24 settembre 2023

Quello che noi non siamo, di Gianni Biondillo


 

Due uomini di mezza età camminano lungo via Monte Napoleone. La città è piena di cantieri e di gente indaffarata che va dappertutto. I due amici vestono abiti artigianali di buona fattura, uno è magro, sembra prosciugato, al punto da far apparire l’altro bolso. L’uomo magro indossa un cappello, l’altro sfoggia la sua canizie con indifferenza. E parla. Parla di continuo, con entusiasmo, ha tante cose di cui discutere con l’amico. Che non dice nulla, però. Non replica. Forse non sta neppure ascoltando. Ha lo sguardo vitreo, assente. Poi all’improvviso vede qualcosa per terra. Un tozzo di pane semiammuffito. Si piega di scatto per raccoglierlo e se lo porta al petto, come se avesse trovato un tesoro, timoroso che gli venga sottratto. I curiosi osservano la scena, increduli.

Chi sono questi uomini che stanno camminando per le vie di Milano? Come mai l’uomo magro se ne sta così zitto e perché quel gesto, che oggi considereremo così strano, del pane raccolto per terra?
Capiremo tutto alla fine di questo lungo racconto che copre i venti anni del regime fascista, anzi, attraverso i ricordi dei protagonisti ci porta indietro fino alla prima guerra mondiale, alle carneficine dentro le trincee, dentro le prigioni austriache, quelle da cui in modo avventuroso Giuseppe “Bepi” Pagano riuscì a fuggire. Dalla prima guerra mondiale fino alla seconda, all’ora del destino irrevocabile, quando con la menzogna del milione di baionette il regime di Mussolini illuse gli italiani di essere potenza mondiale. Per trascinarci nella più vergognosa delle disfatte: le macerie delle costruzioni, i milioni di morti, l’onta delle leggi razziali (che si aggiungeva a tutte le altre privazioni di libertà del regime), gli italiani deportati nei lager, la guerra di liberazione con italiani contro italiani, per liberarci da quel regime fascista, senza però esserci liberati dai fascisti.
Ma questo non è un saggio storico, tutto questo arco temporale è raccontato, basandosi sulle memorie, sulla raccolta documentale, in prima persona da un punto di vista particolare: quello degli architetti (ma anche artisti, intellettuali) che, a partite dagli anni 30, cercarono di cambiare lo stile delle costruzioni degli edifici pubblici, dei quartieri dove far vivere le persone, delle stazioni, delle università, delle scuole.
Qualcosa che già Antonio San’Elia aveva immaginato nei suoi disegni, proiettati nel futuro: progetti purtroppo mai realizzati per la sua morte precoce sui campi della prima guerra mondiale (questo romanzo è la naturale prosecuzione del precedente “Come sugli alberi le foglie”).

Architetti come Giuseppe Pagano “Bepi”, irredentista, nato a Fiume sotto l’aquila asburgica che decise di combattere per l’Italia a qualunque costo e che a Praga, dopo una rocambolesca fuga dal carcere austriaco, scopre il bello dell’architettura

La bellezza non ha confini. Era una cosa da capire, da studiare.

Fu durante quella notte praghese che lo intuì, per la prima volta in modo evidente, palpabile. Fino a quel momento non si era posto il problema preso dai suoi impeti irredentisti, di cosa fare dopo la buriana della guerra. Architettura. Ecco cosa doveva studiare tornato a casa. Architettura.

Oppure il “magistro comacino” Giuseppe Terragni, nato a Como ultimo di tre fratelli, che viveva il suo lavoro di architetto quasi come una missione, in lotta contro i “passatisti” come venivano chiamati i committenti delle opere pubbliche, i dirigenti di Roma che dovevano giudicare i progetti, i critici dei opere sui giornali. Gente che è rimasta con la testa ai secoli passati, gente a cui bisogna fare guerra:

Guerra? Un fuoco, sì, un fuoco che ci divora, a me, ai miei compagni del Politecnico, da anni. Contro quei professoroni tutti azzimati, e i loro corsi fuori dal mondo: un anno progetti architettura gotica, quello dopo rinascimentale. Qui volano gli aeroplani e le navi attraverso uno gli oceani e noi che disegniamo come fossi ancora la corte del Re sole. E intanto in Europa è successo di tutto. Non ha parole, nei fatti. Ma dove vogliamo andare, ci dicevamo, cosa vogliamo fare?
Tutto lo spazio se ne sono già presi i tromboni e le trombette, ci toccherà mettere in nasi finti, vestirci da giullari oppure fare gruppo, unire le forze far sentire la nostra voce. Che se parla uno e voce nel deserto, se urlano in tanti almeno un polverone lo tiriamo su.

