27 febbraio 2025

Il mostro di Roma di Alessandro Gorza

 

Roma 1924

Questa è una storia che ha cent’anni. È una vicenda di sangue e violenza, di errori e misfatti. Cento anni, il mondo è un altro; eppure, questa storia racconta fatti che non sembrano appartenere a un passato lontano, ma somigliano a un presente inquietante e spaventoso.

Roma, 1924. Non c'erano i social network, ma i rioni e i quartieri popolari con le loro grida sguaiate. Non c'era la televisione, ma i giornali compiacenti, una classe dirigente che voleva raccontare un mondo che non esisteva. C'erano le pulsioni e le miserie umane con la loro meschinità: giochi di potere, delazioni, bugie, carrierismo e malafede.

C'era un assassino, o forse più di uno, che colpiva a caso, senza un disegno, o forse no.

Conoscevo molto poco di questa storia, quella del “mostro di Roma” che negli anni tra il 1924 e il 1928 uccise diverse bambine a Roma in modo brutale. Avevo sentito parlare di Girolimoni, il procuratore legale che fu ingiustamente accusato di quei delitti, finito dentro gli ingranaggi di una inchiesta condotta male dalla polizia, più attenta a compiacere il potete dell’epoca (si era ai primordi del regime fascista) che non a trovare il vero assassino. Nino Girolimoni fu condannato dalla stampa senza possibilità di difesa, un “mostro sbattuto in prima pagina” dai giornali, anche loro compiacenti col governo Mussolini, non ancora regime ma già pronto a plasmare gli italiani secondo il nuovo modello di Dio Patria e Famiglia.

È la storia di un mostro creato dalle voci della strada e dalla carta stampata. Di un clamoroso errore giudiziario, di crimini rimasti senza un colpevole. Di uomini che il destino ha deciso dovessero recitare una parte della propria vita se un palcoscenico entrato nella storia minore, quella della cronaca e non dei fatti epici e guerreschi, che ha però segnato un paese e, soprattutto, una città.

È la storia incredibile di Ralph Lyonel Brydges, Giuseppe Dosi e tanti altri. È, soprattutto, la storia di Gino Girolimoni. L’innocente mostro di Roma.

Quello che mi ha sorpreso al termine di questa lettura, veramente scorrevole e ben documentata, è stato lo scoprire quanto questa storia abbia ancora molto da raccontare agli italiani di oggi.
Il macabro gusto con cui spesso giornali e telegiornali ci raccontano dei casi di cronaca dove però la vittima è “una di noi” mentre il carnefice è il diverso, l’immigrato venuto da fuori a contaminare le nostre città, i nostri borghi.
Il rapporto stretto tra mondo politico e il mondo dell’informazione, la scomparsa degli editori puri coi giornali finiti nelle mani di pochi gruppi industriali se non, peggio, di specifici gruppi politici.
Il bisogno che abbiamo, noi italiani, di sentirci sempre rassicurati di fronte ad un delitto: il mostro, l’assassino, non può essere uno come noi, con una famiglia solida alle spalle, uno che va a messa, che frequenta i nostri stessi posti, l’uomo o la donna che incrociamo tutti i giorni.

Nemmeno in quella Roma che, nella primavera del 1924, stava per venire oppressa da due ombre: la prima, quella del regime che aveva appena vinto le elezioni grazie alle violenze degli squadristi e alla legge vergogna che assegnava un premio di maggioranza al vincitore (altra distorsione che ritroviamo ancora oggi). Il 10 giugno l’onorevole socialista Giacomo Matteotti venne rapito da una squadraccia fascista che lo uccise: aveva tenuto pochi giorni prima un duro discorso alla Camera contro il governo Mussolini.

La seconda ombra fu quella del mostro che colpì più volte, a partire dalla piccola Emma, e poi ritrovata il giorno dopo, viva, per fortuna.

E poi le altre vittime: Bianca, Elsa, Celeste, Elvira, Armanda l’ultima vittima..

