La Repubblica delle stragi:
1978/1994 il patto di sangue tra stato, mafia, p2 ed eversione nera.
E' infatti ormai evidente come le grandi stragi di mafia e terrorismo, in Italia, siano segnate da un filo che, oggi, non è più tanto invisibile. Un filo che traccia un faticosissimo percorso in salita per i familiari delle vittime di quelle stragi e per quei pochi, all'interno delle istituzioni, che hanno tentato di arrivare alla verità. Un filo che racconta storie accomunate da depistaggi, isolamenti, umiliazioni, bugie e dolore e tanta rabbia; e nega giustizia ai morti costringendo i parenti a sospendere il normale corso delle proprie esistenze e improvvisarsi, a volte con risultati significativi, egregi investigatori e giornalisti, e addirittura, come nel caso di Paolo Bolognesi, politici. Un filo che sospende lo Stato di diritto e le più elementari norme democratiche. I carnefici diventano vittime e le vittime, nella migliore delle ipotesi, persone bisognose di aiuto psicologico (come disse l funzionario di polizia Arnaldo La Barbera a Lucia Borsellino, in risposta ad una sua richiesta di delucidazioni sulla scomparsa dell'agenda rossa del padre).
Questo saggio attraversa sedici anni
della nostra storia recente, raccontati attraverso una serie di
eventi criminali, con l'obiettivo di andare a cercare quel filo rosso
che li unisce, mettendo assieme i fatti, cercando di gettare luce
sulle zone d'ombra, i collegamenti tra loro.
Gli autori de “La repubblica delle
stragi” non hanno avuto come obiettivo quello di creare le solite
teorie complottiste: gli episodi citati nel saggio hanno segnato la
storia italiana e hanno condizionato la politica di questo paese.
Ma c'è anche qualcosa di personale:
Salvatore Borsellino, che ha curato questa edizione, è il
fratello di Paolo, il giudice diventato icona dell'antimafia ma di
cui una sentenza recente ci ha raccontato del grande depistaggio che
ha allontanato gli investigatori dai veri responsabili.
Giovanni Spinosa ha seguito come
pm alcune inchieste sui delitti della Uno Bianca su cui ha scritto un
libro (“L'Italia
della Uno Bianca” - Chiarelettere) che racconta una verità
diversa sulla banda. Una verità scomoda.
Fabio Repici è stato avvocato
di parte civile in processi sulla mafia (e avvocato dello stesso
Salvatore Borsellino), e ha seguito per questo libro i capitoli
sull'attentato all'Addaura al processo sulla Trattativa.
Antonella Beccaria è una
studiosa dei fenomeni criminali di questo paese, dalle mafie alla
massoneria all'eversione nera.
Giuseppe Lo Bianco è un ex
giornalista de l'Ora di Palermo oggi a Il Fatto Quotidiano, esperto
di mafia.
Nunzia Mormile è la sorella di
Umberto, l'educatore nel carcere di Opera ucciso dalla 'ndrangheta
l'11 aprile 1990, negli anni a cavallo tra prima e seconda
repubblica, quando tutti i Gattopardi del potere occulto tramavano
perché nulla cambiasse in questo sfortunato paese.
Federica Fabbretti è una
giornalista e collabora con le Agende rosse, con Salvatore
Borsellino.
Infine ha collaborato a questo libro
anche Marco Bertelli.
I capitoli del libro
Gli eventi di cui si occupa questo
volume spaziano dal 1978, l'anno di Moro, che segnò l'inizio della
fine, l'inizio della penetrazione della P2 dentro le stanze del
potere. L'anno del finto rapimento di Sindona inscenato per
salvarsi dalla giustizia e recuperare i soldi prestati alla mafia.
La bomba di Bologna, la strage di
Natale del 1984, l'estate dell'Addaura e degli omicidi dei due
poliziotti Emanuele Piazza e Nino Agostino.
Lo strano autoparco della mafia a
Milano, in via Salomone, sede del consorzio criminale composto da
cosa nostra, 'ndrangheta e Sacra corona unita.
