Campagna romana, lunedì dell’Angelo, 9 aprile 1849
Il giovane piemontese stringeva la carabina e fissava stordito il cadavere, che se ne stava disteso su un mucchio di fogliame, con le braccia aperte e la bocca atteggiata a un beffardo sorriso. Come se nel prendere congedo dal mondo avesse finalmente realizzato di quale grande inganno – lui come chiunque – era stato vittima. Come se volesse dire a chi restava: E ora tocca a voi. Anzi, tocca a te. Vediamo come riuscirai a cavartela, ragazzo, perché una cosa è certa: dalla mia morte non potranno che venirtene guai.
In questo giallo
storico Giancarlo De Cataldo ci porta indietro nel tempo, nelle
settimane in cui vide luce la repubblica Romana, nell’aprile del
1949, una barlume di speranza per un’Italia più giusta,
“democratica” verrebbe da dire, soffocato poi dall’arrivo delle
truppe francesi nel luglio 1849. E’ in questo contesto che si
svolge la trama di questo racconto che ha come protagonista il
maggiore Emiliano Mercalli di Saint Just, dell’esercito piemontese,
reduce dalla sconfitta di Novara che costò l’abdicazione a Carlo
Alberto, a favore del figlio Vittorio Emanuele.
Prossimo al
matrimonio, scopre che la sua amata Naide, ha lasciato Torino per
andarsene a Roma: le motivazioni sono tutte nel biglietto che gli ha
lasciato
Sono a Roma. Dove si combatte per la libertà. Raggiungimi. Ti amo
Naide
Donna molto avanti per quei tempi, Naide, per i suoi studi in medicina, per essere stata in America per lavoro, nel sentirsi soffocata dal ruolo che quella società costringeva le donne, solo madri, mogli e angeli del focolare.
Sulla soglia del Florio, Emiliano scambio un rapido cenno di saluto con Isacco Artom, il giovane segretario particolare del Conte di Cavour. Si erano conosciuti durante l'inchiesta sul Diaul, e si stimavano reciprocamente. Artom ebreo, ma per Cavour le questioni di razze di credo erano irrilevanti, se non fastidiose. Carlo Alberto, su suo consiglio, aveva smantellato il ghetto e annullato tutti gli odiosi editti contro gli israeliti. Sotto questo aspetto il Piemonte era uno degli stati europei più avanzati.
Emiliano
è disposto a giocarsi il tutto per tutto per riportare Naide a casa,
anche a disubbidire agli ordini dei suoi superiori che gli intimano
di non pensarsi neanche di finire nel mezzo della rivoluzione romana,
con Mazzini e Garibaldi, per non creare problemi a casa Savoia.
Ma
il destino, nelle vesti del conte di Cavour, ha in mente per lui un
ruolo preciso in questa storia: ricorrendo anche all’inganno, il
consigliere del re lo costringe ad accettare un incarico molto
particolare. Un incarico che gli arriva niente meno che dal re, il
“focoso” Vittorio Emanuele
Emiliano dovette fare appello a ogni sua energia per non saltargli addosso. Cavour. Maledetto. Quella serpe non faceva mai niente a caso. Aveva forse bisogno di qualcosa da lui? E di che cosa? All'improvviso, dall'esterno filtrò una voce tonante.
«È qui? È arrivato?» La porta si spalancò. Fece il suo ingresso un giovane non molto alto, bruno, baffuto, in giacca da camera rossa.
«Benso! Ah, bravo, me l'avete portato, bravo!»
Mentre Cavour si alzava pigramente, senza nemmeno accennare ad accantonare il sigaro, Emiliano balzava in piedi e s'inchinava. Era entrato il re.
Si tratta di
riportare a casa Aymone Fleury, vecchio compagno d’armi del re, che
si è invaghito della moglie del principe Ottaviani-Augusti, Matilde,
che ha raggiunto fino a Roma. Emiliano deve riportarlo a casa, in
qualunque modo, perché il re e Cavour hanno per Aymone altri piani,
tra cui un matrimonio riparatore.
Mente fine quella di Cavour,
un vero animale politico che sa come muovere come pedine le altre
persone, ricorrendo anche a degli inganni, come per Emiliano. E,
soprattutto, sa come andrà a finire questa breve esperienza di
libertà a Roma:
«..Mi auguro che vi portiate qui a Torino quel giovane scapestrato di Fleury prima che Roma sia ridotta un cumulo di macerie» siete così pessimista su Roma Conte?»
«Vedete forse una luce in questo oscurità di altre potenze non permetteranno mai che si radichi una enclave sovversiva nel cuore dell'Europa quindi... il destino di Roma è segnato.»
Arrivato a Roma, Emiliano si presenta a Mazzini con una carta firmata dal conte di Cavour: sono tempi strani, da una parte Mazzini è considerato un criminale a Torino, ma a Roma è il capo di un triumvirato che comanda questa Repubblica, “ed è coi capi che si tratta”.
