Nelle nebbie della prima Repubblica
Giornalista scomodo e coraggioso o strumento nelle mani dei servizi segreti? Doppiogiochista disposto a tutto per ogni scopo ricercatore indefesso della verità e fustigatore del potere? Ricattatore dei potenti o eroe senza paura?
Ma soprattutto, vittima di quale mano?
Gli interrogativi su Mino Pecorelli, suo suo ruolo, le sue attività, il suo essere sempre nell’occhio del ciclone di tutte le più complicate vicende politiche degli anni Sessanta e Settanta, le domande, in particolare, sulle circostanze della sua morte, inevase da quarantadue anni, sommergono chiunque si accosti alla sua storia, in un’ondata che toglie il respiro, che sembra non finire mai, da cui sembra di non poter più riemergere, risucchiati nell’incubo nero di un paese senza via d’uscita.
Se il delitto Moro, il rapimento del segretario della DC in via Fani, la sua lunga detenzione conclusa con la sua morte, è il grande mistero della prima Repubblica che da qui iniziò il suo lento declino (conclusosi con le bombe della stagione 1992-93), il delitto del giornalista Mino Pecorelli, diretto del settimanale Osservatorio Politico è IL delitto della prima Repubblica.
Perché attraverso la sua morte, attraverso i suoi articoli pubblicati raccogliendo informazioni dalle sue innumerevoli fonti, dai servizi alla politica al mondo dell’economia, possiamo rileggere in controluce tutti gli scandali, i veleni, i misteri di quel trentennio della nostra storia repubblicana.
Il mistero Mino Pecorelli, chi sia stato veramente, chi lo ha ucciso quella sera del 20 marzo del 1979, è un mistero che avvolge anche i momenti successivi al suo delitto: chi erano quegli uomini che sono stati visti sotto il suo palazzo, come se attendessero qualcuno?
Chi era il visitatore misterioso con cui Pecorelli aveva un appuntamento alle 17? Chi ha rovistato nella sua macchina lasciando la portiera aperta? Chi è entrato nella sua casa, prima degli investigatori, prelevando oggetti del giornalista? Infine l’enigma della telefonata fatta dai carabinieri alla dell’Olgiata di Maria Palma, dove stava per iniziare una strana cena, con protagonisti il procuratore capo di Roma, De Matteo, il sostituto Domenico Sica, il sostituto Vitalone e il colonnello Varisco, braccio destro di Dalla Chiesa.
Per cosa è stato
ucciso Mino Pecorelli, per quale dei suoi scoop? Per la storia degli
“assegni del presidente”, gli assegni dell’industriale Rovelli
ad Andreotti, poi girati ad altre persone, tra cui il costruttore
Caltagirone? Oppure per tutti i suoi articoli sul sequestro Moro, i
cui contenuti avevano come fonte sicuramente persone del Viminale?
Non si era fatto prendere in giro, Pecorelli, dalla finta scoperta
del covo di via Gradoli: fu lui l’autore della cartolina per il
signor Borghi, alias Mario Moretti, il carceriere di Moro, residente
in via Gladioli (altro riferimento occulto del giornalista a
Gladio).
Forse Pecorelli era riuscito a mettere le mani
sull’intero memoriale di Aldo Moro, le lettere gli interrogatori
nel corso della prigionia, ben prima che fossero scoperti, in parte e
fotocopiati la seconda volta nel covo di via Montenevoso a Milano.
Tutte le persone che
si misero alla ricerca del memoriale fecero una brutta fine, dal
generale Dalla Chiesa, ritenuto ingombrante non solo dalla mafia e
ucciso da essa in convergenza di interessi con altri poteri occulti.
Nel luglio del 1979 fu ucciso anche il colonnello Varisco, uno dei
presenti a quella strana cena, a pochi giorni di distanza dal
liquidatore della banca di Sindona, Giorgio Ambrosoli, ucciso da un
killer della mafia il 12 luglio a Milano.
Ad aggiungere mistero
alla storia, c’è la famosa riunione proprio nell’ufficio del
colonnello Varisco a Roma, a cui parteciparono proprio Pecorelli, il
commissario della banca d’Italia Giorgio Ambrosoli (uno che se
l’era andata a cercare, secondo Giulio Andreotti) e il generale
Dalla Chiesa.
A rileggere i numeri di OP, inizialmente solo un’agenzia di stampa, poi diventato un settimanale venduto nelle edicole, c’è l’imbarazzo della scelta nel cercare i nemici di Mino Pecorelli, persone che avrebbero voluto tanto togliere di mezzo questo giornalista. Ci sono le inchieste sullo scandalo petroli, sulle tangenti con la Libia, armi in cambio di petrolio da Gheddafi. Sulle tangenti americane dalla Lockheed, finite a politici italiani, dove si arrivò ad accusare perfino l’allora presidente Leone (poi prosciolto dalle indagini).
C’è la storia dei
dossier del Sifar, raccolti dal generale Giovanni De Lorenzo, autore
del piano Solo nei mesi del governo di centro sinistra di Moro, che
tante tensioni suscitava in Italia e anche oltre oceano. Quei dossier
avrebbero dovuto essere distrutti mentre in realtà furono usati per
anni per ricattare taluni personaggi in guerre politiche nascoste.
