29 settembre 2023

Il saldatore del Vajont di Antonio Bortoluzzi

 

L’acqua

Stamattina, prima d’essere completamente sveglio, mi sono venute in mente le parole che un vecchio collega di lavoro, un superstite del Vajont, mi disse in un giorno di sole, mentre guardavamo la distesa di capannoni da sopra il tetto dello stabilimento lungo il Piave: «Qua, sotto la ghiaia, ci sono ancora i nostri morti, dico le famiglie e i bambini; per me non sarà mai una zona industriale come le altre .»
Lavoro da trent’anni nella zona industriale di Longarone. Ieri ho partecipato alla visita guidata alla centrale di Soverzere, alla diga, alla frana del Monte Toc. E l’acqua non mi esce più dalla testa.

Sessant’anni fa, la sera dell’8 ottobre 1963, dal monte Toc si staccarono 250 ml di metri cubi di rocce, fango che finirono nell’invaso della diga del Vajont, causando un’onda di 50 ml di metri cubi che per metà sorvolò la cima della struttura. Furono sufficienti a spazzar via Longarone, la città a pochi chilometri dalla valle del Vajont, assieme ad altri paesi.
Furono circa duemila le vittime di questa strage, la più grave catastrofe causata dall’uomo in epoca moderna. L’olocausto della povera gente, “contadin gnoranti”, come li aveva chiamati Marco Paolini nel suo teatro della memoria in quella sera del 1997.

La più grave catastrofe causata dall’uomo: perché non è vero, come scrissero tanti giornalisti accorsi sul luogo della tragedia, che fu un incidente causato dalla natura, che non è né buona né cattiva. Non è vero che “un sasso è caduto nel bicchiere”, come scrisse Buzzati sulle pagine del corriere: quella tragedia è stata una tragedia causata dall’uomo, dai responsabili della Sade, dai politici, dagli uomini dentro le istituzioni che non vollero leggere i segnali della tragedia che c’erano tutti. Bastava solo volerli leggere.

La frana avvenuta nel 1960, gli scossoni dal Monte Toc, le fessurazioni sulla montagna, la perizia del dottor Muller che aveva evidenziato un fronte franoso sulla montagna che si affacciava sul bacino artificiale del grande Vajont, la più grande diga al monto, a doppio arco, vanto della nostra ingegneria, un fiore all’occhiello di quell’Italia che si preparava ad entrare tra i grandi del mondo.

Peccato che fosse una diga costruita laddove non si doveva costruire.

La storia della diga, della battaglia degli abitanti di Erto e Casso, la cronaca degli ultimi giorni di pace prima della tragedia, l’ha già raccontata Marco Paolini nella sua orazione civile “Vajont” (edizioni Einaudi).

Leggetevi la storia, riguardatevi su Raiplay o su internet il suo spettacolo, perché lo merita veramente: la Rai ha deciso che non lo rimanderà in onda, evidentemente ancora oggi è tabù parlare di Vajont, dell’olocausto di 2000 persone, donne, uomini e bambini, morti perché si è voluto mettere il profitto davanti al rispetto della vita umana.

Il romanzo di Antonio Bortoluzzi è complementare al racconto di Paolini: è narrato in prima persona, il protagonista è un operaio che ha lavorato per tanti anni a Longarone e che, in questo anniversario, ha deciso di visitare la diga.

La visita diventa occasione per fare memoria, in ricordo delle vittime (di cui solo per la metà furono trovati i corpi, tanto enorme è stata la potenza dell’acqua sulle case e sui capannoni quella notte di sessant’anni fa).

.. il Grande Vajont, culminato con la diga che per qualche tempo fu la più alta del mondo, è stata il risultato di tanti piccoli gesti compiuti da uomini-formica, impegnati insieme, quasi fossero mossi da un’unica volontà, a edificare il paradiso dell’energia che invece sarebbe stato l’inferno della catastrofe.

C’è il ricordo dei tanti lavoratori che hanno contribuito alla costruzione dell’impianto: quelli che hanno spaccato le pietre, quelli che hanno costruito le torri del calcestruzzo, miscelando sabbia calce e cemento. L’ingresso nella sala comando ricorda un po’ quello della plancia del Nautilus, coi comandi per le 4 turbine, ancora operative, coi generatori dove sulla targhetta sta scritto “ERCOLE MARELLI, MILANO, 1950; GENERATORE SINCRONO TRIFASE”.
Come il dolore per la tragedia, anche l’impianto è destinato a durare per sempre. Diversamente dalle nostre vite, dalle vite dei cinquanta operai morti nella costruzione: perché anche allora come oggi si muore sul lavoro, per inesperienza, per un errore umano. O, come accade sempre più spesso, per mancanza di formazione, di dispositivi di sicurezza.