Eccitazione. Fermento. Questo si respirava nell'aria. La cacciata del Papa, la proclamazione della Repubblica, l'arrivo di Garibaldi: una successione di tumultuosi eventi aveva trasformato in pochi mesi la sonnolenta capitale della cristianità nel teatro del più spericolato esperimento dei tempi moderni. Combattenti da ogni parte d'Italia ed Europa si davano convegno all'ombra del Colosseo innalzando la bandiera della libertà contro l'oppressione dei tiranni. La reazione non si era fatta attendere. Gli austriaci avevano rapidamente ripreso il controllo della Ciociaria a sud, e incombevano dai confini settentrionali minacciando le Marche e la Romagna. Dal suo esilio a Gaeta il papa incitava le grandi potenze a ripristinare l'ordine. La flotta francese veleggiava la volta di Civitavecchia.
C’è poco tempo
dunque per questa missione: ritrovare Aymone, ritrovare Naide ma,
prima di tutto, incontrare Mazzini per avere quel minimo di appoggio
in una città sconosciuta, dove ad uno come Emiliano è perfino
difficile comprendere quel dialetto così ricco di
significati.
Mazzini si dimostra disponibile ad aiutare il
giovane ufficiale torinese: ancora una volta è la politica a guidare
certe scelte, la piccola repubblica romana non può inimicarsi il
piccolo regno sabaudo, chissà che un giorno possa tornargli d’aiuto.
Il giovane Aymone si
trova proprio nella tenuta di campagna del principe
Ottaviani-Augusti, la Spinosa: il principe del papa non è diventato
all’improvviso un carbonaro, ma anche lui ha intuito che di questi
tempi avere in casa un compagno di bagordi del re Savoia può fargli
comodo, anche se, come tutti, sa che prima o poi sarà nuovamente il
papa e i “reazionari” a comandare.
Ma, una mattina, mentre
si prepara una battuta di caccia, il cadavere del principe viene
trovato in una radura: accanto al corpo, c’è proprio Aymone, col
suo fucile in mano e viene subito portato via dal guardiacaccia e
successivamente messo agli arresti dalla polizia.
La
missione, già difficile prima, diventa ora quasi impossibile: come
fare a salvare Aymone dall’accusa di omicidio? Emiliano non può
che affidarsi, oltre agli uomini che Ciceruacchio gli ha messo a
disposizione, all’aiuto di Naide.
Così, mentre la città si
prepara alla guerra, si preparano barricate, attendendo l’arrivo
dei francesi, Emiliano e Naide devono scoprire chi altri avrebbe
avuto interesse ad uccidere il principe. Perché Mazzini è stato
chiaro: non può salvare l’amico di Vittorio Emanuele, deve
dimostrare di sapere amministrare la giustizia, dunque ci sarà un
processo regolare e alla fine potrebbe esserci pure la pena di
morte.
Emiliano ha a disposizione una strana squadra: Naide, che
come medico ne sa molto di più di tanti dottori stimati, un giovane
ragazzetto a cui si è affezionato, il riccetto e, alla fine, quando
ormai tutto sembra perduto, arriva a Roma anche l’amico Gualtiero,
una sorta di Sherlock Holmes torinese.
Sullo sfondo di
questa indagine, che troverà una sua soluzione nel finale, compaiono
personaggi storici realmente esistiti: non solo Mazzini, ma Carlo
Pisacane, Goffredo Mameli e il maggiore dei bersaglieri Luciano
Manara che era accorso a Roma a combattere per la Repubblica.
Anche
il fotografo Stefano Lecchi che, con le sue fotografie darà un
contributo alla soluzione del caso, è un personaggio storico: i suoi
“calotipi”, gli antenati della fotografia, rappresentano il primo
reportage di una guerra in Occidente.
È invece un errore, ma
veniale e perdonabile, l’aver retrodatato la nascita della pasta
alla carbonara che, come ammette nelle note finali Giancarlo De
Cataldo, ha origini nel 1870.
E’ però reale la descrizione del clima politico di quegli anni, gli anni del Risorgimento poi culminati con l’unità d’Italia: i giochi politici delle grandi nazioni (e del piccolo regno Sabaudo, che pure ambiva ad un suo ruolo in Europa), le grandi aspirazioni e gli ideali che mossero tanti giovani a combattere per la libertà. Uomini e soprattutto donne che volevano liberarsi da quelle catene che le intrappolavano nei ruoli che la società dell’Ottocento (ma per certi versi vale anche oggi) le teneva relegate:
Emiliano doveva ammettere che a Roma in quei giorni si respirava un clima di grande libertà. Molte delle grette convenzioni sociali che regolavano la loro vita torinese lì semplicemente non venivano prese in considerazione. Capiva perché Naide si trovasse così a suo agio. A lei le convenzioni erano sempre risultati odiose.
La scheda del libro sul sito di Mondadori
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