LA CAMPAGNA D’ALBANIA Di Giorgio Mottola
La
presidente Meloni è disposta a mettere una mano su Edi Rama e sulla
bontà del progetto sui centri per i migranti in Albania: il servizio
di Report è stato un linciaggio, così ha detto.
Anche ad Edi
Rama il servizio di Report non è piaciuto, è stato definito
schifoso: così per sciogliere i punti sospesi Report ha chiesto una
intervista alla presidente Meloni e al premier Edi Rama, la prima non
ha accettato mentre Edi Rama ha accettato tutte le domande fatte.
Una
bella lezione di cultura politica, nonostante tutto, da parte di Edi
Rama all’amica Meloni.
Nonostante le promesse e le
rassicurazioni di ministri vari, i centri non sono pronti oggi:
Report è tornato in
Albania, nella vecchia base militare di Gjader
costruita negli anni
settanta durante la dittatura comunista: l’area è ancora un
cantiere aperto, di lavoro da fare sembra essercene ancora tanto.
I
giornalisti non sono stati ammessi a visitare il cantiere (anche il
deputato Bonelli
ha avuto difficoltà a visitare l’hot spot di Schengjin): i lavori
finiranno a novembre racconta un operaio, ma intanto i costi
continuano ad aumentare se dai 39 ml di euro previsti inizialmente
siamo passati a 66 ml, con l’ultimo decreto inserito nel pnrr.
A
chi andranno questi soldi? Report ha scoperto che in cantiere sono
presenti gli uffici temporanei di una azienda italiana che finora non
era presente nei documenti resi pubblici dal governo, la Ri Group
SPA: l’azienda gestirà i prefabbricati nella struttura.
Questa
ditta leccese è specializzata in prefabbricati ed
è controllata
dall’imprenditore Salvatore Tafuro, rinviato a giudizio nel 2018 in
una indagine per turbativa d’asta e corruzione di alti ufficiali
dell’aeronautica militare per un appalto da 1,5 ml di euro per il
CIE di Foggia, procedimento
finito in prescrizione nel 2019.
Il ministero della Difesa ha assegnato i lavori alla sua azienda per
la posa dei prefabbricati nel centro albanese, per un totale di 6,5
ml di euro.
Al porto di
Schengjin i
lavori sono già avanti: sembra un carcere la struttura che stanno
costruendo.
I lavori di gestione dei migranti sono
affidati (con un ribasso del
4,9%) alla Medihospes, una
cooperativa che si occupa di accoglienza migranti in Italia e in
particolare a Roma. La sede
legale è a Roma ma il suo quartier generale è a Bari in un piccolo
fortino protetto da un muretto e vetri oscurati: questa cooperativa
nasce dalle ceneri de La Cascina, fondata negli anni 70 da Comunione
e Liberazione: era l’avamposto più importante del potere e del
cooperativismo di CL, dove si è mossa sempre tenendo saldi rapporti
con la politica, per anni ha finanziato economicamente sia il PDL che
il PD, con un occhio di riguardo ai ciellini doc come Maurizio Lupi.
Poi però nel 2015 è
arrivata l’inchiesta mafia capitale che ha svelato le pericolose
relazioni tra La Cascina e il mondo di mezzo di Massimo Carminati
costringendo i vertici della coop a patteggiare in Tribunale per
corruzione.
Filippo Miraglia è il responsabile di ARCI
immigrazione e conosce bene questa storia: con la condanna non
finisce l’esperienza de La Cascina perché compare spesso assieme a
Medihospes nelle gare in giro per l’ITalia (per gli appalti nella
gestione dei migranti), “di fatto è una derivazione, anche se
adesso Medihospes è diventata una organizzazione molto più grossa
nella gestione dell’accoglienza.”
Così, se l’immagine de
La Cascina è stata bruciata dall’inchiesta Mafia Capitale, le
attività del gruppo continuano sotto le insegne di altre aziende
satellite, come Medihospes appunto, presieduta da Camillo Aceto,
dirigente ciellino. Sotto la sua direzione è diventata un colosso
nell’accoglienza dei migranti: secondo il rapporto di Open Polis,
Medihospes gestisce circa l’80% delle strutture ricettive destinate
ai richiedenti asilo. Così se nel 2015 fatturava 26 ml di euro, nel
2022 grazie soprattutto ai finanziamenti statali è arrivata ad
incassare 127 ml di euro.
C’è un rapporto stretto tra
prefettura di Roma e Medihospes? Sicuramente
è il principale gestore sul territorio romano, e la gara d’appalto
per la gestione dei centri in Albania è stata gestita proprio dalla
prefettura capitolina.
