IL
PORTANTINO EDITORE Di Luca Bertazzoni
Il senatore Angelucci è
stato seguito, oltre che dalla scorta, dal giornalista di Report che
ne ha raccontato la sua storia da portantino, fino a diventare un
importante manager della sanità.
Oltre che senatore, da 16
anni, prima in Forza Italia poi Lega, sempre eletto in un collegio
blindato, nonostante sua il prototipo dell’assenteista.
Senatore
poco amichevole coi giornalisti che gli ricordano le assenze.
Ma
è anche il senatore più ricco, per il vitalizio che gli riconosce
il gruppo da lui fondato.
Queste
società – spiega il consulente finanziario di Report Bellavia –
fanno tutte capo ad una finanziaria, la Tosinvest, controllata da una
società lussemburghese, la quale è a sua volta controllata da
un’altra lussemburghese, ancora controllata da una nuova società
in Lussemburgo. I tre livelli di controllo lussemburghese sono
riconducibili a.. non lo possiamo sapere, ma quella in cima a tutto
si chiamava Angelucci, poi ne hanno cambiato il nome, dunque
probabilmente è di proprietà del senatore. Perché la scelta di
società controllanti in Lussemburgo? Per motivi fiscali, continua
Bellavia: gli
utili degli
ospedali degli Angelucci che lavorano in convenzione col
pubblico
finiscono in Lussemburgo: “concettualmente si, poi bisogna vedere
come si muovono, come vengono distribuiti i dividendi, ma alla fine
sono dividendi lussemburghesi dunque non tassati e stanno
all’estero.”
Grazie
ai guadagni dal campo sanitario Angelucci oggi può investire in una
sua seconda passione, l’editoria: già
proprietario di Libero, Il Tempo e il Giornale, il gruppo Angelucci
ha messo gli occhi sulla seconda agenzia di stampa del Paese, l’Agi,
di proprietà dell’Eni, controllata dal ministero dell’Economia
e delle Finanze.
Vincenzo
Vita è stato sottosegretario alle telecomunicazioni fino al 2001:
“se una cosa esce in agenzia, c’è come un timbro, vuol dire che
è una cosa seria, non è una fake e questo può dar luogo a chi fa
il telegiornale di fare la sua scaletta.. la cosa che dice l’Agi
merita di essere in testa”.
Se Angelucci dovesse prendersi
l’Agi cosa potrebbe succedere?
“Angelucci avendo interessi
in settori piuttosto delicati, le cliniche private, sarebbe una forma
di pressione, un modo per fare intendere ai vari pezzi del potere che
c’è eccome una presenza che vuole contare..”.
Questa
proposta di acquisto ha suscitato le
proteste dei giornalisti dell’agenzia Agi, scesi in piazza per dire
no alla vendita di Eni della testata al parlamentare leghista: sui
cartelloni era scritto “l’Agi non si svende” a difesa
anche del pluralismo e della libertà dell’informazione, un
valore nelle democrazie anche per noi cittadini. Libertà di
informazione che sarebbe messa a rischio dalla vendita ad un
editore-politico.
Lo spiega bene a Report Serenella Ronda,
giornalista dell’Agi: “le agenzie di stampa sono una fonte
primaria di informazione e per questo devono essere autonome e
indipendenti”.
In piazza, il 3 aprile scorso, assieme ai
giornalisti, erano presenti anche esponenti dell’opposizione, come
l’ex giornalista Ruotolo e il deputato Fratoianni: l’ex
segretario PD Bersani parla di un “segnale all’ungherese, qui si
vuole prendere una agenzia e buttarla a fare un service di un gruppo
di testate di destra in spregio ad ogni logica di conflitto di
interesse ma anche, io credo, al comune senso del pudore.”