Ed ecco allora le riviste dove pubblicare le loro idee, i gruppi di architetti che si riuniscono, per dar forza ai loro progetti.

Un mondo culturale in fermento che coinvolge tanti artisti, intellettuali, da Piero Bottoni a Milano e sua sorella Maria, Luigi Zuccoli amico e allievo di Terragni, Pietro Maria Bardi, Edoardo Persico, fino ai quattro moschettieri milanesi, Giangio, Lodo, Aurèl e Ernesto, ovvero Gian Luigi Banfi, Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers, BBPR. Già nella tesi del quinto anno presentarono un progetto della città ideale, secondo i loro canoni: moderna, omogenea, razionale.

Questi sono solo alcuni dei protagonisti di questo romanzo veramente corale, a più voci, sia uomini che donne, che alle donne era di fatto preclusa la carriera universitaria, “le donne non possono fare gli architetti”, era l’idea dei tempi contro cui andarono a combattere donne come Maria Bottoni, Mara Montuoro, Maria Albini.
Il fascismo poi, aveva un suo concetto particolare delle donne: la donna poteva essere solo l’angelo del focolare, la madre dei figli o, al limite, la donna che soddisfa le voglie del marito a fine giornata

In quegli anni tutto ciò che avesse a che fare con l'emancipazione femminile era a rischio, ad essere sincere. Il regime colpiva, più che con durezza, con profondità le conquiste delle donne di inizio secolo, le smantellava. La loro condizione doveva essere regredire a vestali del focolare o prostitute. Niente in mezzo. Oggetti o culto. Madonne da bestemmiare.

Eh, già il fascismo: l’atteggiamento di questo gruppo di intellettuali razionalisti nei confronti del regime è al centro di tutto il racconto, per la grande illusione che Mussolini e la sua rivoluzione fascista avrebbe spazzato via tutto quello di antico e vecchio che imbrigliava l’arte, le costruzioni, il pensiero.

Molti di loro diventarono consapevolmente fascisti, nonostante le leggi fascistissime, i divieti, le censure, le manganellate, l’aventino. Nonostante l’omicidio di Giacomo Matteotti per mano di sgherri del regime, nel giugno del 1924.

Vuoi vedere che forse aveva ragione Bardi e tutta la pletora di razionalisti romani che distinguere l'arte dalla politica era una stupidaggine che occorreva buttarsi a colpo morto nelle braccia del regime anzi no abbracciarlo per migliorarlo nobilitarlo salvarlo dalla farragine della macchina burocratica retoriche passatista per i dati slancio e rivoluzionario?

Terragni, Pagano e tanti altri presero la tessera del partito, pensando, illusi, di poterlo cambiare dall’interno. Illusi, nei loro confronti il regime, Mussolini tennero un atteggiamento del bastone e della carota, cercando di accontentarli senza però mutare nulla, della loro visione neoclassica, imperiale, basata sulle antiche gloria della Roma imperiale. Glorie che si sarebbero presto spente sulle nevi della Russia o nel rovente deserto nel nord Africa.

Terragni, fascista perché nato col fascismo, si giustificava dicendo che “l’unica tirannia a cui doveva dare conto era quella della sua coscienza d’artista”. L’arte come strumento per lasciare un segno nella storia, come Caravaggio, come Michelangelo, chi se li ricorda oggi i tiranni, i papi e i vescovi?

L’architettura come missione, come pensava “Bepi” Pagano, dunque: “la vera missione dell'architettura doveva essere quella di intervenire nella vita quotidiana di tutti, migliorandola. Niente svolazzi artistici, niente eccezioni, niente architettura per pochi, niente manierismi, ogni edificio doveva sottoporsi, come la chiamava lui, alla schiavitù utilitaria, essere prima di tutto un servizio..”.