Delitti che avevano suscitato una forte indignazione da parte della popolazione romana, oltre che una forte ondata di paura per questa persona, di questo orco, che sembrava sfuggire alla rete della polizia nonostante le tante testimonianze raccolte: un uomo ben vestito, tra i quaranta e i cinquanta, con un cappello floscio e, particolare molto importante, uno che parla bene italiano.

Non si può accettare che il mostro sia una persona normale, uno che pare per bene. Non si può sopportare che Roma, la città ideale, sia annerita da un’ombra che sembra poter apparire e scomparire sotto gli occhi di tutti [..] Non si può aderire all’idea che l’ordine nuovo non sia ordine..

Ecco che Nino Girolimoni sembra aderire a questo ideale di “anti italiano”: gli investigatori, che erano sotto pressione da parte del regime, che non poteva tollerare che un assassino la scampasse alla legge fascista, erano arrivati a lui a seguito della denuncia di un signore, che aveva raccolto i timori della ragazzina che lavorava in casa, quella che veniva chiamata la “servetta”.
C’era quest’uomo, sempre sorridente, che l’aveva importunata, girava sempre con la sua macchina verde, ben vestito.. che sia lui il mostro?

Girolimoni aveva la colpa di essere celibe, figlio di nn, amante della bella vita e delle donne. Appassionato di fotografia, tanto da avere in casa molte foto degli scorci di Roma, dove venivano ritratte anche delle bambine, particolare che fu usato contro di lui.

Dal giorno in cui Benito Mussolini, rabbrividendo nelle più profonde fibre del suo tenerissimo cuore di padre, disse: "Voglio che l'immondo bruto venga arrestato", tutti ebbero la convinzione assoluta, incrollabile che il mostro non sarebbe sfuggito dalle maglie della rete, e tutti attesero fiduciosi, senza impazienze, senza commenti, che il comandamento del duce venisse eseguito

L'Impero, 9 maggio 1927

Si deve trovare il mostro, a qualunque costo, per rispettare il “comandamento” del duce, quel Mussolini che voleva plasmare gli italiani e l’Italia secondo l’ideale fascista.

E così che scatta la tenaglia contro questa persona: per lo zelo dei funzionari della Questura di Roma, desiderosi di mettersi in buona luce col regime, per l’avidità di qualche testimone attirato più dai soldi della taglia che non dal desiderio di fare giustizia.

Gino Girolimoni è il mostro, per i giornali, imbeccati dall’agenzia Stefani, l’unica agenzia di stampa, vicina al regime e a Mussolini:

Non può che essere un immorale. Persino i tratti somatici lombrosianamente lo denunciano: “Gino Girolimoni è alto m.1,73, volto sbarbato, un po’ calvo, occhi stranissimi, di taglio quasi mongolico, con sguardo obliquo, falso sfuggente. In tutti gli altri tratti si ritrova il tipo classico del degenerato”

Un mostro sbattuto in prima pagina, come successo poi anni dopo con un altro innocente, Pietro Valpreda, il mostro responsabile della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Ma forse questa è un’altra storia, o forse no. Di certo è che la stampa italiana dell’epoca si dimostrò essere solo un ignobile megafono della propaganda di regime:

Quella a cui si assiste già dall’inizio del 1924 è la “fascistizzazione”della stampa, ovvero una forma sottile e maligna di autocensura che i direttori dei quotidiani e riviste impongono per paura, per bisogno di sopravvivere o per piaggeria.

Ma c’è una persona che non crede alla colpevolezza di Girolimini: è un poliziotto anzi, un superpoliziotto. Si chiama Giuseppe Dosi, ha imparato le moderne tecniche di investigazioni, è una persona dotata di buon intuito e, cosa ancor più importante, è un poliziotto che ritiene di dover lavorare per la giustizia, non per il duce.
L’assassino sa muoversi nei quartieri di Roma, conosce il Tevere, è vestito bene e parla italiano: non può essere uno straccione o un balordo, su cui fino a quel momento si sono concentrate le indagini, deve essere uno che conosce il fiume, un fiumarolo.