I delitti della Uno bianca e le
rivendicazioni della Falange Armata, questa strana sigla bene
informata sui delitti e sui misteri di questo paese.
Le bombe del 1992, quella esplosa a
Capaci contro Falcone e la sua scorta e quella di via D'Amelio
contro Borsellino e la scorta.
Le altre bombe della trattativa
che portarono a compimento il passaggio tra prima e seconda
repubblica, col ricatto allo Stato, nel segno di nuovi accordi tra
mafia e politica.
Sorprende, leggendo tutte assieme
queste storie, gli atti processuali, le anomalie emerse e le
incongruenze, scoprire sempre gli stessi attori comparire: pezzi
deviati dei servizi, faccendieri di cerniera tra le istituzioni e la
criminalità, l'eversione nera come manovalanza.
Sono storie di giustizia mancata: non
solo la giustizia nei confronti delle vittime, ma anche di giustizia
e verità nei confronti dei cittadini italiani, cui sono state
raccontate tante bugie, tante menzogne, come se fossimo dei bambini
che non meritano di sapere chi ha in mano il pallino del potere.
Ma se l'assenza di giustizia potrebbe essere vista come un torto solo per noi familiari, la continua negazione della verità ha definito - e continuerà a definire - un vulnus di impareggiabile gravità per l'andamento democratico del nostro paese, un paese i cui più importanti rappresentanti possono essere ricattati da chi di quel filo conosce consistenza e colori, un paese in cui non potranno essere applicati quei contrappesi democratici riconosciuti e fortemente voluti da nostri padri costituenti
A cosa serve questo libro, dunque? Non
è l'ennesimo libro su Falcone e Borsellino e le altre vittime delle
mafie (meritevoli di essere ricordate per il loro lavoro in tutti i
giorni dell'anno, non solo nelle – spesso sterili – ricorrenze):
lo spiega bene Salvatore Borsellino nella prefazione
Gli autori di questo libro si sono posti l'ambizioso obiettivo di iniziare a "mettere assieme i pezzi", di cogliere le similitudini tra le stragi mafiose e terroristiche, di scandagliare le indagini e trovarne i buchi neri e le zone d'ombra. Un libro di fondamentale importanza per chi aspira a leggere gli avvenimenti di questo paese sotto una luce diversa, ma anche per gli "addetti ai lavori" che non hanno modo, per via della specificità dei luoghi in cui operano o degli argomenti di cui si occupano, di allargare il loro campo visivo e conoscitivo.(dalla premessa di Salvatore Borsellino)
Le origini del golpe: 1977-79
Sindona, Gelli, il crac e il ricatto al potere
Tutto parte dal
crac delle banche di Sindona, in Italia e anche in America: banche
attraverso cui erano passati, per ripulirsi, i capitali della mafia.
Sindona non era
custode dei soli segreti della mafia, ma anche dei tanti italiani che
a lui avevano affidato i loro beni per occultarli al fisco italiano.
La lista dei 500,
contenente questi nomi, era l'arma di ricatto di Sindona: quel
ricatto preparato nel suo viaggio dall'America in Italia, quando finì
nelle mani dei boss palermitani, Bontade ed Inzerillo
Ricapitolando. Alla fine degli anni settanta in Sicilia si progetta - almeno dal 1977, secondo Miceli Crimi - di rovesciare gli assetti istituzionali recuperando al contempo i soldi che che i mafiosi avevano affidato a Sindona affinché li riciclasse.Il risultato costituirebbe un sicuro vantaggio per Sindona, ormai in rovina, e dell'orbita fanno parte i militari, oltranzisti atlantici che impartiscono istruzioni da Washington, boss italiani e italo-americani e logge massoniche deviate che comprendono, oltre alla P2 di Gelli, anche la Camea, il centro di attività massoniche ed esoteriche accettate che, dalla Liguria alla Sicilia, nelle indagini della magistratura si è dimostrato un punto di incontro da interessi diversi ed altre obbedienze.I cardini erano sempre loro due, Sindona e Gelli, portatori di «contatti coi due mondi [inquietanti]: da un lato quello della P2 e dall'altro quello della mafia».