Grazie a questo appalto in
Albania nei prossimi cinque
anni il bilancio di Medihospes crescerà di altri 133ml di euro. Il
segreto del successo di questa cooperativa lo può spiegare il
presidente: alla richiesta di una intervista da parte del giornalista
ha risposto al telefono
che è meglio di no, “essendoci una procedura di gara in corso”.
Il
giornalista Fabrizio Gatti aveva raccontato un un servizio su
l’Espresso della situazione del centro per migranti di Foggia
gestito dalla Medihospes, ma nonostante questo tutto andrà avanti,
in Italia e anche in Albania.
L’Albania
non è il paese del narcotraffico: di fronte allo stato maggiore del
partito, la presidente Meloni si è lanciata contro Report, invece di
ringraziare l’Albania che accoglie (a pagamento) i migranti, il
servizio pubblico ha fatto un linciaggio su Edi Rama e su questo
paese..
Ma l’allarme sull’Albania lo lanciano in tanti,
compreso Francesco Giubilei che sul Giornale descriveva questo paese
come “narco stato”, stesso giudizio di Zemour, compagno di gruppo
in Europa di Meloni.
Così si arriva all’intervista
riparatoria, che forse non è stata riparatoria: nella precedente
inchiesta Report aveva raccontato dei rapporti tra membri del governo
con esponenti della mafia albanese.
Il potere della mafia
albanese è cresciuto, ha ammesso il premier, perché è una mafia
internazionale, non è più una mafia nazionale.
La mafia c’è
in Albania, ma non tocca la politica, questa è l’unica ammissione
di Rama che si è arrabbiato quando è stato toccato il tasto
dell’inchiesta sul fratello.
Ma qual è la situazione in
Albania? Basta andare in Albania e vedere quante torri sono state
costruite, con quali soldi, negli ultimi anni (anni in cui sindaco
era Edi Rama).
Lo scrittore Lubonja parla chiaro: per costruire
questi palazzi sono stati chiamati i migliori architetti, senza tener
conto dei vincoli, ma non si conosce l’origine dei soldi con cui
sono stati realizzati i palazzi.
In Albania i soldi non sono
arrivati dai prestiti delle banche, dei 3,7 miliardi di euro
investiti in edilizia, solo 800 ml di euro arrivano dalle banche:
secondo la giornalista Ola Xama i soldi sono arrivati dalla mafia,
che ha riciclato i suoi soldi nell’edilizia.
No, risponde Edi
Rama, i soldi sono arrivati dagli albanesi che vivono fuori dalla
nazione: è finita la fase calabrese quando la ndrangheta comprava
cash le case..
Ma
purtroppo i dati smentiscono il premier: dall’estero, dai risparmi
dei migranti, sono arrivati solo 800 ml, un po’ poco per costruire
le torri avveniristiche di Tirana.
Il boom edilizio è arrivato
dopo la crescita nel settore della droga delle mafie albanesi, per le
tante piantagioni di marijuana
che spuntavano nel paese.
Su questo punto ha accettato di
parlare l’ex ministro Ahmetaj, ex appartenente della cerchia di Edi
Rama, oggi scappato in Svizzera dopo aver ricevuto delle accuse di
tangenti per la costruzione di inceneritori: oggi Ahmetaj è il
grande accusatore di Edi Rama, parla di un coordinamento tra le
organizzazioni mafiosi su cui garantisce Edi Rama, che ha chiesto
loro di interrompere la guerra.
L’ex ministro fa il nome di un
imprenditore a Durazzo, Agasi: attraverso Agasi Edi Rama avrebbe
rapporti coi mafiosi che incontrerebbe perfino nel suo ufficio.
Tutte
queste accuse non sono mai state oggetto di procedimenti penali e di
indagini: sono solo calunnie dell’ex delfino, spiega Edi Rama
nell’intervista, la fonte di Report è una fonte inquinata.
Edi
Rama respinge tutte le accuse, compresa quella per cui Agasi sarebbe
il suo uomo ombra (come scrivono anche dei media albanesi di
opposizione), “solo una vendetta di uno che ha perso il posto”.
Ci
sono poi i rapporti tra imprenditori italiani e l’Albania: sono
imprenditori vicini all’avvocato Agaci, che come professionista
aveva difeso dei narcotrafficanti albanesi.
Nel passato servizio
di Report si parlava di un ruolo da mediatore tra Agaci nell’acquisto
di un terreno da parte di un ufficiale della Dia che lavorava in
Albania.
Agaci ha molti amici in Italia, compreso Massimo
D’Alema: “uno dei più grandi statisti del dopo guerra fredda”,
il rapporto tra Edi Rama e D’Alema è cresciuto negli anni in cui
era presidente del Consiglio.