Ma erano solo illusioni: il regime li teneva d’occhio questi intellettuali scomodi, scomodi perché difficilmente controllabili, che erano poi in contatto con altri intellettuali ostili al regime, come Giuseppe Persico, napoletano trapiantato a Milano, vittima di un brutale pestaggio da parte di fascisti a cui non aveva nemmeno cercato di sottrarsi (“ecco l’agnello di Dio”).
Il fascismo è l’autobiografia di una nazione – disse Gobetti: l’autobiografia di quella nazione che ha voluto il fascismo, il regime: da quelle famiglie borghesi (da cui provenivano appunto gli stessi razionalisti, gli innovatori) che hanno scelto l’uomo forte che mettesse ordine.

.. l'abbiamo voluto noi Mussolini ,anche se mio padre lo detestava, ma i miei zii, i miei parenti lo adoravano. Lo abbiamo desiderato noi il fascismo, noi come classe dirigente, come classe pensante, come classe borghese, aristocratica, cattolica, lo abbiamo desiderato noi l'uomo d'ordine, che mettesse a tacere la plebee, che lasciasse lavorare in pace i capitani di industria. I nostri padri, le nostre madri, i nostri amici. Noi. L'abbiamo voluto noi. Abbiamo discusso per anni di gusto, spirito, arte. C'è chi si è fatto ingannare, pensando di essere un rivoluzionario, e ci ha anche creduto. E nel mentre c'era un popolo analfabeta, a noi completamente sconosciuto, un popolo straccione escluso dai nostri consensi borghesi, che ci guardava - che ci guarda! - come padroni, tali e quali a quelli che noi diciamo di odiare.

Sono parole potenti, quelle cui riportate, di Maria Albini.

Parole dure contro quegli italiani che, in una triste metafora, hanno fatto la fine della rana dentro la pentola, che non si accorge di essere bollita perché l’acqua si scalda un poco alla volta. Prima le leggi contro i sindacati, poi le persecuzioni contro i socialisti, i comunisti. Poi le veline ai giornali. I tribunali speciali. La legge elettorale truffa.

Ci stanno bollendo a fuoco lento e noi stiamo accettando tutto. C'è chi fa la camicia nera, chi l'antiborghese, chi l'originale chi l'artista c'è chi fa il gerarca il contadino e chi l'architetto. Basta che ce lo lascino fare, no?
Nel mentre la temperatura si alza ma noi ci stiamo raccontando che se facciamo bene le nostre cose siamo nel giusto, abbiamo la coscienza a posto.

E la temperatura dell’acqua si sarebbe alzata ancora: prima le leggi razziali, che cacciarono dalle istituzioni le persone di religione ebraica, privandole sia dei loro beni che della loro dignità come persona.
Poi vennero i venti di guerra, quella guerra che nelle stupide idee di Mussolini sarebbe durata soli pochi mesi. E che invece si portò via milioni di vite umane nei vari campi di battaglia, trascinati da quella propaganda bellicista che purtroppo non è mai tramontata, nemmeno oggi (“la pace riposa sulle forze armate”..).
Non scapparono dalle loro responsabilità, gli architetti razionalisti protagonisti di questa lunga pagina della nostra storia, non cercarono di scappare: Terragni finì in Russia, a scoprire coi propri occhi l’assurdità di quella guerra contro un nemico (i bolscevichi) che aveva la nostra stessa faccia.
Nemmeno Giuseppe Pagano, a cui Terragni aveva confessato di essere stato un illuso nel suo fidarsi del regime, cercò di scappare quando arrivò la cartolina dall’esercito, nonostante gli anni, nonostante le sue amicizie a Roma, perché noi “dobbiamo pagare le nostre responsabilità”.

L’illusione fascista, l’impero che tornava sui colli fatali di Roma, crollò miseramente: arrivarono le sconfitte, i bombardamenti, la presa di coscienza. E arrivò anche l’ignavia del governo Badoglio, che prese il posto di Mussolini dopo il 25 luglio 1943, con l’assurdo comunicato radio, con l’assurdo armistizio comunicato per radio senza aver dato alcun ordine ai soldati. La fine dello stato, il crollo delle istituzioni.