“In
democrazia non dovrebbero succedere cose di questo genere” racconta
ai giornalisti in piazza il segretario del M5S Conte “che una
partecipata dallo Stato, controllata dallo Stato, offre a trattativa
privata ad un parlamentare di maggioranza la seconda agenzia di
stampa del paese.”
Dietro
questa trattativa ci sarebbe Mario Sechi, ex portavoce di Meloni:
questa voce la racconta una fonte interna ad Agi, Sechi ha lavorato
per tutti e tre gli attori della vicenda, da Descalzi a Meloni ad
Angelucci con Libero.
Descalzi era presente all’evento di FDI
a Pescara, la conferenza per il programma del partito: dal punto di
vista economico l’operazione fa acqua, allora perché la si
fa?
Sechi, al telefono, ha smentito queste voci: però alla
festa dei 50 anni de Il giornale, erano presenti tutti, gli
Angelucci, Tajani e Sechi.
Bertazzoni è riuscito ad incontrare
Angelucci a cui ha chiesto conto di questa operazione con Agi: cosa
ci fare con Agi? “se anche fosse, ci divertiamo..”
La
clinica di Velletri del gruppo Angelucci è stata chiusa dopo la fine
dell’accreditamento: è stata scelta dal ministro Salvini per un
evento del suo partito. Nell’evento il ministro si era speso per la
riapertura della struttura.
C’è anche la storia della
presunta corruzione dell’assessore D’Amato che però, spiega
Angelucci, sarebbe avvenuta al contrario (era D’Amato che avrebbe
chiesto soldi per le elezioni), il pm avrebbe anche chiesto
l’archiviazione.
A Report, l’ex assessore D’Amato racconta
una storia diversa, parla di 250mila euro se Amato avesse fatto dei
favori ad Angelucci, tra cui la riapertura della struttura di
Velletri.
L’ex assessore D’Amato si è opposto
all’archiviazione e ora deciderà il GIP.
Nella
battaglia per far riaprire questa struttura, Angelucci avrebbe
coinvolto anche l’ex presidente Storace: secondo D’Amato, sarebbe
stato Storace a chiamare l’ex assessore, per fare da mediatore col
gruppo. Storace conferma l’incontro, in qualità di ex assessore
voleva aiutare a trovare un accordo, “capire la ragione
dell’accanimento contro il gruppo”, spiega a Bertazzoni.
Di
fronte all’insistenza delle domande di Report, Storace sbotta “ma
vuole essere proprio querelato?”
Quello che è vero è
che i giornali di Angelucci iniziarono una campagna elettorale contro
l’assessore D’Amato, in particolare Il Tempo: dopo la carota, il
bastone – è stato il commento di D’Amato.
Angelucci come
spiega la sua collezione di giornali? “Così… è una passione,
poi vediamo: può darsi che ci stufiamo, li mettiamo insieme e li
vendiamo”.
Secondo Angelucci, vorrebbe comprare anche La
Verità del direttore Belpietro, che proprio dal manager della
sanità è stato licenziato, per un contrasto causato da
Renzi.
Report racconta di una trattativa tra la regione e
Angelucci con mediatore Verdini, per delle fatture non pagate (dalla
regione, targata PD): in questa mediazione Angelucci non voleva
essere disturbato.
A vendere Agi ad
Angelucci, sarebbe Eni, controllata dal ministro Giorgetti, collega
di partito: in aula il ministro ha spiegato di non saperne nulla, ma
stiamo parlando di una vicenda che ha dentro un conflitto di
interesse e una concentrazione preoccupante dei mezzi di
informazione.
Come la mettiamo con le regolamentazioni europee
sull’informazione?
Gli affari ai giornali di Angelucci non
vanno bene: guadagna bene con la sanità e bilancia per perdite. Il
Tempo, Il Giornale, i giornali hanno una funzione diversa: racconta
il servizio che si vuole avere una agenzia di stampa che faccia da
megafono per la tua area politica, perché non si sa mai.
