02 giugno 2024

Report - l’intervista ad Edi Rama, Giulio Regeni e il ruolo della politica dietro Cutro

LA CAMPAGNA D’ALBANIA Di Giorgio Mottola

La presidente Meloni è disposta a mettere una mano su Edi Rama e sulla bontà del progetto sui centri per i migranti in Albania: il servizio di Report è stato un linciaggio, così ha detto.
Anche ad Edi Rama il servizio di Report non è piaciuto, è stato definito schifoso: così per sciogliere i punti sospesi Report ha chiesto una intervista alla presidente Meloni e al premier Edi Rama, la prima non ha accettato mentre Edi Rama ha accettato tutte le domande fatte.
Una bella lezione di cultura politica, nonostante tutto, da parte di Edi Rama all’amica Meloni.
Nonostante le promesse e le rassicurazioni di ministri vari, i centri non sono pronti oggi:
Report è tornato in Albania, nella vecchia base militare di Gjader costruita negli anni settanta durante la dittatura comunista: l’area è ancora un cantiere aperto, di lavoro da fare sembra essercene ancora tanto.
I giornalisti non sono stati ammessi a visitare il cantiere (anche il deputato Bonelli ha avuto difficoltà a visitare l’hot spot di Schengjin): i lavori finiranno a novembre racconta un operaio, ma intanto i costi continuano ad aumentare se dai 39 ml di euro previsti inizialmente siamo passati a 66 ml, con l’ultimo decreto inserito nel pnrr.
A chi andranno questi soldi? Report ha scoperto che in cantiere sono presenti gli uffici temporanei di una azienda italiana che finora non era presente nei documenti resi pubblici dal governo, la Ri Group SPA: l’azienda gestirà i prefabbricati nella struttura.

Questa ditta leccese è specializzata in prefabbricati ed è controllata dall’imprenditore Salvatore Tafuro, rinviato a giudizio nel 2018 in una indagine per turbativa d’asta e corruzione di alti ufficiali dell’aeronautica militare per un appalto da 1,5 ml di euro per il CIE di Foggia, procedimento finito in prescrizione nel 2019. Il ministero della Difesa ha assegnato i lavori alla sua azienda per la posa dei prefabbricati nel centro albanese, per un totale di 6,5 ml di euro.
Al porto di Schengjin i lavori sono già avanti: sembra un carcere la struttura che stanno costruendo.

I lavori di gestione dei migranti sono affidati
(con un ribasso del 4,9%) alla Medihospes, una cooperativa che si occupa di accoglienza migranti in Italia e in particolare a Roma. La sede legale è a Roma ma il suo quartier generale è a Bari in un piccolo fortino protetto da un muretto e vetri oscurati: questa cooperativa nasce dalle ceneri de La Cascina, fondata negli anni 70 da Comunione e Liberazione: era l’avamposto più importante del potere e del cooperativismo di CL, dove si è mossa sempre tenendo saldi rapporti con la politica, per anni ha finanziato economicamente sia il PDL che il PD, con un occhio di riguardo ai ciellini doc come Maurizio Lupi.
Poi però nel 2015 è arrivata l’inchiesta mafia capitale che ha svelato le pericolose relazioni tra La Cascina e il mondo di mezzo di Massimo Carminati costringendo i vertici della coop a patteggiare in Tribunale per corruzione.
Filippo Miraglia è il responsabile di ARCI immigrazione e conosce bene questa storia: con la condanna non finisce l’esperienza de La Cascina perché compare spesso assieme a Medihospes nelle gare in giro per l’ITalia (per gli appalti nella gestione dei migranti), “di fatto è una derivazione, anche se adesso Medihospes è diventata una organizzazione molto più grossa nella gestione dell’accoglienza.”
Così, se l’immagine de La Cascina è stata bruciata dall’inchiesta Mafia Capitale, le attività del gruppo continuano sotto le insegne di altre aziende satellite, come Medihospes appunto, presieduta da Camillo Aceto, dirigente ciellino. Sotto la sua direzione è diventata un colosso nell’accoglienza dei migranti: secondo il rapporto di Open Polis, Medihospes gestisce circa l’80% delle strutture ricettive destinate ai richiedenti asilo. Così se nel 2015 fatturava 26 ml di euro, nel 2022 grazie soprattutto ai finanziamenti statali è arrivata ad incassare 127 ml di euro.
C’è un rapporto stretto tra prefettura di Roma e Medihospes?
Sicuramente è il principale gestore sul territorio romano, e la gara d’appalto per la gestione dei centri in Albania è stata gestita proprio dalla prefettura capitolina.
Grazie a questo appalto
in Albania nei prossimi cinque anni il bilancio di Medihospes crescerà di altri 133ml di euro. Il segreto del successo di questa cooperativa lo può spiegare il presidente: alla richiesta di una intervista da parte del giornalista ha risposto al telefono che è meglio di no, “essendoci una procedura di gara in corso”.
Il giornalista Fabrizio Gatti aveva raccontato un un servizio su l’Espresso della situazione del centro per migranti di Foggia gestito dalla Medihospes, ma nonostante questo tutto andrà avanti, in Italia e anche in Albania.

