19 agosto 2023

Morte di un agente segreto di Giuseppe Casarrubea

 

Fra Diavolo, la banda Giuliano e il neofascismo in Sicilia (1943-47)

Le confidenze di un patriarca
Intorno alla mezzanotte del 26 giugno 1947 alcuni uomini salivano, indisturbati e con passo deciso, dalla via dei Mille di Alcamo. Questa cittadina del trapanese, definita da alcuni come luogo prediletto dei “santoni” della mafia, aveva il pregio di portare ancora, nel suo nome, l’etimo delle sue origini arabe, da cui la stessa parola mafia sembra derivare. Città di frontiera e di antica resistenza islamica contro gli invasori Normanni, si poteva dire che aveva segnato, assieme a Jato, la linea di difesa occidentale di quel popolo conquistatore che per tre secoli aveva dominato la Sicilia.

Quei cinque uomini che camminano in quella notte senza luna (particolare non da poco, come spiegherà in questo saggio lo storico Giuseppe Casarrubea) ancora non lo sanno, ma stanno per morire: il capomafia di Alcamo, don Vincenzo Rimi li ha venduti al capitano dei carabinieri Giallombardo i cui uomini sono appostati lungo quella via per tendere loro una trappola. I primi quattro moriranno in un conflitto a fuoco, le cui dinamiche ancora oggi, a distanza di 76 anni sono poco chiare. I rapporti dei carabinieri, redatti da un ufficiale che nemmeno era presente quella notte, sono pieni di contraddizioni. Anche il rapporto ufficiale sulla morte del quinto uomo (e le ricostruzioni dei carabinieri) è assolutamente poco credibile: si chiama Salvatore Ferreri, alias Fra Diavolo, ma anche noto come Totò u palermitamu o anche il Vendicatore per una cerchia ristretta di amici. Si era arreso ai carabinieri dicendo loro di essere un informatore dell’Ispettorato di Polizia per la Sicilia, Ettore Messana, ma una volta in caserma, venne ucciso nel corso di un alterco col capitano Giallombardo.

Ma chi era questo Salvatore Ferreri, un ragazzo di appena 24 anni, che aveva però sulle spalle decine di omicidi, specializzato in sequestri di persona e assalti alle caserme?

Avrebbe dovuto scontare una lunga detenzione in carcere, invece la sua storia riguarda anche una latitanza abbastanza lunga e tranquilla, con tanto di rapporti di confidenza con le forze dell’ordine, conclusasi in modo cruento nella notte del 27 giugno 1947.
Vi ricorda forse altre storie di altrettanti latitanti della mafia, come Luciano Leggio, Riina, Provenzano, che almeno rimasero in vita anche dopo la cattura?
Bene, perché questo saggio di Giuseppe Casarrubea ricostruisce tutta la storia di questo strano personaggio, che non era un boss come Provenzano, un capo dei capi, ma solo un bandito, la cui breve carriera criminale era iniziata all’inizio del 1944 con l’omicidio di un autista (similmente alla carriera criminale di Giuliano che era cominciata col delitto di un carabiniere nel settembre del 1943). Carriera costellata da tanti, pesanti segreti sui rapporti tra le istituzioni, i gruppi neofascisti che non si erano rassegnati alla sconfitta e la mafia che quel conflitto a fuoco, che forse è stata un’esecuzione, ha cercato di nascondere nella sua tomba.

In un documento dell’808° Battaglione per il Controspionaggio del Sim (data: 5 marzo 1945, titolo: “Organizzazione Sabotatori - Attentatori, Abwher Kommando L90, Milano, Gruppo David”), il maggiore dei carabinieri Cesare Faccio annota: “[…] Reclutatori: Tommaso David, alias ‘prof. D’Amato’, alias ‘dott. De Santis’, tenente colonnello della milizia fascista, squadrista, marcia su Roma, già capo del suo gruppo a Roma, piazza Colonna. Soprannominato ‘il Nostromo’ da Mussolini, col quale ha frequenti contatti. Età 70 anni, ma non ne dimostra più di 50. Ufficio ed alloggio: villa Hiche, via Carlo Ravizza 51, Milano. […] Reclutatori degli elementi maschili: membri dell’esercito repubblicano e della Decima Flottiglia Mas. […] Enti di provenienza dei reclutati: esercito repubblicano; Decima Flottiglia Mas; movimento giovanile misto ‘Onore e combattimento’ […] Missioni per conto del Gruppo David: […] prendere contatti, presso l’albergo ‘Boston’ in Roma, con certo Alfonso Fiori (in realtà Alfredo Fiore), capo di una squadra di agenti al servizio dei tedeschi, provvista di apparecchio radio e che da tre mesi non dà segni di vita, usando la parola d’ordine ‘LB 3519’. Se rintracciato, attingere dal Fiore notizie di carattere politico, economico e militare e chiedergli se ha bisogno di denaro. Il Fiore dovrà inoltre porre l’agente (Vito La ginestra, nda) in contatto con certo Fra’ Diavolo, capo di una banda di fascisti operante nella zona di monte Esperia, sita a circa 40 chilometri a sud di Roma. Fra Diavolo dovrà fornirgli le seguenti informazioni: progressi della banda, morale degli uomini, provvista di armi, condizioni finanziarie. Se la banda ha necessità di denaro, indicare sopra una carta topografica, servendosi della punta di uno spillo, la località precisa sulla quale dovrà essere effettuato un futuro lancio di denaro a mezzo di paracadute. […].” Il Fra Diavolo in questione è Salvatore Ferreri (inteso Fra Diavolo), numero due della banda Giuliano negli anni 1945 – 1947?