I
media indipendenti sono un pilastro fondamentale delle democrazie –
ricordano dall’Unione Europea. Lo sono indipendenti, i giornali di
Angelucci?
Il nuovo presidente della regione Lazio è,
dal 2023, Francesco Rocca, ex presidente della Croce Rossa (e nel
passato ha lavorato in una clinica di Angelucci): “speriamo che
Rocca abbia un occhio di riguardo, diverso da prima” racconta a
Bertazzoni nell’intervista volante.
Rocca è stato presidente
di Confapi, l’associazione delle cliniche private, ha scelto di
tenersi la delega alla sanità: “Rocca è una persona capace e non
quella persona di prima” è sempre Angelucci riferendosi a D’Amato.
Uno dei motivi degli
scontri tra l’ex assessore e il manager è stata la questione della
clinica di Rocca di Papa: era
stata dichiarata covid free, così
la signora
Giovanna Boccardi aveva lasciato lì la madre nei
mesi della pandemia,
“ma ogni volta che arrivavo lì trovavo tre, quattro carri funebri
e ho capito che c’era qualcosa che non andava..”.
Altra
testimonianza è quella del signor Giacomozzi, figlio di un paziente
di Rocca di Papa morto per covid: “io ho saputo del decesso dalle
pompe funebri perché dal San Raffaele non mi hanno detto niente”.
Si
parla di più di 170 contagi di cui la struttura aveva timore a
raccontare, dal racconto della signora Boccardi “parliamo di
qualcosa che non è stata gestita bene dall’inizio alla fine, io
vedevo il personale entrare senza mascherine, senza guanti, ho
chiesto se ci fosse un protocollo per evitare dei contagi e mi è
stato risposto che non erano attrezzati per l’isolamento per cui i
pazienti covid o no covid, con febbre senza febbre erano tutti quanti
insieme.”
Stefano Giacomozzi ha presentato denuncia per capire
cosa fosse successo alla madre, dall’ospedale abbiamo ricevuto due
telefonate e basta e il certificato di morte.
Quando i contagi per
covid nella struttura di Rocca di Papa iniziano a crescere senza
controllo, nell’aprile 2020 la regione Lazio e l’unità di crisi
decidono di istituire una zona rossa attorno alla struttura: l’ex
assessore D’Amato racconta a Report che quello è stato uno dei
cluster più rilevanti in una struttura sanitaria “constatammo che
non erano rispettati le condizioni di sicurezza in relazione alla
suddivisione dei percorsi, dei dispositivi di prevenzione, a tutto
ciò che andava messo in atto per limitare la diffusione del
contagio.”
Si arrivò così alla revoca
dell’accreditamento
al San Raffaele di Rocca di Papa: accreditamento
poi ristabilito dalla nuova amministrazione di destra di Rocca.
Gli
affari per il gruppo Angelucci sono in crescita, con la nuova
amministrazione Rocca: al gruppo arrivano 19ml di euro in più, “io
mi sono trovato nella situazione di dare un posto a tutti i disperati
nei pronto soccorsi” ha spiegato il presidente.
Non un favore,
dunque: vedremo se la nuova amministrazione riuscirà a far ripartire
la clinica di Velletri.
Come mai è passato alla Lega?
“Ma
non sono andato alle Lega per scelta – dice ancora Angelucci a
Report – ma perché chiaramente in Forza Italia eravamo 94, con la
nuova riforma (sul taglio dei parlamentari, ndr) erano 24. Tajani e
devo dire tutti mi hanno detto: ‘Tonì, un posto per te c’è, non
c’è problema’. Però ho detto: ‘non ve state a preoccupa’,
magari datelo ad un altro’ perché io posso andare sia alla Lega
sia a Fratelli d’Italia”.
Aho, comportate bene,
l’ammonimento lasciato a Bertazzoni prima di andarsene.