Nelle carte della commissione P2 è
emersa una riunione tenuta su un panfilo al largo di Ustica a cui
erano presenti il massone Miceli Crimi (medico di Sindona) in cui si
espose il progetto di creare in Sicilia una rete anticomunista e
indipendentista. Un progetto che anticipa di qualche anno le riunioni
tenute nelle campagne di Enna nel 1991 da parte dei mafiosi di Riina,
dove furono decise le strategie eversive del 1992.
Strage alla stazione di Bologna (qui
l'approfondimento)
Se della strage alla stazione di
Bologna conosciamo (diversamente da altri episodi stragistici) i nomi
dei responsabili, ci sono ancora troppi buchi neri: i mandanti della
bomba e, soprattutto, il perché di quella bomba.
Cosa volevano ottenere Mambro e
Fioravanti? Volevano veramente ricompattare il fronte neofascista
(come hanno dichiarato)? Oppure ancora una volta dobbiamo pensare ai
mandanti a volto coperto dietro, che da questa strage pensavano di
ottenere qualcosa?
Ancora una volta, dopo Piazza Fontana,
torna uno scenario dove la bomba serviva a preparare il terreno ad un
golpe senza esercito e carri armati, per i legami
tra la manovalanza nera e la loggia P2 di Gelli:
In quest'ottica, a dispetto delle velleità di Fioravanti, l'interfaccia reale della strage del 2 agosto non fu la "chiamata alle armi degli indecisi", ma il piano di rinascita democratica di Licio Gelli, il "manifesto d'ordine" politico e programmatico che doveva condurre il paese allo svuotamento dei valori della Costituzione e della Repubblica Parlamentare per rincorrere una repubblica presidenziale priva di contropoteri di garanzia democratica.A ciò si aggiunga un'affermazione più volte ripetuta dal Venerabile negli ultimi anni della sua vita: nel marzo del 1981, quando furono scoperte le sue liste, sarebbero mancati quattro mesi alla concretizzazione di un golpe che non avrebbe avuto le sembianze di di un'azione militare, ma che sarebbe stato lo stadio finale dell'infiltrazione delle istituzioni dal loro interno.
Strage del rapido 904 (qui
l'approfondimento)
Dopo la bomba dell'agosto 1974,
un'altra strage nella stessa galleria dell'Appennino.
Le indagini si sono mosse subito nella
direzione giusta, il referente di cosa nostra a Roma Pippo Calò. Ma
anche qui non tutti i tasselli sono al loro posto: quei congegni per
l'esplosione comprati dai mafiosi in eccesso per una sola strage, a
cosa servivano? E a cosa serviva tutta quella quantità di Semtex H,
così sovrabbondante per una sola bomba tanto da richiedere lo
spostamento dell'esplosivo dai rifugi siciliani al nuovo rifugio di
Roma?
Ecco che s'intravede la possibilità che l'obiettivo vero non fosse una sola strage, ma una vera e propria campagna terroristica, stroncata sul nascere dalle indagini "casuali" culminate col sequestro di via Albricci [dove poi si riuscì a risalire a Pippo Calò e agli altri responsabili] avvenuti solo tre mesi dopo il primo attentato.Una campagna terroristica che sembrerebbe anticipare quella del 1993 di cui ha parlato la sentenza del 2015.
L'attentato all'Addaura e le menti
raffinatissime
A distanza di anni ancora non sappiamo
i responsabili delle morti dei poliziotti Nino Agostino ed Emanuele
Piazza.
Chi e perché li ha uccisi, i killer e
i mandanti.
Non sappiamo il perché della bomba
all'Addaura né i mandanti esterni.
Non sappiamo, degli eventi di quel 1989
che anticipava le stragi del 1992, perché cosa nostra (e le menti
raffinatissime evocate da Falcone)
"si adoperò per l'uccisione del poliziotto Agostino e della moglie e del legame fra quel duplice omicidio e la strage dell'Addaura, già leggibile in filigrana. Ne emergerebbero nitidamente le ragioni del depistaggio, avvenuto fin dall'immediatezza".
