Questo breve romanzo del giornalista Paolo Morando è il secondo volume della raccolta "Terrorismo italiano" pubbicata dal Corriere della sera, curata da Barbara Biscotti.
L'autore ha scritto per Feltrinelli un saggio ben più corposo intitolato "La strage di Bologna - Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito" dove trovano spazio anche le storie dei primi processi che hanno portato alle condanne in via definitiva dei tre esponenti dei Nar, Mambro, Fioravanti e Ciavardini, come anche le storie delle vittime.
Famiglie distrutte (anche nel senso materiale del termine) da quella bomba esplosa nella sala d'aspetto della stazione di Bologna in una mattina del 2 agosto 1980.
In questo libro ci si sofferma sugli ultimi sviluppi emersi dal processo Bellini/mandanti che, con le sentenze di condanna emesse in primo grado, ci consente per la prima volta dopo più di quarant'anni di arrivare al livello superiore.
La strage non è più solo opera di quattro ragazzi autodefinitisi spontaneisti: ora abbiamo il livello superiore che dai Nar, il gruppo terrorista di estrema destra cresciuto a destra del movimento sociale e in rottura con i "tramoni" di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, sale su fino alla P2 di Gelli e a uomini dello Stato che pensavamo di aver sepolto nella nostra storia passata. Uomini come Federico Umberto d'Amato, a capo dell'Ufficio Affari Riservati, una sorta di servizio segreto del Viminale, uomo di cerniera tra l’Italia e la Nato, piduista. Il suo ufficio è stato ritenuto responsabile, tra le altre cose, dei depistaggi all'indomani della strage di Milano, il 12 dicembre 1969, con la falsa pista che incolpava gli anarchici e la velina che definiva perfino Yves Guerin Serac come anarchico.
Mescolare il vero e il non vero, in modo da rendere difficile se non impossibile risalire alla verità.
Tutto ruota attorno alle carte, alle sentenze, ai passaggi dell'ultimo processo, conclusosi nell'aprile 2023 in primo grado (e dei precedenti processi chiaramente): interi passaggi vengono riportati, in modo che anche il lettore possa rendersi conto di come i giudici e i magistrati sono arrivati a stabilire le responsabilità dei sogetti imputati. Ma va dato atto all'autore di essere riuscito a non essere "pesante" nel racconto: chi vuole farsi una conoscenza sui fatti di Bologna, sui depistaggi, sui perché dei depistaggi e, cosa ancora più importante, sul perché di questa strage, può partire da questo libro.
Non mi soffermo sulle responsabilità, ormai acclarate, chiare e definitive, dei neofascisti condannati per la strage: nonostante ancora oggi il fronte innocentista (che trova sponda anche nella maggioranza di governo) non si sia rassegnato alla definizione di bomba "fascista", le loro responsabilità sono oltre ogni ragionevole dubbio. Ancora una volta, se volete leggere un approfondimento sulle prove che hanno portato alle condanne di Mambro, Fioravanti (assieme a Ciavardini e Cavallini, condannati ma non ancora in via definitiva), potete leggere il capitolo su Bologna nel libro "La ragazza di Gladio" di Paolo Biondani.
I colpevoli sono loro. Punto.
Quello che mancava fino al 2023 erano i perché: era una sentenza monca, quella che ha condannato i Nar, terroristi contro il sistema ma in realtà, finanziati e aiutati da pezzi dei servizi e della massoneria deviata, altro che spontaneisti. Si ritiene, spiega Morando, che siano addirittura stati creati dai servizi, quella parte che viene definita deviata, ovvero al servizio di interessi al di fuori del dettato costituzionale.
Se siamo arrivati a questo è grazie al lavoro e all'impegno della Procura Generale di Bologna, che ha avocato a sé il processo dopo la richiesta di archiviazione della procura. Ma soprattutto dobbiamo dire grazie all'impegno delle parti civili, avvocati e familiari dell'associazione vittime di Bologna che non hanno mai smesso di cercarla questa verità, di proteggere le sentenze di condanna dai continui despitaggi, ancora oggi.
Depistaggi che non finiranno, perché quella di Bologna è una pagina nera della nostra storia che racconta della doppia fedeltà di pezzi delle nostre istituzioni, di come siamo stati (ma è giusto usare il passato?) un paese a sovranità molto limitata.
Anche a prezzo della vita di 85 persone.
Sono state le parti civili a far ritrovare il documento "Bologna", sequestrato in Svizzera a Licio Gelli, dominus della P2 e, secondo molti storici, dominus anche dei nostri servizi segreti a cavallo degli anni settanta e ottanta. Su quel pezzo di carta, ripiegato in quattro, c'era la scritta Bologna, poi una serie di cifre, movimentazione da un conto corrente della banca UBS (Bologna 525779 –X.S.).
Soldi, che si è scoperto poi, sono finiti su conti riconducibili ai Nar, al direttore dell'Ufficio Affari Riservati, un potente uomo dentro il mondo dei servizi e al giornalista Mario Tedeschi, senatore del MSI ma anche giornalista de il Borghese, giornale su cui vennero pubblicati articoli a sostegno della fantomatica pista palestinese, pista che tutte le sentenze hanno smontato pezzo per pezzo.
Se non sono stati i NAR, come mai i servizi, controllati dalla P2 di Gelli, si sono mossi sin da subito, per sviare le indagini e sostenere così la loro innocenza? Anche le sentenze di condanna a Gelli e a pezzi del Sismi (il vecchio servizio segreto militare) sono passate in giudicato: stiamo parlando dell'operazione "terrore sui treni" con cui furono fatti trovare, nel gennaio 1981, sul treno Taranto Milano delle bombe con la stessa micidiale composizione di quella di Bologna. Come facevano i servizi a conoscere la giusta composizione della bomba del 2 agosto, visto che i periti non avevano ancora depositato i loro risultati?