NESSUN
DORMA Di Walter Molino e Andrea Tornago
Le radici della
ndrangheta hanno infestato anche i marmi dell’Arena di Verona, lo
splendido anfiteatro romano conosciuto per il festival lirico che
attrae cultori dell’opera e turisti da tutto il mondo. A montare e
smontare palchi e scenografie è stata per anni una rete di imprese
che, secondo
la procura antimafia di Venezia, con un giro di fatture gonfiate,
arricchiva le cosche Grande Aracri di Cutro e Arena-Nicoscia di
Isola Capo Rizzuto, tra le più potenti ndrine calabresi.
Nei
magazzini della Eurocompany, nella zona industriale della città
venivano
conservate le scenografie della stagione lirica veronese. Sono 10mila
metri quadrati che la fondazione Arena di Verona prendeva in affitto
a carissimo prezzo dalla Eurocompany di Giorgio Chiavegato, una rete
di cooperative di facchinaggio da 26,7 ml di euro di fatturato.
Chiavegato aveva
iniziato a lavorare con la fondazione nel 2012: agli appalti
partecipava solo la sua azienda, “perché era talmente complessa
l’attività di smontaggio e montaggio, non era come montare
un’impalcatura..” Ma
di fatto
oggi quel lavoro è fatto da altre imprese.
Oggi Chiavegato è
in attesa di un processo dopo un anno ai domiciliari. È accusato di
false fatturazioni e altri reati fiscali con l’aggravante di aver
agevolato la ndrangheta.
Intorno
alla società di Chiavegato giravano altre società che secondo la
procura, riciclavano i soldi delle ndrine: a gestire queste aziende
c’era il manager Domenico Mercurio, oggi diventato collaboratore di
giustizia.
A Report Mercurio ha raccontato il sistema:
l’imprenditore crotonese creava finte fatture, che poi Chiavegato
pagava, una parte veniva tenuta per sé.
Mercurio offriva anche
servizi ai politici, offrendo pacchetti di voti.
I soldi
in nero di Chiavegato finivano alla politica e, secondo
l’imprenditore della Eurocompany, finivano anche nelle tasche dei
dipendenti della fondazione (nessuno dei quali risulta indagato).
Non
tutti hanno voglia di parlare dell’indagine della Eurocompany,
nemmeno la sovrintendente Gasdia, ex soprana, che negli anni non si
era accorta di come venivano gestiti gli appalti della fondazione. E
nemmeno il sindaco Tommasi sembra in grado di cambiare gestione (né
cambiare sovrintendente), essendo finito in minoranza nella gestione
dell’indirizzo, rimandando ai controlli del ministero e della corte
dei conti.
Il servizio di Report
racconta delle campagne pagate coi soldi del sistema Chiavegato, per
politici poi eletti nel comune di Verona e poi in regione.
Domenico
Mercurio parla dell’avvocato Stefano Casali, di un ex
democristiano ancora potente a Verona (e vicino a FDI), Elio Nicito,
l’ex sindaco Tosi e di altri candidati di Fratelli d’Italia.
Il
sistema Verona di cui parla Mercurio è alimentato dalla ndrangheta:
le sue dichiarazioni sono state ritenute credibili nei processi, si
parla di appalti spartiti con aziende amiche della politica, con
fatture gonfiate che vanno in una direzione e fondi neri che poi
tornano indietro usati nelle campagne elettorale di Flavio Tosi
(questo è quanto racconta Chiavegato).
Report ha cercato di
sentire l’ex sindaco oggi deputato: Mercurio sarebbe inattendibile,
mai avuto rapporti con Mercurio e nemmeno con Chiavegato.
“Siete dei
diffamatori” è la risposta finale del deputato.
FUORI
PISTA di Claudia Di Pasquale
Il
giorno dopo l’inaugurazione degli uffici della Fondazione Milano
Cortina, la Guardia di Finanza ha perquisito i loro uffici,
nell’ambito di una inchiesta su una presunta corruzione per la
gestione degli appalti, quei lavori di cui si era occupata Report nel
passato servizio, lavori scorrelati dalle olimpiadi, coi costi saliti
alle stelle.