Secondo l’ex vicepremier Ahmetaj
però D’Alema è prima di tutto un lobbista: in Albania c’è una
sua azienda che offre servizi di consulenza alle aziende che vogliono
lavorare in questo paese.
Come
si concilia il vecchio Marx con l’attività di lobbying in favore
delle imprese? “Non è il luogo per le domande” la risposta di
D’Alema.
Non ci sarebbe nulla da nascondere, basterebbe un
minimo di trasparenza: spiegare come mai abbia aperto in Albania una
società simile a quella che aveva già in Italia, se è vero che
faccia consulenza per società che si occupano di criptovalute..
Di
criptovalute si occupa Consulcesi, società fondata da un ex socio di
D’Alema, Massimo Tortorella: nel 2019, D’Alema e Rama tennero
insieme a battesimo l’avvio delle attività a Tirana di Consulcesi
Tech, partecipando a un convegno sulle blockchain.
Casualmente
il governo Rama ha reso obbligatoria la formazione dei medici,
proprio un settore in cui lavora Consulcesi.
Oltre
a D’Alema, anche il ministro per le imprese Urso qualche anno fa è
sbarcato a Tirana. Nel 2015, come aveva rivelato Report, l’attuale
ministro faceva consulenza per le aziende dell’imprenditore
Becchetti, il proprietario della TV albanese Agon Channel.
Becchetti
è un criminale condannato dalla legge albanese – è stato il
commento di Edi Rama.
Dopo
essere caduto in disgrazia in Albania Francesco Becchetti sostiene di
aver perso non solo l’appoggio professionale ma anche l’amicizia
di Adolfo Urso, che proprio in quel periodo avrebbe instaurato un
rapporto di grande cordialità e intesa col primo ministro albanese.
Ad un commento su questa vicenda il ministro se l’è cavata
rispondendo “io sto sempre dalla parte dell’Italia”.
Fino
ad una decina di
giorni prima del giuramento da ministro, Adolfo Urso era proprietario
della Italian World Services, poi ceduta al figlio Pietro: si tratta
di una società che effettua operazioni di lobbying per le aziende.
Becchetti a Report racconta dell’idea che si è fatta (sul
perché sia starto abbandonato da Urso),
su quello che chiama abbandono di Urso: “se lei prende e valuta gli
interessi che ci sono state in campo, le imprese italiane che sono
state accompagnate da Rama..” che
è la mission della società
della famiglia Urso.
Il
figlio del ministro risulta intestatario della Asigest Broker
Albania, che sembra legata ad una società italiana in un settore
(broker assicurativo) di cui si occupa Urso.
Pietro Urso
accompagna le aziende che vogliono investire in Albania, è anche
titolare di una socitù che si occupa di brokeraggio, ha la sede in
un hotel assieme al suo socio, Canaj, che vanterebbe entrature
politiche. Qui entra in gioco un ex parlamentare, Gaci:
dall’anticipazione del servizio pubblicata da Alessandro
Mantovani sul Fatto
Altri italiani, racconta Report, fanno affari in Albania. Un filo rosso collega Pietro Urso, a capo di una società di lobbying – Italian World Service – dalla quale il padre Adolfo si è sganciato prima di assumere l’incarico di ministro del Made in Italy, al potente ex politico albanese Artan Gaci e allo stesso Rama. Ne parla a Report Francesco Becchetti, il discusso imprenditore romano che aprì il canale Agon Tv a Tirana, fu condannato a 17 anni in Albania e ora però reclama 135 milioni di euro dal governo albanese sulla base di un lodo arbitrale internazionale.
Alla Camera di commercio albanese Urso jr. risulta titolare della Asigest Broker Albania, nome simile all’italiana Asigest Broker spa che opera nel settore assicurativo di competenza del ministero del Made in Italy, un tempo dello Sviluppo economico e guidato appunto da Urso padre. Nella Asigest albanese c’è anche un’altra società di Tirana, la Generate, di proprietà di un certo Andi Canaj, socio anche di altri italiani sulle due sponde dell’Adriatico. Ha conosciuto Pietro Urso, ha spiegato a Report, “con amici… comuni”. Mentre Urso jr. dice di non conoscere il socio. Misteri. Canaj è legato a Gaci: è “suo dipendente” ha confermato a Report. Del resto usa un indirizzo mail di Atcc, società di Gaci.