Per Dosi è un altro il responsabile di quelle morti: un prete anglicano che aveva incontrato a Capri dove era stato mandato dal capo della polizia Bocchini per una indagine sui “facili” costumi sessuali dell’isola

Qualche mesi prima, a gennaio, sull’isola è arrivato un altro uomo che presto incontrerà, un pastore inglese quasi settantenne: si chiama Ralph Lyonel Brydges. Vive a Roma in via Po. Alto, snello, baffi a spazzola biondicci, occhiali tondi a stanghetta. È atletico, dimostra vent’anni meno dei suoi, ma soprattutto, ha una peculiarità che lo costringe a spostarsi spesso: gli piacciono le bambine.

L’autore, Alessandro Gorza, ci racconta da una parte il calvario di Nino Girolimoni, finito stritolato da questa non indagine, rinchiuso per dieci mesi in un carcere, la sua immagine distrutta dai giornali.

Dall’altra parte l’indagine condotta personalmente da questo strano poliziotto, Dosi, una “indagine non autorizzata”, poco amata dai suoi colleghi della polizia, specie quelli che dall’arresto di Girolimoni aveva guadagnato delle promozioni.

E poco amata anche dal regime, perché il regime e la sua polizia non sbagliano mai. Ma soprattutto perché Brydges era inglese e l’Inghilterra era, in quegli anni, un paese con cui il fascismo non voleva avere problemi, per le sue ambizioni imperiali in Africa.

Grazie all’ostinazione del suo avvocato, Ottavio Libotte e al coraggio del giudice istruttore di Roma che aveva in mano il fascicolo, Girolimoni venne prosciolto da ogni accusa per non aver commesso il fatto e uscì dal carcere nel marzo del 1928.

Ma era un uomo già morto: la notizia del suo proscioglimento non venne pubblicata da nessun giornale, nemmeno un trafiletto. Per i romani, eccetto che per una cerchia di amici, era ancora lui il “mostro”.

Giro Girolimoni ascolta in silenzio, il volto pesante, provato. Le braccia crollate lungo i fianchi e il collo abbandonato all’indietro sulla seggiola.. La trappola di Pacciarini, il caso costruito da Giampaoli e la fame di potere di Angelucci. Massacesi, che si è venduto per cinquantamila lire. Gli altri comprimari di quest’opera grottesca che più kafkiana, folle, ingiusta e dolorosa di così non si sarebbe potuta immaginare.

L’agenzia Stefani e il suo immenso potere e quel legame, quell’amicizia che lega il capo assoluto della Stefani direttamente al duce. L’ordine di Mussolini di smetterla con la cronaca nera, prima; di non parlare più di Girolimoni, dopo.

Morì in povertà, nel 1961, da solo: al suo funerale in prima fila, l’ex Questore Giuseppe Dosi.

Anche lui verrà punito dal regime per la sua ostinazione a voler proseguire quella indagine così scomoda, finirà persino in un manicomio per qualche mese, per poi tornare a fare il suo mestiere alla radio, l’Eiar.

Girolimoni è stato distrutto dall’accusa di essere il mostro di Roma. Brydges ha evitato la pubblica gogna solo perché inglese e l’Inghilterra, in quel momento, è un partner fondamentale da non insospettire. Posto giusto, momento giusto.

Quel prete anglicano, Lyonel Bridges, riuscì ad eclissarsi e a sfuggire alla giustizia: ma era lui il mostro? L’autore è scettico a riguardo, le prove raccolte da Dosi non bastano a togliere di mezzo tutti i dubbi. Forse il mostro va scritto al plurale: di certo Gino Girolimoni era innocente.

Di certo quella storia ci deve far riflettere sulla nostra Italia, quella di oggi.


La scheda del libro sul sito dell'editore Giunti

I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon


Nessun commento: