03 settembre 2023

Il cane che parla di Giorgio Scerbanenco

 

Abbiamo intervistato il celebre poeta Aroldo Banner e ne abbiamo ricevuto la curiosa impressione di un uomo che tenesse la vita con la punta delle dita, come fosse un oggetto sudicio.

In uno scompartimento del direttissimo che sarebbe arrivato a Boston alle 17 e 30, Araldo Banner e i suoi amici lasciavano pigramente scorrere le ore noiose del viaggio.
Era un pomeriggio di fine estate. Dal finestrino già si vedeva qualche nota di giallo e di rosso autunno nella campagna. Il cielo era di un celeste pallidissimo, anche perché il giorno prima aveva piovuto e tutta l’aria si era come slavata e scolorita. Solo il verde, dove c’era, aveva intensi toni lucidi. Erano soltanto le quattro. Ancora un’era e mezzo di treno.

Prima della serie con Duca Lamberti, che ancora oggi è un punto di riferimento per molti nuovi scrittori, Giorgio Scerbanenco aveva scritto diversi gialli perfino negli anni del regime fascista, come questo “Il cane che parla” pubblicato da Mondadori nel 1942.
Poiché il regime fascista tra le altre cose, aveva anche abolito il crimine (intendendo la pubblicazione sui giornali di storie sgradite alla propaganda), questi gialli erano ambientati nell’America che Scerbanenco aveva immaginato e dove viveva questo investigatore particolare, Arthur Jelling. Alto, educato, sposato, una persona che arrivava perfino ad arrossire di fronte ad un complimento o ad una situazione imbarazzante, come un interrogatorio di fronte un personaggio importante, tutto il contrario del cliché del poliziotto rude e solitario.
Questo romanzo, terzo della serie con Jelling è il classico delitto dentro la stanza chiusa (leggendolo sentirete forti i richiami di Agatha Christie): la stanza è lo scompartimento di un treno diretto verso Boston dove incontriamo i cinque principali protagonisti del racconto: Aroldo Banner, poeta famoso, poco incline a mescolarsi con le persone e i problemi del mondo reale; Carlo Svedensson, critico, intellettuale, poeta fatto di tutt’altra pasta per le sue esternazioni velenose nei confronti dei colleghi; Dady Dadies, responsabile della pagina letteraria del Nuova Stampa; Tom Fharanda editore, che di recente ha firmato un contratto col poeta Araldo Banner. Infine la scrittrice Fiorella Garrett, che in quello scompartimento sta cercando di stemperare la tensione che si è creata a seguito delle uscite velenose di Svedensson sui giornali, sugli editori che stampano libri di poesia solo per interesse economico.

Ad un certo punto il treno si arresta, qualcuno ha tirato il freno di emergenza: tutti i passeggeri si affacciano dal finestrino per capire cosa sia successo, compresi il poeta Banner e l’editore Fharanda.

Devono aver tirato il segnale d’allarme,” disse agli altri. “Chissà cos’è success..”
Non terminò la parola. Si udirono due strani scoppi. Pareva che qualcuno avesse sturato un paio di bottiglie di spumante, poi Banner, il poeta Aroldo Banner, che guardava con semplice indifferenza dal finestrino, senza nessun interesse per quella fermata improvvisa, come se tutto fosse una cosa da tenersi sulla punta delle dita, per non sporcarsi; Banner insomma, cadde a terra all’indietro, il volto rigato di sangue.

Qualcuno ha sparato da fuori colpendo Banner due volte al volto: la polizia di Corsey, per mano del rude capitano Merulay (uno di quegli uomini che quando è in divisa si dimentica di essere tale) interroga e arresta tutti gli occupanti dello scompartimento, senza troppi complimenti.
Finché da Boston arriva il responsabile delle indagini:

Col treno delle otto e quindici arrivò a Corsey, proveniente da Boston, un signore molto alto e magro che teneva una borsa di cuoio sotto il braccio.