Pecorelli era un giornalista che non spaventava facilmente,
anche quando le sue piste arrivavano a toccare fili che scottano:
come l’inchiesta sulle attività del padre domenicano Felix
Morlion, agente dell’OSS nei mesi della seconda guerra mondiale, in
contatto con l’allora sottosegretario Andreotti. Ne avrebbe parlato
in un articolo della rivista “Nuovo mondo d’Oggi” nel 1967 dove
si metteva tutto assieme: la rete nazista lasciata nel sud dopo lo
sbarco in Sicilia, riciclata dai servizi americani in funzione
anti-sinistre, fino ai finanziamenti USA ai gruppi imprenditoriali
italiani..
Storie che raccontano l’anima grigia della nostra Repubblica: la Gladio italiana (rivelata ai cittadini italiani solo nel 1990), le tangenti pagate ai partiti politici, il ruolo di Gelli come deus ex machina nella politica italiana (quando ancora era un signor nessuno per tanti). I retroscena e i preparativi del golpe Borghese, unico tra i tanti colpi di stato arrivato ad uno stadio avanzato: a Pecorelli arrivò non il “malloppino”, la relazione del SID piena di omissis, ma il vero malloppone (ovvero il rapporto redatto dal capitano Labruna con i colloqui fatti coi cospiratori), che gli arriva direttamente dalle mani del generale Maletti, responsabile dell’Ufficio D del Sid.
Erano gli anni delle guerre interne al servizio tra le due cordate, quella vicina all’area andreottiana, del direttore Miceli (poi candidato nel Msi) e quella vicina ai morotei del generale Maletti: sono gli anni del processo per piazza Fontana celebrato a Catanzaro, dove sfilarono politici e ufficiali del servizi assieme ad estremisti di destra.
Il processo tenutosi a Perugia, che ha visto tra gli imputati l’ex presidente del Consiglio Andreotti, l’ex magistrato Vitalone, assieme ad esponenti dell’estrema destra italiana (i NAR Carminati e Fioravanti usati come manovalanza per tanti delitti politici degli anni 80-90) e al boss mafioso Pippo Calò è finito con l’assoluzione di tutti: le prove indiziarie c’erano, ma erano tutte voci de relato. Pecorelli sarebbe stato ucciso per fare un favore al divino Giulio, per tramite dei fratelli Salvo, ma sarebbero servite altre prove.
Un nuovo input alle indagini sulla morte del direttore di OP potrebbe arrivare da due nuove fonti: la prima sono le rivelazioni di Vincenzo Vinciguerra, ex esponente di Avanguardia Nazionale e amico di Stefano Delle Chiaie, che ha iniziato a collaborare con lo stato quando si è reso conto che i suoi ex camerati erano solo strumenti nelle mani di poteri deviati dello stato italiano, quello che a parole dovevano combattere. La seconda è invece la sentenza di condanna di Gilberto Cavallini per la strage di Bologna (che in primo grado ha visto la condanna anche di Paolo Bellini, altro esponente di A.N.): si tratta di quel magma nero dentro cui troviamo Gelli, la P2, i suoi finanziamenti ai NAR di Fioravanti e Mambro, i rapporti con la destra (Mario Tedeschi, ex senatore del MSI) e con pezzi delle istituzioni come Federico Umberto d’Amato, direttore del Ufficio Affari Riservati.
Quel magma su cui stava indagando, in una drammatica solitudine il magistrato Mario Amato:
“Mario Amato erano l’unico giudice della capitale che si stava occupando dei NAR e del rapporto esistente tra i Nuclei Armati Rivoluzionari e alcuni apparati dello Stato. Per parte sua Mino Pecorelli era l’unico cronista che nei suoi articoli faceva riferimento a molto più che presunti rapporti tra uomini della destra radicale e dei servizi segreti, nonché del finanziamento della P2 e di Licio Gelli ai gruppi eversivi. I vertici di Avanguardia Nazionale erano a conoscenza del fatto che Pecorelli sapeva molto di loro. Nel marzo del 1979 il giornalista aveva recuperato parecchi documenti legati a questo apparato, che come sappiamo ha svolto un ruolo di primissimo piano nella strage di Bologna. Ruolo che è tornato alla ribalta negli ultimi tempi, da quando è stata ipotizzata la presenza di Paolo Bellini sul luogo della strage di Bologna.”
Da questa sentenza occorre ripartire per fare giustizia, per Mino Pecorelli e i suoi familiari, e per fare luce su questo mistero, poiché in democrazia non possono esserci zone d’ombra sulle istituzioni (vale per tutti i grandi misteri d’Italia, da Portella della Ginestra a Piazza Fontana, per la strage di Bologna e per le stragi che hanno insanguinato il paese tra il 1992 e il 1993):
“Oggi la sentenza Cavallini- come scrive sempre Graziella Di Mambro – può essere il riferimento più importante e autorevole da cui muovere nell’inchiesta ancora aperta sull’omicidio Pecorelli. In essa è scritto che Giuseppe Valerio Fioravanti uccise Mino Pecorelli «in veste di sicario su mandato di altri». Chi sono, dunque, questi «altri»?.
«Se la pistola usata per l’omicidio del giornalista è finita nell’arsenale di Avanguardia Nazionale, allora l’organizzazione di Delle Chiaie non era estranea al groviglio di interessi che portò al suo omicidio.» E’ ciò che afferma il giornalista Fabio Camillacci..”
La scheda del libro sul sito di RCS Oggi
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