Ecco, da quella ignavia, da quella vergogna dei vertici militari, dei Savoia scappati al sud senza preoccuparsi di null’altro, dal regime che si liquefaceva come neve al sole, nacque la nuova Italia.

Erano fervidi, imprudenti, patriottici, generosi, ingenui. Ed erano azionisti, cattolici, socialisti, repubblicani, comunisti, monarchici. Non è importante quello che siamo, dicevano, ma quello che noi non siamo. Non siamo fascisti.

Qui è nata la democrazia, quella parola che ancora mancava, qui sono nati alcuni concetti poi riportati dentro la nostra bellissima (e incompiuta) costituzione. Dalla guerra di liberazione, dalla lotta partigiana, sui monti come nelle città. Dagli scioperi degli operai, dai tipografi che clandestinamente stampavano comunicati e giornali. Dagli uomini e dalle donne, ex militari, preti, operai, insegnanti, che lottarono per la libertà.
Anche gli architetti razionalisti diedero il loro contributo, pagando anche con la loro vita.
Gianni Biondillo ci porta dentro quei mesi bui, l’inverno più difficile, quello tra il 1943 e il 1944, col regime di Salò e la sbirraglia fascista che dava la caccia ai nemici del regime. Con ogni mezzo, con la barbarie, con la ferocia che contraddistingueva questi lugubri personaggi (come la Muti e la banda Koch a Milano) che non si fermavano nemmeno di fronte a bambini o donne incinte.

Le pagine in cui l’autore racconta la prigionia nei lager di Giangio e Lodo, di Poldo Gasparotto (il capitano Rey), del “colonnello” Pagano, di Raffaello Giolli, hanno la stessa potenza espressiva delle pagine in cui Primo Levi racconta della disumanità di Auschwitz: non si era più persone, pezzi da consumare, da spremere per l’industria tedesca, pezzi da brutalizzare, nelle mani dei kapò e delle SS.

Ma anche nei campi ci fu chi cercò di mantenere viva l’umanità: finché siamo vivi c’è speranza, finché abbiamo il lusso di pensare, siamo vivi. E finché siamo vivi abbiamo vinto loro, loro i nazisti sono destinati alla sconfitta.
Anche dal lager di Gusen è nata la Costituzione: quando l’architetto Ludovico di Belgiojoso, nobile di nascita, si dedica all’istruzione degli altri detenuti, comunisti, socialisti dunque antifascisti, che non avevano potuto studiare perché “la rivoluzione si fa coi mitra ma anche coi libri.”

Ci sono delle pagine memorabili dentro questo libro, come quando Pagano invita i suoi compagni di prigionia a non parla di vendette, ma di giustizia, perché “la vendetta e l’odio ci hanno portato fin qui.. Solo la giustizia ci darà l’amore e la pace”. C’è la pagina struggente del Natale dentro il campo di Ravensbruck, dove furono detenuta Maria Bottoni. E poi c’è la pagina, quella dei due signori di mezz’età e del pane ammuffito, il cui senso sarà finalmente chiaro solo alla fine (confesso, sono arrivato alle lacrime leggendo quelle righe).

Quello che noi non siamo racconta la presa di coscienza di una generazione di italiani contro le illusioni del regime fascista, racconta la genesi della nostra democrazia, racconta la vita di questi personaggi incredibili di cui oggi purtroppo ci è rimasto poco. Come poco, purtroppo, è rimasto del loro insegnamento.
Ecco perché è importante ricordare questa parte della nostra storia: perché il fascismo, come regime mussoliniano, è stato sconfitto, ma non i fascisti. Non il desiderio dell’uomo forte, la voglia di delegare ad altri la cosa pubblica. I finti rivoluzionari che intendono riformare le istituzioni, di fatto consolidando lo status quo, le disuguaglianze, l’assenza di giustizia, di diritti uguali per tutti:

Il fascismo in Italia è un'indicazione di infanzia perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto d'ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l'autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, dovrebbe essere guardata e guidata con qualche precauzione.
Gobetti – Rivoluzione liberale

La scheda sul sito dell’editore Guanda, qui il link per leggere le prime pagine
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