Jelling è un poliziotto di pasta diversa da Merulay: metodico, paziente, molto riflessivo, si era fatto notare dal suo superiore per aver risolto due casi (i primi due volumi della serie, Sei giorni di preavviso e La Bambola cieca) ed era stato dunque trasferito dall’archivio centrale all’investigativa. Arrivato a Corsey fa rilasciare tutti e quattro i “sospetti” e, dopo aver letto il rapporto degli agenti di Corsey, si reca sul luogo dove il treno si era fermato. Per una strana coincidenza, il treno si è fermato proprio sotto la villa del direttore della pagina culturale della Nuova Stampa, Marino Grant (un altro nome italiano, ma siamo proprio certi che siamo in America?), che aveva ospitato proprio quei cinque nella sua villa in collina.
Il rapporto della balistica parla chiaro: Banner è stato colpito da 30 metri da un colpo di fucile con un proiettile calibro 8,
proprio il calibro del fucile che Grant usa per andare a caccia, come quel pomeriggio dove Banner è stato ucciso. Sono troppi e lampanti gli indizi che indicano come assassino Marino Grant: quest’ultimo, interrogato da Jelling stesso, conferma tutti gli indizi a suo carico, aggravando la sua posizione.

Caso risolto, dunque? No, perché nella testa di Arthur Jelling ci sono alcuni tasselli che non riescono ad incastrarsi. Come per esempio quella fermata improvvisa del treno, la polizia di Corsey ad esempio non era ancora riuscita a stabilire chi avesse azionato la leva per l’allarme.
Difficile che i due eventi, l’allarme e i colpi di fucile contro Banner non siano correlati:

Ecco,” spiegò “Si può pensare che il segnale d’allarme sia strettamente legato al delitto. Io credo che sia così. Ma se è legato strettamente al delitto, chi ha azionato il segnale doveva trovarsi sul treno. Allora bisogna pensare che il delitto sia stato ideato e compiuto da due persone, una delle quali si trovava sul treno e ha azionato il segnale, l’altra invece era nella boscaglia e ha sparato.”

Dunque un assassino e un complice? Allora l’arresto di Grant è stato un granchio? Nessuno dei compagni di viaggio del morto è uscito dallo scompartimento e nessuno di loro aveva un’arma quando è stato perquisito.
Come spiegare allora il delitto?

Arthur Jelling era del parere che se i dati erano sufficienti, si poteva far luce su qualunque oscuro problema, servendosi soltanto su quei dati. “È una questione di pensare,” diceva sempre a sé stesso. In quel momento, egli era sicuro che i dati del problema v’erano tutti, quindi bastava pensare.

La soluzione del delitto arriverà proprio leggendo gli atti, anzi leggendo un particolare emerso negli interrogatori e che i poliziotti inizialmente avevano trascurato. Si tratta di un cane, un cane particolare, capace di parlare – in senso metaforico – per far combaciare le tessere del puzzle e dare una risposta a tutte le domande che girano nella testa dell’investigatore.
Ma un grosso aiuto lo darà anche un gangster chiamato Fancio il breve (perché è uno di quelli che non ci pensa troppo a sparare): un criminale esperto nel ramo rapine, che ha conosciuto solo miseria e violenza che Jelling cerca di aiutare, proponendogli la possibilità di una vita diversa, un lavoro, una casa, una moglie che lo aspetta tutte le sere.

Ma chi nasce lupo non può morire agnello:

L’agnello disse molte belle parole al lupo. Voleva che il lupo divenisse buono e mite come lui. Gli disse: “Perché sei così cattivo? Non ti spiacerebbe che qualcuno mangiasse tua madre, o i tuoi piccoli?”
Il lupo rispose: “Si mi dispiacerebbe perché vorrei mangiarli io”.
Da un libero rifacimento di una favola di Esopo

Il cane che parla è un romanzo da leggere per comprendere fino in fondo la poliedricità dello scrittore Giorgio Scerbanenco, autore di noir come quelli della serie con Duca Lamberti, di romanzi rosa e di gialli come questo, con un delitto (avvenuto o solo annunciato, come in Sei giorni di preavviso, primo della serie di Jelling), i sospettati che, di fronte alle domande dell’investigatore fanno emergere la rete di relazioni tra loro: come racconta Cecilia Scerbanenco nella prefazione, “Un romanzo assolutamente giallo, di crimini e detection, entrambi sempre invisi al regime fascista ..Leggendolo ho continuato a domandarmi quali fossero gli accordi intercorsi tra l’autore e il suo editore, Arnoldo Mondadori. [..] E’ un romanzo alla Agatha Christie: qui, Poirot sarebbe perfetto, altrettanto a disagio nei locali dei bassifondi del nostro Jelling. Jelling che, ormai affermato collaboratore della polizia di una Boston di fantasia, deve ancora una volta mettere alla prova la sua psicoindagine, come gliel’ha ribattezzata il suo capitano, Sunder, un metodo di deduzione tutto intellettuale, basato sul dialogo tra sospettati e inquirenti.”

La scheda del libro sul sito dell'editore La Nave di Teseo

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