Nei giorni successivi altri racconti: dell’unico amico del paese che aveva studiato ed era diventato ragioniere, e che si era recato al bar di Longarone per guardare la partita, e non è rimasto nulla né del locale né degli avventori; del taxista di Longarone, sceso la sera a Vittorio per portare dei clienti e che al ritorno non trova più la casa e la famiglia; dell’uomo che vedendo la reazione anomala del suo canarino, ..

Il viaggio nel mondo dei ricordi passa poi ai soldati: nel 1963, all’indomani della tragedia arrivano i primi soccorsi da parte degli alpini della Brigata Cadore, non a dorso dei muli (nell’esercito italiano degli anni sessanta erano ancora presenti questi quadrupedi) ma coi camion a diseppellire cadaveri, recuperare i corpi nudi incastrati sugli alberi.

Ragazzi come lo zio del protagonista, pure lui alpino ma negli anni ottanta, pure lui passato attraverso l’esperienza della naja, dei “veci”, del nonnismo, a dover ubbidire ad ordini difficilmente comprensibili, come i soldati della fortezza Bastiani ad attendere i Tartari.

Nel frattempo prosegue la visita alla diga, nei suoi corridoi, all’interno di quella massa di cemento dove anche il tempo sembra congelato. Infine il coronamento della diga da cui si può osservare tutto, la valle là in fondo, l’invaso riempito dalla frana dall’altra parte, dove nel 1997 fu realizzato il teatro della memoria di Marco Paolini e Gabriele Vacis.

Il teatro della memoria: perché questo è mancato in questi anni in Italia e anche nel nordest, che negli anni novanta era la locomotiva d’Italia, illusa della sua ricchezza facile.

Abbiamo rimosso cosa è stato, prima della tragedia: i campi e i frutteti sul monte Toc (che in dialetto friulano suona come Patoc, pezzo marcio), poi le fessurazioni quando l’acqua iniziò a riempire la valle, le preoccupazioni dei contadini di Erto e Casso, gli articoli della giornalista Tina Merlin de l’Unità, finita a processo con l’accusa di «diffusione di notizie false, esagerate, tendenziose, capaci di turbare l’ordine pubblico».

Assolta, perché quelle notizie erano vere.

Perché le grida d’allarme dei contadini non sono state ascoltate? Si stava costruendo il futuro dell’Italia e tutti premevano perché nessuno ostacolasse questo progresso. Ma quale futuro, quale progresso?

L’industrializzazione selvaggia degli anni sessanta ha distrutto il paese, spazzando via costumi, costringendo milioni di persone a spostarsi nelle città. Era l’Italia del boom che, come in rito ancestrale offriva “agli dèi il sangue delle vittime innocenti”.

L’immenso disastro, la strage, incarna la massima sofferenza: quella di perdere i propri cari, i paesani, gli averi, ogni singola pietra che rappresentava tutto il mondo, tutto il passato e il presente di una persona

La storia del Vajont racconta di quell’Italia fatta da imprenditori spregiudicati, di politici compiacenti, di interessi superiori al bene comune, di opportunismi e furberie. L’Italia dei potenti e del potere – pubblico e privato – in alto e della povera gente in basso.

Siamo riusciti a concepire, in quella valle che era rimasta per secoli uguale a sé stessa un’opera straordinaria, la diga a doppio arco più alta al mondo. Ma non siamo riusciti a immaginare la tragedia: né in quel 8 ottobre, nemmeno tanti anni dopo a Stava, in Trentino. O in Molise nella scuola crollata nel 2004 a San Giuliano. Nemmeno a Genova, nel 2019, quando è crollato un ponte.

Eppure sarebbe bastato pensarci, prima e non dopo: fare i lavori di manutenzione per il ponte oppure chiuderlo (scelta impopolare e anti redditizia). Costruire la scuola secondo le norme, rispettando le leggi.
La storia del Vajont parla del nostro passato ma ci costringe a riflettere sul nostro presente e sul futuro: perché quella tragedia può ancora accadere, in altri posti in Italia.

Non è sempre vero che tutto scorre; qui si respira una specie d’eternità immobile che preme sulle spalle, e si adagia sul cuore.

La scheda del libro sul sito di Feltrinelli e dell'editore Marsilio

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