La barba del padre dell'agente Nino
Agostino è l'icona dell'ansia di giustizia di chi si batte contro le
deviazioni di uno stato che, nella strage dell'Addaura e nel duplice
omicidio Agostino Castelluccio, ha presentato davvero una faccia da
mostro.
L'autoparco della mafia di via
Salomone e l'omicidio di Umberto Mormile
Umberto Mormile era un educatore
nelle carceri: fu ucciso mentre andava a lavoro nel 1990 e il suo fu
il primo omicidio rivendicato dalla Falange Armata, prima delle
azioni terroristiche e gli omicidi della Uno Bianca, prima delle
bombe della mafia (e non solo della mafia).
Ucciso perché aveva assistito ai
colloqui in carcere del boss della ndrangheta Domenico Papalia con
esponenti dei servizi.
Un omicidio su cui non fu fatta luce
anzi, la sua memoria fu infangata da una sentenza della corte
d'assise di Milano che lo definì come corrotto.
Un uomo al soldo dei boss.
Al processo d'Appello, il boss fu
condannato, ma l'omicidio Mormile rimane nell'area dell'indicibile.
Come l'Autoparco di via Salomone, su
cui indagò il pm milanese Di Maggio (che divenne in seguito vice
direttore del DAP) senza rilevare nulla.
Senza rilevare la presenza di uno
strano "consorzio": un comitato composto da mafiosi,
ndranghetisti e da boss della Sacra Corona Unita.
Uno strano autoparco, a forma di
Anello, una struttura riconosciuta dai vertici delle strutture
criminali e che da lì decideva e agiva per eseguire omicidi
importanti.
Una struttura in cui si intrecciano
mafia, quella catanese di Jimmi Miano, esponenti borderline come
Rosario Cattafi, uomo di cerniera tra mafia e servizi e boss
come Papalia. Un boss con importanti relazioni dentro le strutture
dello Stato.
Relazioni che però devono rimanere
segrete.
Nelle indagini della Procura di Reggio
Calabria nel procedimento ndrangheta stragista un capitolo ha per
titolo:
«Un filo rosso delle vicende stragiste: le rivendicazioni della Falange Armata. L'omicidio Mormile. La riunione di Enna e le dichiarazioni di Cannella, Avola e Malvagna. Le dichiarazioni di Foschini e Cuzzola [gli assassini di Mormile]. Il copyright della ndrangheta e di settori deviati degli apparati di sicurezza nazionale».Sul'omicidio di Umberto Mormile la giustizia dovrà partire proprio da lì.
Il filo rosso delle stragi: la Uno
Bianca e la Falange Armata (qui
l'approfondimento)
Sette anni e mezzo di attività
criminale, dal 19 giugno 1987 al 21 ottobre 1994.
82 delitti di cui 22 persone uccise e
oltre cento ferite.
Fino all'arresto di Roberto Savi e
Fabio Savi, il lungo e il corto. Che si sono autoaccusati di tutti i
delitti anche andando a scagionare altri imputati mafiosi imputati
nei processi per questi casi (come Marco Medda, un camorrista vicono
alla nuova camorra organizzata di Cutolo).
Analizzando i colpi della banda, si può
suddividere la loro storia in tre fasi: in una prima fase la banda è
caratterizzata da assalti ai furgoni blindati, alle coop, con
operazioni in stile militare.
Poi arriva una seconda fase apertamente
terroristica, caratterizzata da delitti senza alcuna refurtiva: dal 2
gennaio 1990 al 28 agosto 1991. I colpi contro i carabinieri (la
strage del Pilastro), contro i campi rom, contro persone inermi.
Infine la terza fase, dalla fine del
1991 fino all'arresto nel 1994, dove i Savi avevano pure messo in
piedi un traffico di armi in Ungheria per comprarsi le armi per le
rapine in banca.
La Uno bianca è stata il trampolino di
lancio della Falange Armata, che ne ha rivendicato le azioni col loro
linguaggio freddo e burocratici, fino a quando questa strana “agenzia
di stampa” abbandonò la banda col comunicato del 29 agosto 1991,
con una specie di comunicato di dissociazione.
