendio del Reichstag lo hanno segnato profondamente: le ferite che hanno lasciato nella sua anima possono essere sanate solo cercando fare giustizia, anche a prezzo della loro vita.
Se non può salvare Ida, per la protezione stretta a cui è sottoposta dal regime, c’è almeno un’altra vita da salvare, quella di Albino. Questa è una promessa che Sigi Sauer è disposto a mantenere ad ogni costo.

Mercoledì 26 agosto 1942

Non sembrava di essere appena fuori Milano, alla fine di un agosto torrido come pochi, nel cuore di una guerra che infuriava ormai da anni senza alcuna fine in vista.

Otto anni dopo il racconto ci porta a Milano: la guerra è arrivata e, anche se è ancora lontano, si fa sentire sulla popolazione, anche sui quanti avevano esultato due anni prima con l’annuncio roboante, Vincere e vinceremo!
Sono arrivate le bombe, i razionamenti, le tessere per comprare il cibo, la borsa nera di chi si approfitta delle disgrazie. Le leggi fascistissime, la repressione del regime contro chi si azzarda a pensare come un uomo libero. Nessuno crede più alle prime pagine dei giornali che, in quei mesi, raccontano ancora della celere avanzata verso Stalingrado.
Sembra di essere catapultati in un’altra storia: a Milano incontriamo il commissario Fausto Armeni, della sezione politica della polizia, mentre sta andando a visitare la moglie, curata nel manicomio di Mombello. È successo qualcosa di terribile al loro bambino, non sappiamo bene cosa, ma questo ha scosso profondamente le loro vita, specie quelle di Margherita.

«Era il mio bambino» disse lei in un fiato di voce, gli occhi fissi sulle mani.
«Io non volevo.» «Lo so» rispose Armeni, mentre l’infermiere la conduceva via..
Qui, ed è ancora il caso, artefice dei destini delle persone, ad intervenire: nel giardino del manicomio incontra un paziente che è appena scappato. Si tratta di un “giovane vecchio”, tanto il suo corpo presenta i segni della sofferenza

Armeni vide il collo che ne spuntava, sottile come il polso di un ragazzo, e appeso al collo un volto cereo ed emaciato. Albino, si disse. Il paziente scomparso.

Chi è questo paziente? Come mai c’è una camicia nera, un pezzo grosso del partito, che segue la sua cura nella struttura? Armeni è pur sempre un poliziotto, uno che non può non interessarsi ad enigmi come questi, specie in un momento così difficile della sua vita, a causa della malattia della moglie.
Sembra un’altra storia ma è la stessa storia: perché quel bambino è proprio Albino Dalser.
Forse, per Sigi Sauer e i suoi compagni di lotta, c’è ancora modo di poter rispettare quella vecchia promessa fatta a Venezia quasi otto anni prima.

Salvate mio figlio..



Mescolando finzione letteraria e storia, Fabiano Massimi ci porta dentro uno dei misteri, anzi uno dei tabù, della storia del fascismo. Tanto era la paura del regime, e di Mussolini, per questa donna, Ida Dalser, la prima moglie di Mussolini, da averla reclusa in un manicomio, non come pazza, ma come persona pericolosa per il regime. Tutto doveva essere cancellato, distrutto: i suoi documenti e anche il suo corpo, sepolto in una fossa comune sull’isola di San Clemente nel 1937. Ancora oggi, se non ci fosse stato il film di Bellocchio del 2009, Vincere (con una grandissima Vittoria Mezzogiorno), e un documentario su Rai Storia, ne sapremmo poco della sua vita. E ancora peggio è andata al figlio di Ida, Albino, tolto alla madre, affidato ad un gerarca fascista (che grazie a questo fece una fulminea carriera), allontanato dai parenti, fu anche lui rinchiuso in un manicomio, a Monbello, dove morì nell’agosto del 1942.

«Le Erinni» disse Menzio. «Anche note come Furie. Esseri sovrumani animati da un unico scopo: punire i colpevoli, vendicare i torti. Erano divinità della giustizia, ma di una giustizia estrema, violenta.

Le Erinni, nella mitologia romana Le Furie (da cui il titolo del romanzo), erano la personificazione divina della vendetta, soprattutto contro chi colpisce i propri familiari o i propri cari.
Se la vendetta contro il regime non ha più senso di essere, è bene almeno che questa storia sia raccontata ancora oggi, anche in forma di romanzo. Perché nessuno dimentichi cosa anche è stato il fascismo. Un padre padrone che ha ucciso i proprio figli, non solo in senso letterale.
“Come la sua vicenda, anche il suo corpo è stato cancellato. Eppure la sua storia non è stata dimenticata, le storie tornano sempre fuori, le storie non possono essere cancellate” – ci spiega Fabiano Massimi in questa presentazione del libro.

Domandatevi, voi che mi leggerete, se meritavo questo. Se qualcuno abbia mai meritato ciò che fecero a me e a mia madre. Eppure è accaduto. Eppure è accaduto. Ecco allora le mie ultime parole.

Tutto questo è successo davvero. Non lasciate che succeda di nuovo. Non lasciate che sia dimenticato.

PS: non lo sapevo e l’ho scoperto leggendo le pagine di questo romanzo, ma il famoso quadro di Bocklin, l’Isola dei morti è stato ispirato dall’isola di San Michele, il cimitero dei veneziani.

La scheda del libro sul sito di Longanesi, le prime pagine del libro.
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon.

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