[Dossier dell’autore sui documenti americani su Salvatore Giuliano, la Decima Mas e il neofascismo in Sicilia]

Tra questi segreti che dovevano sparire con lui, il peccato originale della nostra storia repubblicana: un segreto che lega assieme la rete nazista di sabotatori che i gerarchi di Salò lasciarono al sud per sabotare alle spalle l’avanzata alleata, gli specialisti in sabotaggio ed esplosivi della X Mas di Junio Valerio Borghese, salvato dalla fucilazione dal James Jesus Angleton, responsabile del controspionaggio americano, l’OSS in Italia. Angleton mise gli occhi sin dal 1944 su questa rete di esperti sabotatori (“le uova del drago”, le chiama l’autore), che aveva usato gente come Giuliano e Ferreri per le sue azioni criminali, trasformandoli da banditi in agenti in una struttura segreta che doveva agire dietro le linee del nemico.
La ricostruzione dello storico Giuseppe Casarrubea si è basata sui documenti presi dai registri dei servizi americani e italiani, dagli archivi di Stato italiani, dagli atti della commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, nonché gli atti del processo di Viterbo per la strage di Portella. Tutti documenti pubblici la cui consultazione dovrebbe stimolare oggi, a distanza di quasi 80 anni, una seria riflessione sulla genesi della nostra repubblica, tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda.

Secondo la tesi dell’autore, questa rete di origine fascista sarebbe stata poi riciclata dall’OSS in funziona anticomunista, mettendo a frutto l’esperienza da sabotatori (e da criminali) fatta nel biennio 1944-45 contro l’esercito italiano e i carabinieri.

Tra le armi in dotazione alla Decima Mas nel periodo 1943 - 1945, figurano il fucile mitragliatore Breda mod. 30, cal. 6,5; il mitra automatico Beretta mod. 38, cal. 9; il moschetto mod. 1891/38, cal. 6,5 (cfr. il volume di Raffaele La Serra, Il battaglione guastatori alpini Valanga della Decima Mas, Monfalcone, 2001, pp. 185 - 187). Secondo i giudici del processo di Viterbo, tra le armi utilizzate dalla banda di Salvatore Giuliano a Portella della Ginestra, vi sono il fucile mitragliatore Breda mod. 30 (cal. 6,5) e il moschetto mod. 1891/38 (cal. 6,5). Il mitra automatico Beretta mod. 38 (cal. 9) è invece utilizzato da Salvatore Ferreri e dai fratelli Giuseppe e Fedele Pianello. Tra le armi della Decima Mas citate da La Serra, troviamo anche la bomba a mano Srcm (modello 35), il medesimo tipo di ordigno esplosivo utilizzato per gli assalti alle Camere del Lavoro nella provincia di Palermo (22 giugno 1947).

[Dossier dell’autore sui documenti americani su Salvatore Giuliano, la Decima Mas e il neofascismo in Sicilia]


Sono i mesi in cui in Sicilia si sperimentano politiche e strategie che poi rivedremo nel corso della nostra storia: attentati contro sindacalisti (come Accursio Miraglia) e contro le camere del lavoro e del partito comunista in un crescendo che è culminato con la strage di Portella della Ginestra (e le successive stragi a San Giuseppe Jato e Partinico, meno note): secondo la storiografia che si è purtroppo consolidata fino a noi, il bandito Giuliano sparò contro i braccianti radunatisi sulla piana quel 1 maggio per festeggiare la festività sul lavoro.

Ecco, dice Casarrubea, si tratta una storia falsa tutta da riscrivere, a sparare sulla folla fu Ferreri col suo mitra, mentre da un altro punto di fuoco un reparto di soldati della X Mas lanciarono le granate che all’inizio furono scambiati per petardi. Giuliano fu soltanto il “Lee Oswald” siciliano (oppure fu Lee Oswald ad essere il Giuliano americano): indicato al paese come unico responsabile della strage, Giuliano fu tenuto in vita finché convenne alla mafia, per poi essere eliminato anche lui nel luglio del 1950 dopo essere attirato in un tranello dal compare Gaspare Pisciotta.