Come se la banda avesse terminato il
suo scopo.
Si, ma quale? A cosa è servita la
banda della Uno Bianca?
La Uno bianca fu un momento organico nella evoluzione di un coerente cammino eversivo gestito da un consorzio criminale che, nel 1990, assunse il nome di Falange Armata. Dal novembre 1991, con l'avvio delle rapine in banca, si prepara il terreno per le future confessioni dei Savi dopo un arresto frutto di una «strabiliante [..] concomitanza di circostanze del tutto fortuite e difficilmente irripetibili». Si propose all'opinione pubblica l'immagine del "corto" e del "lungo": una fotografia istintivamente coerente con quella di Roberto e Fabio Savi, attori protagonisti di questo periodo. Nei tre anni successivi il "corto" e il "lungo" rapineranno le banche a bordo di una Uno bianca con una listella di scheda telefonica infilata nel blocco dell'accensione. Una straordinaria campagna di disinformazione ha affidato a questa immagine la sintesi di sette anni e mezzo di delitti timbrati Uno bianca. E invece, solo la fotografia dei banditi che hanno operato negli ultimi tre anni.
Niente a che vedere con la banda che assaltava le coop, che sparava al tunisino e ai lavavetri, che sparava al campo nomadi.Dell'uomo disinvolto che uccide dentro l'armeria di via Volturno, coi banditi che sparavano ai carabinieri a Miramare di Rimini ..
La strage di Capaci
La strage di mafia per eccellenza,
quella che ha portato alle condanne dei boss mafiosi, grazie al
pentimento di due responsabili della strage stessa, Di Matteo e La
Barbera.
Ma anche qui ci troviamo di fronte ad
alcune cose che non tornano, a meno di non fermarsi alla forma che è
stata data all'acqua (citando Camilleri).
Perché quella bomba in Sicilia, dopo
aver pedinato Falcone per settimane a Roma?
Chi scelse il luogo
dell'agguato?
Perché i servizi non informarono i magistrati che la mafia aveva intenzione di fare un nuovo attentato contro Borsellino?
Perché i servizi non informarono i magistrati che la mafia aveva intenzione di fare un nuovo attentato contro Borsellino?
Nel film blow up di Antonioni, con successivi ingrandimenti di una foto spunta in mezzo alla vegetazione, l'arma del delitto.Accadde lo stesso per la stagione delle stragi cosiddette di mafia, dove le indagini compiute negli anni con opportuni "ingrandimenti", mostrano connessioni insospettabili e inconfessabili.Oggi sappiamo che un artificiere legato all'eversione di destra, Pietro Rampulla, consegnò a Giovanni Brusca il telecomando per far saltare in aria un pezzo di autostrada; che i servizi segreti erano informati che cosa nostra avrebbe tentato il bis, uccidendo anche Paolo Borsellino. Sappiamo di più delle "menti raffinatissime" che all'Addaura avevano piazzato ventisei candelotti di dinamite a un passo dalla casa di Falcone.Che Rosario Cattafi, detto "Sariddu dei servizi segreti" messinese come Rampulla, era l'uomo ponte di Cosa nostra, massoneria e apparati deviati.Non tenendo conto dei collegamenti tra sistemi criminali diversi, il contesto delle stragi del 92 resterà forse impunito.
Anche in questa strage, come vedremo
poi succedere per via D'Amelio, piccoli depistaggi: come l'identikit
dei finti dipendenti della Sip che lavoravano a Capaci dato dal
vicequestore La Barbera ai giornalisti di Repubblica Bolzoni e
D'Avanzo che, anni dopo, raccontano dell'impressione di essere stati
usati.