La procura di Milano ha aperto un fascicolo per
abuso d’ufficio sulle assunzioni in Fondazione: tra le persone
contrattualizzate la
nipote di Mario Draghi, il figlio di Ignazio La Russa e l’ex
segretaria, Domenico De Maio legato all’ex ministro grillino
Spadafora, Ursula Bassi, candidata nel 2019 col centro sinistra,
Marco Francia, candidato fino al 2018 col centro destra a Torino. Poi
Giorgio Pescante, nipote del più famoso Mario, ex numero uno del
Coni, membro onorario del Cio ed ex deputato di Forza Italia. Poi
Antonio Marano, eletto deputato nel 1994 con la Lega, ex direttore di
rai 2 e presidente di rai pubblicità dal 2016 al 2021.
Marano
ha le competenze per lavorare in quel ruolo, lo difende Malagò: ma
se dovesse essere nominato (in quota Lega) nel cda Rai rimarrà nella
fondazione dove dovrebbe occuparsi di acquisto di spazi pubblicitari
per le olimpiadi? “Non lo so, penso che ci sia un problema, un
problema di carattere giuridico, formale, magari qualcuno può
scrivere due righe e dire che non c’è nulla di male, c’è un
carattere estetico che sicuramente può rappresentare un
problema.”
Ma come mai ogni volta questi enti devono diventare
dei carrozzoni dove finiscono parenti, persone legate alla politica
o segnalate dalla politica? “Lei fa il suo lavoro, però mi creda,
non è assolutamente così correlato, scontato come sembra.. non è
scontato che se una persona ha fatto politica abbia avuto dei
privilegi..”
Ma sembra tutta una sceneggiatura già scritta,
ha ribattuto la giornalista di Report Claudia di Pasquale: “noi
c’abbiamo un sacco di problemi, come ce li ha il paese, altri
soggetti che cercano di organizzare qualche cosa, non penso che
questo sia il problema.”
Potrebbe
però essere un problema per la magistratura, come anche i contratti
con Deloitte: la società americana fornirà servizi alla fondazione
per 176 ml di euro, sono servizi di sicurezza e in information
thechnology.
Deloitte è partner del CIO – spiega Malagò –
è una società di alto livello.
Ma
poi qualcuno dovrà pagare i debiti accumulati dalla fondazione:
dall’ultimo bilancio emergono 107 ml di deficit patrimoniale e a
contribuire a questo debito da una parte c’è il contratto con
Deloitte e dall’altra le assunzioni. Nei documenti sta scritto
bello in chiaro, la copertura del deficit è a carico degli enti
territoriali, paga pantalone “è che, l’ha scoperto adesso che i
soci sono enti locali..”
La
Fondazione si comporta come un ente privato quando deve fare
assunzioni e firmare contratti, ma quando emergono debiti paga il
pubblico: troppo comodo, no?
Tanto è vero che il governo ha
infiltato un articolo ad hoc in un DL sulle calamità, dove c’è
scritto che la fondazione Milano Cortina è un ente di diritto
privato. Un articolo fatto apposta per sottrarre la fondazione dai
controlli della procura.
Ma quanto sono sostenibili queste
olimpiadi? Il documento di valutazione ambientale era il cardine
della candidatura di Milano, ma nel vas che viene presentato nei
paesi dove sono aperti i cantieri si parla di altro, non delle opere
realizzate e che rimarranno sul territorio.
Nel Vas presentato a
Cortina dalla fondazione non si parla della pista da bob né del
taglio degli alberi, delle variante in galleria fatta in una zona
franosa, della nuova cabinovia.