Se per la morte di Giuliano vale il titolo de l’Europeo “L’unica cosa che è certa è che è morto”, perché tutta la ricostruzione dei carabinieri del colonnello Luca faceva acqua, per le vicende avvenute in Sicilia tra il 1943 e il 1947 l’unica cosa certa è che non solo solo storie di banditi e di siciliani che si sparavano tra di loro (come dichiarò in Parlamento Mario Scelba, negando la presenza di mandanti sopra la banda Giuliano).

Dall'estate del 1944, Venezia ospita infatti un importante centro nazifascista di addestramento al sabotaggio e allo spionaggio presso l’isola di Sant’Andrea, in collegamento con i centri di Montorfano (Golf Club Villa d’Este, Como) e di Villa Grezzana di Campalto (Verona). Nella città lagunare, ai primi di maggio del 1945, si arrendono agli Alleati Nino Buttazzoni e Rodolfo Ceccacci (Decima Mas). Nel luglio 1945, ai militi della ex Decima dell'isola viene clamorosamente concessa dagli angloamericani e dal Sim “la totale immunità” per i misfatti compiuti nei venti mesi della repubblica di Salò. Da quel momento, a Venezia, decine di ex marò di Junio Valerio Borghese si mettono segretamente al servizio dell'Oss [cfr. Nicola Tranfaglia, Come nasce la repubblica, cit., pp. 60 – 62]. Le affermazioni di Paolantonio ci portano a ipotizzare che Salvatore Ferreri/Fra’ Diavolo entra nell'Evis di Giuliano (nella tarda estate del 1945), dopo aver trascorso un periodo “al servizio degli Alleati a Venezia” all'indomani della Liberazione.

[Dossier dell’autore sui documenti americani su Salvatore Giuliano, la Decima Mas e il neofascismo in Sicilia]


In Sicilia in quegli anni che vanno dal 1943 al 1947 si costruì un’alleanza eversiva che vedeva dentro separatisti, vecchi latifondisti che non volevano perdere i privilegi che le sinistre avrebbero loro tolti, vecchi esponenti del fascismo (come i due ispettori generali della polizia in Sicilia, Messana e Verdiani, che avevano operato sotto il fascismo nella Slovenia) riciclati per la nuova causa anticomunista, personaggi come Borghese (comandante del reparto X Mas) che non accettavano l’arrivo della Repubblica. Tutti alleati assieme agli ex nemici di poco prima, i servizi americani che qui in Sicilia sperimentarono quello che poi avremmo visto verificare poi a Milano, a Brescia durante la strategia della tensione.

Portella della Ginestra fu l’atto più cruento di una guerra di altra natura inflitto a tradimento sulla pelle della democrazia che così nasceva malata, come la mela col verme dentro.
E anche, qui, come a Marzabotto, furono lavoratori indifesi, bambini, donne e adolescenti a pagare le spese della follia umana. Il piano era partito da lontano, si era geneticamente conformato agli eventi storici o, meglio, erano stati i fatti a generarlo per avere finalmente un banco di prova. Portella della Ginestra doveva essere come un vetrino sotto la lente di un microscopio geopolitico. Un laboratorio che usava, per la prima volta, una strage per provocare una reazione a catena. Furono tutti delusi.

Questo libro (come anche i precedenti scritti di Giuseppe Casarrubea) non dovrebbero costituire una clamorosa novità: nel 1981 l’ex capo della CIA William Colby potè scrivere nelle sue memorie senza essere smentito: “L’Italia è stato il più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina. Molte operazioni organizzate dalla Cia si sono ispirate all’esperienza accumulata, in questo paese, e sono state utilizzate anche per l’intervento in Cile.”

La storia italiana, il tradimento degli italiani che hanno combattuto per la liberazione dal nazifascismo, dei siciliani che nel 1947 hanno votato in regione per il blocco delle sinistre è passato anche attraverso personaggi oggi sconosciuti come Salvatore Ferreri, legato dai rapporti dei servizi americani al gruppo di Nuotatori paracadutisti di Nino Buttazzoni, addestrato dalla rete clandestina fascista per operazioni di sabotaggio dietro le linee del fronte alleato.
Proprio oggi che forze politiche eredi del Movimento sociale, partito fondato da reduci, gerarchi, ex esponenti del partito fascista, sono al governo e tentato di riscrivere la storia, diventa importante fare luce su queste pagine cupe del nostro passato, sul nostro non aver fatto i conti col passato fascista, sulla nostra politica a sovranità limitata e sugli input che arrivano da oltre oceano. Da Portella fino ad arrivare alla strage di Bologna.

La scheda del libro sul sito dello storico Giuseppe Casarrubea

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