La strage di via D'Amelio
La strage di via D'Amelio è una vicenda che oggi sembra essere arrivata alla verità sul versante mafioso dell'organizzazione stragista ma che è ancora in alto mare quanto alle connivenze di uomini delle istituzioni e perfino su una porzione della fase esecutiva del delitto.Alcune certezze però, ormai si hanno: è certo che Vincenzo Scarantino fu un falso pentito; che i servizi segreti (anche nella persona di Bruno Contrada) vennero coinvolti da Giovanni Tinebra, allora procuratore capo a Caltanissetta, nell'attività informativa riguardante le indagini sulla strage di via D'Amelio; che un alto funzionario della polizia di Stato, Arnaldo La Barbera, a capo di una squadra investigativa creata appositamente per le stragi del 1992, perseguì pervicacemente una pista che poi si rivelò falsa, nonostante alcuni elementi la smentissero [..] nonostante l'intera procura di Palermo considerasse Scarantino talmente inattendibile da non utilizzare le sue dichiarazioni in alcun processo di mafia, nemmeno a suo carico. [..]Quello che è certo è il risultato di questo depistaggio ebbe: affievolire la centralità nell'esecuzione della strage del mandamento di Brancaccio e, quindi, dei fratelli Graviano (che, secondo la prospettazione della procura di Palermo, furono uno dei cardini dell'attuazione della strategia stragistica di Riina nel periodo della trattativa Stato-mafia).
Perché, se anche la strage di via
D'Amelio è solo mafia, quel
depistaggio da parte della squadra dei poliziotti di La Barbera, per
la pista Scarantino?
Forse la vera ragione del depistaggio
sta in quel particolare presente nel racconto di Spatuzza e assente
nella finta confessione (concordata con gli uomini della squadra di
La Barbera): ovvero in quell'uomo senza volto, presente nel garage in
cui fu "preparata" la fiat 126
sicuramente estraneo a cosa nostra,
plausibilmente appartenente ad apparati di polizia o di intelligence,
impegnato nei preparativi della strage di via D'Amelio. Ecco forse a
cosa serviva il "depistaggio di Scarantino": ad impedire
che si potesse gungere alla conclusione che in via D'Amelio è stata,
al contempo, una strage di mafia e una strage di stato.
Le stragi del 1993
Le bombe del 1993 che hanno colpito per
lo più obiettivo del nostro patrimonio artistico, fanno parte di
quel dialogo tra stato e mafia che a costituito la seconda parte
della trattativa:
.. il procuratore fiorentino Gabriele Chelazzi parlò di "offesa all'umanità", consumata in questo caso ammazzando e sfregiando, tra gli altri, capolavori e luoghi di culto. Fu proprio Chelazzi a individuare per primo in quelle bombe il linguaggio di uno strano dialogo tra criminali di diversa natura e istituzioni, quella trattativa sinteticamente definita tra stato e mafia che ancora oggi impegna le aule di giustizia.Una trama che se ancora non è stata fotografata in una sentenza era chiara anche a inquirenti come Pierluigi Vigna:
«Penso che pezzi deviati dei servizi segreti siano stati gli ispiratori, e qualcosa anche di più, delle bombe di Firenze, Roma e Milano ..».Sullo sfondo di questa e altre vicende, si intravvedono le ombre di strane organizzazioni come la Falange Armata, che debuttò con l'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile e accompagnò la parte più sanguinosa della stagione della Uno Bianca.
Le trattative tra cosa nostra e lo
stato
Almeno in primo grado (e potrà anche
essere ribaltata nei giudizi successivi) la trattativa stato mafia
esiste ed ha dei responsabili ben identificati: gli ufficiali del Ros
che hanno preso contatto con Vito Ciancimino per vedere di fermare le
bombe, senza avvisare la magistratura e cercando invece degli agganci
politici.
Politici che hanno tutti dimostrato
scarsa memoria: da Mancino a Martelli a Violante.
Alcuni sono morti, come Scalfaro, che
si era prodigato per sostituire Amato dai vertici del DAP, con un più
malleabile Amato, affiancato come vice dal procuratore Di Maggio
(quello che aveva indagato per la prima volta sull'autoparco di via
Salomone).
Altri, come Conso, hanno sempre
sostenuto di aver agito in solitudine, come quando hanno tolto il 41
bis a 342 persone tra cui molti boss mafiosi.
Un segnale della trattativa. Un segnale
che le bombe avevano funzionato.