L’Albania non è il paese del narcotraffico: di fronte allo stato maggiore del partito, la presidente Meloni si è lanciata contro Report, invece di ringraziare l’Albania che accoglie (a pagamento) i migranti, il servizio pubblico ha fatto un linciaggio su Edi Rama e su questo paese..
Ma l’allarme sull’Albania lo lanciano in tanti, compreso Francesco Giubilei che sul Giornale descriveva questo paese come “narco stato”, stesso giudizio di Zemour, compagno di gruppo in Europa di Meloni.

Così si arriva all’intervista riparatoria, che forse non è stata riparatoria: nella precedente inchiesta Report aveva raccontato dei rapporti tra membri del governo con esponenti della mafia albanese.
Il potere della mafia albanese è cresciuto, ha ammesso il premier, perché è una mafia internazionale, non è più una mafia nazionale.
La mafia c’è in Albania, ma non tocca la politica, questa è l’unica ammissione di Rama che si è arrabbiato quando è stato toccato il tasto dell’inchiesta sul fratello.

Ma qual è la situazione in Albania? Basta andare in Albania e vedere quante torri sono state costruite, con quali soldi, negli ultimi anni (anni in cui sindaco era Edi Rama).
Lo scrittore Lubonja parla chiaro: per costruire questi palazzi sono stati chiamati i migliori architetti, senza tener conto dei vincoli, ma non si conosce l’origine dei soldi con cui sono stati realizzati i palazzi.
In Albania i soldi non sono arrivati dai prestiti delle banche, dei 3,7 miliardi di euro investiti in edilizia, solo 800 ml di euro arrivano dalle banche: secondo la giornalista Ola Xama i soldi sono arrivati dalla mafia, che ha riciclato i suoi soldi nell’edilizia.
No, risponde Edi Rama, i soldi sono arrivati dagli albanesi che vivono fuori dalla nazione: è finita la fase calabrese quando la ndrangheta comprava cash le case..

Ma purtroppo i dati smentiscono il premier: dall’estero, dai risparmi dei migranti, sono arrivati solo 800 ml, un po’ poco per costruire le torri avveniristiche di Tirana.
Il boom edilizio è arrivato dopo la crescita nel settore della droga delle mafie albanesi, per le tante piantagioni di mari
juana che spuntavano nel paese.
Su questo punto ha accettato di parlare l’ex ministro Ahmetaj, ex appartenente della cerchia di Edi Rama, oggi scappato in Svizzera dopo aver ricevuto delle accuse di tangenti per la costruzione di inceneritori: oggi Ahmetaj è il grande accusatore di Edi Rama, parla di un coordinamento tra le organizzazioni mafiosi su cui garantisce Edi Rama, che ha chiesto loro di interrompere la guerra.
L’ex ministro fa il nome di un imprenditore a Durazzo, Agasi: attraverso Agasi Edi Rama avrebbe rapporti coi mafiosi che incontrerebbe perfino nel suo ufficio.
Tutte queste accuse non sono mai state oggetto di procedimenti penali e di indagini: sono solo calunnie dell’ex delfino, spiega Edi Rama nell’intervista, la fonte di Report è una fonte inquinata.
Edi Rama respinge tutte le accuse, compresa quella per cui Agasi sarebbe il suo uomo ombra (come scrivono anche dei media albanesi di opposizione), “solo una vendetta di uno che ha perso il posto”.