La Vas della fondazione si
occupa solo delle strutture provvisorie montate nei giorni delle
gare, della gestione dei rifiuti, qualche raccomandazione (mangiare
meno carne): e le opere che rimarranno sul territorio, come mai non
ci sono accenni? Gli alberi tagliati, i 500 larici, erano alberi
secolari, che nel progetto iniziale dovevano essere conservati.
Alla
fine le gare di bob potrebbero essere poi spostate a Innsbruck, se la
pista non dovesse essere pronta: in Austria i lavori di
ristrutturazione dovrebbero terminare per agosto 2025.
Tenere in
piedi una pista da bob ha un costo, si fa in perdita senza contributi
pubblici: conviene tenere in piedi a Cortina una pista che si sa già
sarà in perdita?
La regione Veneto ha fatto un accordo in cui
si accolla il costo della pista al “fondo per i comuni confinanti”
(sarebbero fondi per investimenti, non per spese comune), né la
provincia di Belluno, né la regione vogliono metterci i soldi per la
manutenzione della pista (quasi
1,4 ml di euro l’anno),
par di capire seguendo il servizio.
Zaia, di fronte a Report,
spiega che ci metterà dei soldi, faranno la loro parte, ma non si
impegna per una cifra stabilita.
PATTO
DI SANGUE di Antonella Cignarale
Grazie
all’accordo con le farmacie, per il progetto Farmacia dei servizi,
si possono fare esami anche col SSN passando per le farmacie: tutto
per aiutare la “signora Maria”, come spiega il sottosegretario
alla Salute Gemmato, che per un esame non deve aver bisogno di un
passaggio per andare in ospedale.
Ma ogni regione ha i suoi
accordi per questi esami: alcune regioni richiedono la ricetta, in
Piemonte alcuni esami si possono ripetere solo 3 volte. Ma perché
tre volte? Non è un numero scientifico.
Nel
corso degli anni i provvedimenti che estendono i servizi alle
farmacie hanno creato malumori nelle associazioni di categoria: di
mezzo c’è il Titolo V che concede autonomia alle regioni, i
farmacisti non hanno responsabilità sugli esami svolti coi
dispositivi, non ci sono obblighi comuni per eseguire gli esami. I
farmacisti, al termine dell’esame non possono dare prescrizioni, il
paziente deve andare dal medico di famiglia, ma c’è il rischio che
il paziente sia influenzato dai cartelli coi nomi delle medicine.
Gli
esami del sangue possono essere fatti in farmacia col prelievo
capillare: il dispositivo rilascia uno scontrino senza firma del
responsabile, anche il protocollo del prelievo non sempre viene
rispettato.
Le
procedure vanno standardizzate, ammette il sottosegretario Gemmato,
ex farmacista: ma nelle leggi valide ad oggi non ci sono obblighi,
come ha ripetuto il servizio, cosa che ha suscitato malumori
sull’associazione dei poliambulatori.
Anche
sulla qualità del prelievo in farmacia ci sono dubbi – continua il
servizio: nei laboratori i risultati dei prelievi sono validati da un
medico, i dispositivi sono monitorati a distanza periodicamente. Cosa
diversa in farmacia: lo scontrino fatto in farmacia non ha firma e
non ha valore legale, e nemmeno lo vogliono avere, spiega il
presidente di Assofarma.
Questo
punto, l’assenza di una firma, non è un fatto conosciuto dal
ministro Schillaci che però, di fronte alle domande di Report,
risponde che adesso verificherà.
L’ordine dei medici e dei
biologi e dall’altra parte l’associazione dei farmacisti troverà
probabilmente un accordo: si potrebbe arrivare ad un accreditamento
tra le farmacie e i laboratori, le prime diventerebbero dei punti di
accesso (i campioni raccolti verrebbero poi analizzati nei
laboratori),
ma aspettano il via della politica.
Alla
fine, spiega il conduttore Ranucci, sembra che ognuno voglia tirare
acqua al suo mulino, farmacisti contro medici e contro i laboratori.