Ci sono tanti enigmi in questa
stagione, che viene riassunta "a futura memoria" in questo
capitolo: chi suggerì gli obiettivi dei monumenti ai mafiosi, come
mai si interruppe col fallito attentato allo stadio Olimpico ..
In attesa di un pentito di stato, tra
gli uomini delle istituzioni che hanno vissuto quel periodo, quello
che possiamo fare è solo mettere assieme i fatti.
Unire i puntini.
Dalla fine della prima repubblica, al
crollo del Muro, agli incontri dei mafiosi nelle campagne di Enna,
alle bombe del 1992 e alle bombe del 1993, i depistaggi, le morti e
le trattative. Fino all'Italia è il paese che amo: la nascita del
partito azienda (che metteva la parola fine ai progetti
secessionistici delle leghe meridionali) da cui i mafiosi, per loro
stessa confessione, si aspettavano di avere nuovamente quel rapporto
con la politica che era proseguito indenne per anni.
La pacificazione da una repubblica
all'altra
Nel capitolo finale, gli autori citano
Pier Paolo Pasolini e il suo famoso articolo, "Che cos'è questo
golpe", scritto nel 1975 dove aveva espresso tutti i suoi
pensieri sulle stragi che hanno insanguinato l'Italia tra il 1969 e
il 1974.
Abbiamo avuto un golpe anche tra la
prima e la seconda repubblica?
Si, se per golpe intendiamo qualcosa
che va oltre i carri armati e l'esercito che arresta sindacalisti e
politici di sinistra.
Non siamo più negli anni sessanta, del
golpe dei colonnelli e del tentato golpe Borghese.
Come aveva intuito Gelli col suo
progetto di rinascita democratica, il golpe avrebbe potuto attuarsi
tramite piccoli aggiustamenti alle leggi, all'ordinamento
democratico.
Quel golpe si rendeva necessario a
seguito del crollo del muro, dei partiti della prima repubblica in
crisi per Tangentopoli.
PEr la sentenza del maxi processo che
per la prima volta mandava in carcere con la pena dell'ergastolo i
boss mafiosi, che per la prima volta metteva nero su bianco la mafia
come struttura criminale verticistica e unitaria.
La presunta mafia, come oggi i
garantisti (coi potenti) dicono presunta trattativa:
Com'era stato in ogni momento di svolta dell'Italia, anche nel 1992-93 Cosa nostra era vigile e pronta ad intervenire per salvare se stessa e partecipare al nuovo corso della storia italiana. La lunga compenetrazione tra cosche di mafia, logge massoniche deviate (la P2, ma non solo quella), iniziata nel 1979, rappresentava il trampolino di lancio ideale per la nuova fase storica.Una transizione che è stata accompagnata dalle bombe, dagli attentati, dal sangue.
Purtroppo, nei primi anni novanta non
c'era più un intellettuale come Pasolini che ci potesse raccontare,
in diretta quasi, questa svolta eversiva "che si squadernava
davanti lo sguardo spaesato dell'intera nazione".
Il potere reale è stato traghettato
verso gli uomini degli apparati di Polizia, dei servizi segreti,
delle banche, del mondo finanziario, delle compagnie telefoniche, del
settore della sicurezza, del controllo degli appalti pubblici,
dell'industria di Stato e anche in esponenti del potere giudiziario.
Un sistema di potere che diventa
sempre più simile alla Repubblica dei ricatti: quei ricatti nati dai
depistaggi, dalle trattative, dalle stragi, dai cassetti tenuti ben
chiusi.
Hanno collaborato a questo libro:
Antonella Beccaria, Federica Fabbretti, Giuseppe Lo Bianco, Nunzia
Mormile, Stefano Mormile, Fabio Repici, Giovanni Spinosa
La scheda del libro sul sito di
Paperfirst e il sito
dedicato a questo progetto.
Alcuni estratti
- la prefazione di Marco Travaglio
(link)
- Borsellino, l'uomo del telecomando e le telefonate alla madre (link)
- Borsellino, l'uomo del telecomando e le telefonate alla madre (link)
I link per ordinare il libro sul sito
de Il
fatto quotidiano, su Ibs
e Amazon
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