Non è uno qualsiasi, Gaci. Socialista, vicino al primo ministro, già parlamentare e presidente della commissione di amicizia italo-albanese e marito dell’ex ministra degli Esteri di Rama, Olta Xhacka. Gaci stava costruendo un resort di lusso da oltre 5 milioni di euro a pochi metri dal mare, a Sud di Valona, ma l’operazione è finita al centro di un’inchiesta per corruzione e il cantiere è stato sequestrato dalla magistratura albanese. La spiaggia di fronte è stata concessa in uso esclusivo dal governo, di cui faceva parte la moglie di Gaci, alla società Agtcc Hotel Manager di un uomo legato all’ex politico. Che ha sede allo stesso indirizzo di Generate, la società di Canaj che a sua volta è socia di Pietro Urso.
VERITÀ NASCOSTE PER GIULIO REGENI Di Daniele Autieri
Passano
dieci giorni tra la scomparsa di Giulio Regeni e il suo ritrovamento:
il governo italiano, secondo quanto racconta l’ex ambasciatore
Massari, sarebbe stato informato il 28 gennaio 2016, quando il
ricercatore era torturato dai servizi egiziani.
Ma il governo
egiziani ha sempre negato le responsabilità: Report ha raccolto una
testimonianza di un testimone che invece li inchioda alle loro
colpe.
All’ambasciata sanno che Regeni potrebbe essere nelle
mani dei servizi, sebbene i dinieghi ricevuti.
Dopo la scomparsa
di Regeni, i servizi italiani e americani si mettono in contatto con
la American University per fare delle ricerche, appoggiandosi ad un
generale egiziano Ebeid.
Ma in quelle ore, come ha ricostruito
Report analizzando le tracce del cellulare del professor Gervasio, si
apre un canale parallelo di ricerca che vede come protagonista una
donna, Zena Spinelli, che vantava vaste conoscenze in Egitto.
Un
funzionario dell’ambasciata italiana in Egitto ha raccontato tutta
questa storia a Report: leggendo questi messaggi si capisce che c’è
stata una seconda partita coi servizi che avevano tagliato fuori
Massari.
Zena Spinelli venne a sapere del ritrovamento del
cadavere di Regeni poco dopo l’incontro tra la ministra Guidi e Al
Sisi.
Lo stesso giorno in cui il direttore dell’Aise Manenti
era volato a Il Cairo per incontrare il suo omologo egiziano: secondo
la testimonianza del funzionario dell’ambasciata italiana, i
servizi italiani avrebbe visto Giulio Regeni, non si capisce se vivo
o già morto, e hanno chiesto agli egiziani di restituire il
corpo.
Il 13 febbraio l’ambasciatore convoca il funzionario e
spiega come il loro lavoro, fare pressioni al governo egiziano per
metterli di fronte alle loro responsabilità, debba essere
interrotto. Meglio non andare oltre – ha commentato Sigfrido
Ranucci in studio – anche in nome della ragione di stato.
Ragione di Stato che ha portato, purtroppo, a riconoscere l'Egitto come paese sicuro ovvero un paese che non viola i diritti umani, con un decreto voluto dalla presidente Meloni.
Nonostante le torture sul corpo di Regeni portino la firma dei servizi egiziani. Nonostante il messaggio mostrato dal funzionario dell'ambasciata, che gli sarebbe arrivato dalla lobbista Spinelli, "Regeni non l'abbiamo noi, ma è ancora vivo".
Se arrivi, come migrante, dall'Egitto, diventerà impossibile ottenere l'asilo in Italia, mentre si verrà mandati in Albania, per riempire i centri migranti.
GLI IRRESPONSABILI DEL NAUFRAGIO Di Rosamaria Aquino
Paolo è stato testimone della tragedia di Cutro: a mio figlio cosa racconterò, si chiede?
Report
stasera si è occupata della morte dei 94 migranti a Cutro: erano
famiglie che scappavano dall’Afghanistan in maggior parte, partendo
col barcone dalla Turchia.
È stata solo colpa del cattivo
tempo? Si poteva fare qualcosa per salvare queste persone, non solo
un carico residuale? Quella notte sulla spiaggia di Cutro c’erano
solo 3 pescatori, tra cui Paolo: la barca era ferma a 60 metri dalla
riva, prima di sfracellarsi. LA guardia costiera sapeva di quella
nave, sapeva di quelle persone, ma non fu chiamata in soccorso e la
mattina dopo erano lì a raccogliere i corpi.
Ma, come racconta
l’avvocato delle vittime del naufragio, a sapere della posizione
della nave c’era anche la guardia di finanza e l’aereo di Frontex
che stava sorvolando lo Ionio.
I dati della nave erano
analizzati dagli analisti di Frontex a Varsavia: non era un
peschereccio, era stato rilevato del calore attorno alla nave, era
stata classificata come in una situazione di non rischio, sebbene in
mare ci fossero onde alte.