Ci sono poi i rapporti tra imprenditori italiani e l’Albania: sono imprenditori vicini all’avvocato Agaci, che come professionista aveva difeso dei narcotrafficanti albanesi.
Nel passato servizio di Report si parlava di un ruolo da mediatore tra Agaci nell’acquisto di un terreno da parte di un ufficiale della Dia che lavorava in Albania.
Agaci ha molti amici in Italia, compreso Massimo D’Alema: “uno dei più grandi statisti del dopo guerra fredda”, il rapporto tra Edi Rama e D’Alema è cresciuto negli anni in cui era presidente del Consiglio.
Secondo l’ex vicepremier Ahmetaj però D’Alema è prima di tutto un lobbista: in Albania c’è una sua azienda che offre servizi di consulenza alle aziende che vogliono lavorare in questo paese.
Come si concilia il vecchio Marx con l’attività di lobbying in favore delle imprese? “Non è il luogo per le domande” la risposta di D’Alema.
Non ci sarebbe nulla da nascondere, basterebbe un minimo di trasparenza: spiegare come mai abbia aperto in Albania una società simile a quella che aveva già in Italia, se è vero che faccia consulenza per società che si occupano di criptovalute..
Di criptovalute si occupa Consulcesi, società fondata da un ex socio di D’Alema, Massimo Tortorella: nel 2019, D’Alema e Rama tennero insieme a battesimo l’avvio delle attività a Tirana di Consulcesi Tech, partecipando a un convegno sulle blockchain.

Casualmente il governo Rama ha reso obbligatoria la formazione dei medici, proprio un settore in cui lavora Consulcesi.

Oltre a D’Alema, anche il ministro per le imprese Urso qualche anno fa è sbarcato a Tirana. Nel 2015, come aveva rivelato Report, l’attuale ministro faceva consulenza per le aziende dell’imprenditore Becchetti, il proprietario della TV albanese Agon Channel.
Becchetti è un criminale condannato dalla legge albanese – è stato il commento di Edi Rama.

Dopo essere caduto in disgrazia in Albania Francesco Becchetti sostiene di aver perso non solo l’appoggio professionale ma anche l’amicizia di Adolfo Urso, che proprio in quel periodo avrebbe instaurato un rapporto di grande cordialità e intesa col primo ministro albanese.
Ad un commento su questa vicenda il ministro se l’è cavata rispondendo “io sto sempre dalla parte dell’Italia”.
Fino a
d una decina di giorni prima del giuramento da ministro, Adolfo Urso era proprietario della Italian World Services, poi ceduta al figlio Pietro: si tratta di una società che effettua operazioni di lobbying per le aziende. Becchetti a Report racconta dell’idea che si è fatta (sul perché sia starto abbandonato da Urso), su quello che chiama abbandono di Urso: “se lei prende e valuta gli interessi che ci sono state in campo, le imprese italiane che sono state accompagnate da Rama..” che è la mission della società della famiglia Urso.

Il figlio del ministro risulta intestatario della Asigest Broker Albania, che sembra legata ad una società italiana in un settore (broker assicurativo) di cui si occupa Urso.
Pietro Urso accompagna le aziende che vogliono investire in Albania, è anche titolare di una socitù che si occupa di brokeraggio, ha la sede in un hotel assieme al suo socio, Canaj, che vanterebbe entrature politiche. Qui entra in gioco un ex parlamentare, Gaci: dall’anticipazione del servizio pubblicata da Alessandro Mantovani sul Fatto

Altri italiani, racconta Report, fanno affari in Albania. Un filo rosso collega Pietro Urso, a capo di una società di lobbying – Italian World Service – dalla quale il padre Adolfo si è sganciato prima di assumere l’incarico di ministro del Made in Italy, al potente ex politico albanese Artan Gaci e allo stesso Rama. Ne parla a Report Francesco Becchetti, il discusso imprenditore romano che aprì il canale Agon Tv a Tirana, fu condannato a 17 anni in Albania e ora però reclama 135 milioni di euro dal governo albanese sulla base di un lodo arbitrale internazionale.

Alla Camera di commercio albanese Urso jr. risulta titolare della Asigest Broker Albania, nome simile all’italiana Asigest Broker spa che opera nel settore assicurativo di competenza del ministero del Made in Italy, un tempo dello Sviluppo economico e guidato appunto da Urso padre. Nella Asigest albanese c’è anche un’altra società di Tirana, la Generate, di proprietà di un certo Andi Canaj, socio anche di altri italiani sulle due sponde dell’Adriatico. Ha conosciuto Pietro Urso, ha spiegato a Report, “con amici… comuni”. Mentre Urso jr. dice di non conoscere il socio. Misteri. Canaj è legato a Gaci: è “suo dipendente” ha confermato a Report. Del resto usa un indirizzo mail di Atcc, società di Gaci.