Quel documento, che Gelli conservava con cura nel suo portafoglio ripiegato in quattro, non era mai arrivato ai magistrati di Bologna: era stato inviato dalla Guardia di Finanza ai magistrati milanesi ma senza riportare l'intera scritta "Bologna" nonostante in quei mesi del 1987 il processo sulla bomba alla stazione fosse già in corso. Sciatteria, superficialità, oppure un altro tentativo di depistaggio?
Quel documento è arrivato ai magistrati di Bologna grazie al lavoro dell'ex magistrato Claudio Nunziata che ne trovò traccia in un libro dello scrittore inglese e lo riportò all'associazione vittime.
Il documento Bologna fa il paio con un altro, anche questo strategico per comprendere il ruolo e il potere di Gelli: si tratta del documento "artigli": si tratta di una nota scritta da un dirigente del Viminale, da inviare al ministro dell'interno (che nel 1987 quando fu redatta era Amintore Fanfani). In questa nota si riassume un incontro avvenuto al Viminale tra l'avvocato di Licio Gelli, in quel momento già sotto processo per la strage, e il capo della polizia Parisi (che era stato anche direttore del Sisde).
Cosa c'è scritto in quel documento, così segreto da non venire nemmeno archiviato (tanto che fu trovato anni dopo nell'archivio in via Appia del Viminale)?
“Se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli, allora quei pochi che ha, li tirerà fuori tutti”.
Il messaggio, anzi, il ricatto che Gelli per tramite del suo avvocato, fa allo stato italiano, è questo: non fatemi domande scomode su Bologna, in particolare facendo riferimento al documento "Bologna" che gli era stato sequestrato, altrimenti tiro fuori gli artigli anche io.
Inizio a parlare - fa capire Gelli - dei miei rapporti con lo stato, coi servizi, magari tirando fuori altri elenchi compromettenti, come la lista completa degli appartenenti alla Loggia P2.
Gelli chiedeva solo di poter morire in pace nel suo letto, cosa che puntualmente avvenne nel 2015: per il depistaggio, per le sue responsabilità in questa strage (scoperte anni dopo, certo), Gelli non ha scontato un giorno di prigione in Italia. Il suo ricatto ha funzionato.
Ma adesso da questi due documenti sappiamo: sappiamo come è maturata questa strage e perché è stata fatta.
La corte di Assise d'Appello di Bologna ha riportato quasi completamente la memoria presentata dall'Avvocatura di Stato, che ha ricostruito il contesto di quegli anni: erano gli anni in cui l'esperimento del centro sinistra andava a morire, Gelli e la sua P2 era riuscito a tenere sotto controllo il caso Moro, mettendo davanti la ragione di stato e lo status quo alla vita del presidente DC.
Erano gli anni in cui i repubblicani si apprestavano a vincere le elezioni nel 1980, con Ronald Reagan e Bush sr alla Cia: da una parte Gelli comprende che per preparare il terreno a questa destra deve continuare la sua opera di destabilizzazione del paese, in modo da poter conquistare più potere nei confronti degli americani. E dunque i finanziamenti ai Nar, iniziati nel 1979, gli attentati, i delitti politici.
Dall'altra parte gli americani comprendono - continua la corte d'Assise nelle sue motivazioni - che Gelli va deposto, va messo fine al suo potere: inizia una campagna contro di lui, viene tirato fuori dai servizi (quelli che lui controllava) il dossier Cominform, dove Gelli è presentato come spia dell'est. Tutto falso, ma è uno strumento (in cui viene coinvolto il giornalista di OP Mino Pecorelli) utile a intorbidire le acque.
Scrivono i giudici nelle motivazioni:
«si può tuttavia già notare che la strage del 1980 non fu che la prosecuzione della strategia della tensione inaugurata nel 1969 in Italia e che non fu l'ultima tappa della violenza politica che continuò a funestare l'Italia».
Nell'ultimo filone del processo è stato condannato anche Paolo Bellini: è stato riconosciuto in un frame di un video girato da un turista tedesco nei momenti successivi alla strage: quel video, in VHS, fu inviato poi ai magistrati bolognesi, da questo furono estratte diverse foto. Solo nel 2019 un avvocato di parte civile si accorse che solo parte di quelle foto erano state analizzate dai giudici. Guarda caso mancava un pezzo dove all'improvviso compare un uomo, che somiglia molto a Paolo Bellini.
Strana figura, la sua: esponente di avanguardia nazionale, latitante dopo diversi omicidi per la ndrangheta, ritornato in Italia sotto falso nome.
Il padre era un fascista convinto che, dice Bellini figlio, lo voleva spingere per entrare nei servizi.
Entra però, come afferma la sentenza di primo grado, in questa strage, come entrerà anni più tardi nel periodo stragista della mafia (non come responsabile, ma per aver suggerito le opere d'arte come obiettivo di attentati), nel 1993 con le bombe a Firenze, Roma e Milano.
Ma questa è un'altra storia, o forse no.
La storia dei processi sulla strage di Bologna ci da una lezione importante: sebbene molti dei responsabili siano morti, non è mai troppo tardi per arrivare ad una verità, per dare giustizia alle vittime e per inchiodare alle loro responsabilità i mandanti di queste trame nere che, ogni giorno, diventano sempre meno oscure, sempre prendendo spunto dalle motivazioni della sentenza
“anche coloro che si resero verosimilmente mandanti e/o finanziatori della strage, pur senza appartenere in modo diretto a gruppi neofascisti, condividevano i predetti obiettivi antidemocratici di fondo ed ambivano all’instaurazione di uno Stato autoritario, nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse”.
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