Ma per capire quale fosse la
situazione in mare Report ha intervistato un superstite della nave:
nel pomeriggio del 25 la situazione del viaggio è iniziata a
peggiorare, quando l’acqua è iniziata ad entrare dentro, creando
il panico a bordo.
La
barca non era in pericolo ma la situazione del mare stava
peggiorando, conferma la mediatrice di Frontex in UE Emily
O’Reilly: la scelta di non
intervenire in soccorso della barca è stata una scelta
politica.
Dunque Frontex sapeva, le autorità italiane sapevano,
perché informate da Frontex, perché nel quartier generale di
Varsavia erano presenti due ufficiali italiani: nessuno era
autorizzato ad intervenire senza il consenso degli stati membri, cioè
noi.
L’Italia ha scelti di non intervenire, non ha lanciato
l’allarme, il segnale SAR: perché la nave galleggiava bene, così
era scritto nei rapporti di Frontex, così l’intervento diventa di
polizia, ovvero per bloccare e arrestare gli scafisti.
Ma anche
il pattugliatore della finanza deve tornare in porto, perché il mare
è mosso e non può procedere nel suo giro: come potevano pensare che
un caicco avrebbe resistito alle onde?
E se su quella nave ci
fossero stati dei terroristi o dei trafficanti di droga?
Sarebbero
stati fatti sbarcare?
Così la guardia costiera non è uscita
(non c’era evento SAR e non è stata chiamata dalla finanza): si
arriva così a ridosso del momento del naufragio, quando però era
troppo tardi.
Come
racconta il giornalista Bruno Palermo, dopo Cutro, tutte le
operazioni sui migranti sono state di Search and Rescue, la guardia
costiera è sempre uscita.
Ma
allora cosa ha portato a quella decisione nel pomeriggio sera del 25
febbraio 2023?
Bisogna tornare a 8 mesi prima, il 27 giugno
2022, dalla centrale operativa della guardia costiera parte una mail
a quella di Crotone dove è scritto che “a seguito di tavoli
tecnici interministeriali il livello politico ha impartito nuove
disposizioni tattiche ..”, la guardia costiera avrebbe potuto
uscire in mare per un intervento diretto solo in caso di evento SAR
(search and rescue): prima di quella mail si pensava a salvarli e poi
se c’erano degli scafisti, ad arrestarli – commenta sempre
Palermo – con questa mail si invertono queste due cose, li andiamo
a prendere per arrestare e poi vediamo se li possiamo salvare. La
mail è firmata dal capocentro di Roma Gianluca D’Agostino e fa
riferimento ad un accordo tecnico del 2003 che spiega quando
interviene la guardia di finanza e quando la guardia costiera. Ma
perché c’è bisogno di ribardirlo?
In quella mail D’Agostino
ribadiva che prima di fare un intervento di salvataggio occorreva che
vi fosse stata la dichiarazione dell’evento SAR , lasciando
intendere che questa dichiarazione dovesse venire dalla centrale
operativa di Roma – spiega a Report una fonte anonima dentro la
guardia costiera – “quella mail è una vera e propria
abdicazione, se la politica ingerisce nel livello tattico crea un
corto circuito di responsabilità, per cui rimane responsabile il
livello tattico, ma le decisioni sono prese da un’altra parte.”
E’ stata una scelta politica – come faceva intendere la
mediatrice in UE di Frontex?
“Io voglio sapere da Roma chi non
ha dato l’ordine o chi ha dato l’ordine di rientro, il problema è
a Roma non è a Crotone” è la richiesta dell’ex dirigente medico
della polizia di Stato Orlando Amodeo.
Vittorio
Aloi ha comandato la guardia costiera fino alla tragedia di Cutro:
chi ha preso la decisione di non uscire quella sera – è stata la
domanda posta da Report.
Il
comandante non ha voluto rispondere, rimandando tutto alle scelte del
comando generale a Roma: si intuisce la difficoltà nel dover
rispondere a domande difficile, nel sentirsi messi in mezzo tra Roma
e i tuoi uomini e il dovere di salvare le persone in mare.
Sarebbe
bene togliere il discriminante tra azione di law enforcement e SAR,
come riteneva fosse corretto il comandante generale della guardia
costiera Carlone (anche in una audizione alla Camera nel 2017).
La
commissaria europea per i diritti umani aveva chiesto di considerare
ogni barcone in crisi, già dal momento della partenza: ma i tempi
sono cambiati, alla fine quella sera ha deciso tutto una mail del
2022, che si rifaceva ad una norma del 2002, governo Berlusconi.
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