Non è uno qualsiasi, Gaci. Socialista, vicino al primo ministro, già parlamentare e presidente della commissione di amicizia italo-albanese e marito dell’ex ministra degli Esteri di Rama, Olta Xhacka. Gaci stava costruendo un resort di lusso da oltre 5 milioni di euro a pochi metri dal mare, a Sud di Valona, ma l’operazione è finita al centro di un’inchiesta per corruzione e il cantiere è stato sequestrato dalla magistratura albanese. La spiaggia di fronte è stata concessa in uso esclusivo dal governo, di cui faceva parte la moglie di Gaci, alla società Agtcc Hotel Manager di un uomo legato all’ex politico. Che ha sede allo stesso indirizzo di Generate, la società di Canaj che a sua volta è socia di Pietro Urso.

VERITÀ NASCOSTE PER GIULIO REGENI Di Daniele Autieri

Passano dieci giorni tra la scomparsa di Giulio Regeni e il suo ritrovamento: il governo italiano, secondo quanto racconta l’ex ambasciatore Massari, sarebbe stato informato il 28 gennaio 2016, quando il ricercatore era torturato dai servizi egiziani.
Ma il governo egiziani ha sempre negato le responsabilità: Report ha raccolto una testimonianza di un testimone che invece li inchioda alle loro colpe.
All’ambasciata sanno che Regeni potrebbe essere nelle mani dei servizi, sebbene i dinieghi ricevuti.
Dopo la scomparsa di Regeni, i servizi italiani e americani si mettono in contatto con la American University per fare delle ricerche, appoggiandosi ad un generale egiziano Ebeid.
Ma in quelle ore, come ha ricostruito Report analizzando le tracce del cellulare del professor Gervasio, si apre un canale parallelo di ricerca che vede come protagonista una donna, Zena Spinelli, che vantava vaste conoscenze in Egitto.
Un funzionario dell’ambasciata italiana in Egitto ha raccontato tutta questa storia a Report: leggendo questi messaggi si capisce che c’è stata una seconda partita coi servizi che avevano tagliato fuori Massari.
Zena Spinelli venne a sapere del ritrovamento del cadavere di Regeni poco dopo l’incontro tra la ministra Guidi e Al Sisi.
Lo stesso giorno in cui il direttore dell’Aise Manenti era volato a Il Cairo per incontrare il suo omologo egiziano: secondo la testimonianza del funzionario dell’ambasciata italiana, i servizi italiani avrebbe visto Giulio Regeni, non si capisce se vivo o già morto, e hanno chiesto agli egiziani di restituire il corpo.
Il 13 febbraio l’ambasciatore convoca il funzionario e spiega come il loro lavoro, fare pressioni al governo egiziano per metterli di fronte alle loro responsabilità, debba essere interrotto. Meglio non andare oltre – ha commentato Sigfrido Ranucci in studio – anche in nome della ragione di stato.
Ragione di Stato che ha portato, purtroppo, a riconoscere l'Egitto come paese sicuro ovvero un paese che non viola i diritti umani, con un decreto voluto dalla presidente Meloni. 
Nonostante le torture sul corpo di Regeni portino la firma dei servizi egiziani. Nonostante il messaggio mostrato dal funzionario dell'ambasciata, che gli sarebbe arrivato dalla lobbista Spinelli, "Regeni non l'abbiamo noi, ma è ancora vivo".

Se arrivi, come migrante, dall'Egitto, diventerà impossibile ottenere l'asilo in Italia, mentre si verrà mandati in Albania, per riempire i centri migranti. 

GLI IRRESPONSABILI DEL NAUFRAGIO Di Rosamaria Aquino

Paolo è stato testimone della tragedia di Cutro: a mio figlio cosa racconterò, si chiede?

Report stasera si è occupata della morte dei 94 migranti a Cutro: erano famiglie che scappavano dall’Afghanistan in maggior parte, partendo col barcone dalla Turchia.
È stata solo colpa del cattivo tempo? Si poteva fare qualcosa per salvare queste persone, non solo un carico residuale? Quella notte sulla spiaggia di Cutro c’erano solo 3 pescatori, tra cui Paolo: la barca era ferma a 60 metri dalla riva, prima di sfracellarsi. LA guardia costiera sapeva di quella nave, sapeva di quelle persone, ma non fu chiamata in soccorso e la mattina dopo erano lì a raccogliere i corpi.
Ma, come racconta l’avvocato delle vittime del naufragio, a sapere della posizione della nave c’era anche la guardia di finanza e l’aereo di Frontex che stava sorvolando lo Ionio.
I dati della nave erano analizzati dagli analisti di Frontex a Varsavia: non era un peschereccio, era stato rilevato del calore attorno alla nave, era stata classificata come in una situazione di non rischio, sebbene in mare ci fossero onde alte.
Ma per capire quale fosse la situazione in mare Report ha intervistato un superstite della nave: nel pomeriggio del 25 la situazione del viaggio è iniziata a peggiorare, quando l’acqua è iniziata ad entrare dentro, creando il panico a bordo.

La barca non era in pericolo ma la situazione del mare stava peggiorando, conferma la mediatrice di Frontex in UE Emily O’Reilly: la scelta di non intervenire in soccorso della barca è stata una scelta politica.
Dunque Frontex sapeva, le autorità italiane sapevano, perché informate da Frontex, perché nel quartier generale di Varsavia erano presenti due ufficiali italiani: nessuno era autorizzato ad intervenire senza il consenso degli stati membri, cioè noi.
L’Italia ha scelti di non intervenire, non ha lanciato l’allarme, il segnale SAR: perché la nave galleggiava bene, così era scritto nei rapporti di Frontex, così l’intervento diventa di polizia, ovvero per bloccare e arrestare gli scafisti.
Ma anche il pattugliatore della finanza deve tornare in porto, perché il mare è mosso e non può procedere nel suo giro: come potevano pensare che un caicco avrebbe resistito alle onde?
E se su quella nave ci fossero stati dei terroristi o dei trafficanti di droga?
Sarebbero stati fatti sbarcare?
Così la guardia costiera non è uscita (non c’era evento SAR e non è stata chiamata dalla finanza): si arriva così a ridosso del momento del naufragio, quando però era troppo tardi.

Come racconta il giornalista Bruno Palermo, dopo Cutro, tutte le operazioni sui migranti sono state di Search and Rescue, la guardia costiera è sempre uscita.
Ma allora cosa ha portato a quella decisione nel pomeriggio sera del 25 febbraio 2023?
Bisogna tornare a 8 mesi prima, il 27 giugno 2022, dalla centrale operativa della guardia costiera parte una mail a quella di Crotone dove è scritto che “a seguito di tavoli tecnici interministeriali il livello politico ha impartito nuove disposizioni tattiche ..”, la guardia costiera avrebbe potuto uscire in mare per un intervento diretto solo in caso di evento SAR (search and rescue): prima di quella mail si pensava a salvarli e poi se c’erano degli scafisti, ad arrestarli – commenta sempre Palermo – con questa mail si invertono queste due cose, li andiamo a prendere per arrestare e poi vediamo se li possiamo salvare. La mail è firmata dal capocentro di Roma Gianluca D’Agostino e fa riferimento ad un accordo tecnico del 2003 che spiega quando interviene la guardia di finanza e quando la guardia costiera. Ma perché c’è bisogno di ribardirlo?
In quella mail D’Agostino ribadiva che prima di fare un intervento di salvataggio occorreva che vi fosse stata la dichiarazione dell’evento SAR , lasciando intendere che questa dichiarazione dovesse venire dalla centrale operativa di Roma – spiega a Report una fonte anonima dentro la guardia costiera – “quella mail è una vera e propria abdicazione, se la politica ingerisce nel livello tattico crea un corto circuito di responsabilità, per cui rimane responsabile il livello tattico, ma le decisioni sono prese da un’altra parte.”
E’ stata una scelta politica – come faceva intendere la mediatrice in UE di Frontex?
“Io voglio sapere da Roma chi non ha dato l’ordine o chi ha dato l’ordine di rientro, il problema è a Roma non è a Crotone” è la richiesta dell’ex dirigente medico della polizia di Stato Orlando Amodeo.

Vittorio Aloi ha comandato la guardia costiera fino alla tragedia di Cutro: chi ha preso la decisione di non uscire quella sera – è stata la domanda posta da Report.

Il comandante non ha voluto rispondere, rimandando tutto alle scelte del comando generale a Roma: si intuisce la difficoltà nel dover rispondere a domande difficile, nel sentirsi messi in mezzo tra Roma e i tuoi uomini e il dovere di salvare le persone in mare.

Sarebbe bene togliere il discriminante tra azione di law enforcement e SAR, come riteneva fosse corretto il comandante generale della guardia costiera Carlone (anche in una audizione alla Camera nel 2017).
La commissaria europea per i diritti umani aveva chiesto di considerare ogni barcone in crisi, già dal momento della partenza: ma i tempi sono cambiati, alla fine quella sera ha deciso tutto una mail del 2022, che si rifaceva ad una norma del 2002, governo Berlusconi.

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